lunedì 29 gennaio 2018

Acqua in Movimento

Acqua in movimento: per il diritto all'acqua, per il diritto al futuro
Una carovana partirà dai territori e giungerà a Roma in occasione della Giornata Mondiale dell'Acqua
1 febbraio – 25 marzo 2018

Il movimento per l'acqua ha aggregato culture ed esperienze differenti, facendo così intravedere nella battaglia per l’acqua il paradigma di un altro modello di società.
Dal 2011 sono cambiati 5 governi, tutti hanno ignorato e contraddetto il referendum favorendo la privatizzazione del servizio idrico e degli altri servizi pubblici locali, e reinserendo in tariffa un profitto garantito ai gestori.
Oggi una strategia ben più subdola di quella sconfitta dal referendum favorisce i processi di fusione e aggregazione (come ad es. la società interregionale, prevista dall’ultima legge di stabilità, che creerà il mega acquedotto del Mezzogiorno d’Italia) tra aziende con protagonisti le 4 mega-multiutility - A2A, Iren, Hera e Acea - già quotate in Borsa, per competere sul mercato globale.
La crisi idrica, aggravata da surriscaldamento globale e dai relativi cambiamenti climatici, ha fatto emergere le responsabilità di una gestione privata che risparmia sugli investimenti infrastrutturali per massimizzare i profitti.
La logica di massimizzare il profitto ignorando le conseguenze su ambiente e salute si è scaricata pesantemente sulla qualità dell'acqua. C'è un buco culturale, per cui lo sviluppo urbano, agricolo e industriale trascura il suo impatto sulla qualità dell'acqua di superficie e di falda, fino a renderla in certe situazioni non idonea al consumo umano e alla stessa vita acquatica. In questo modo abbiamo contratto un debito ambientale ed ecologico che noi tutti dobbiamo pagare in termini di salute e qualità della vita, mentre emergono sostanze nocive che non siamo ancora nemmeno in grado di monitorare adeguatamente. Occorre mutare profondamente i comportamenti e muoversi verso una strategia della prevenzione e della precauzione che tuteli l'acqua.
Le privatizzazioni sono un'espropriazione decisionale dei cittadini e delle comunità locali: é necessario reinventare nuovi processi decisionali, una democrazia partecipativa, per reagire all'appropriazione privata di un bene comune fondamentale, e ad una gestione pubblica sempre più separata ed estranea alla finalità di perseguire gli interessi sociali generali. Abbiamo denunciato le scelte tariffarie esose e antipopolari dell’AEEGSI (ora ARERA, con competenze anche sui rifiuti), la pesante violazione referendaria, la sua complicità nel lasciar usare i tanti soldi che ci sono non per gli investimenti in un servizio così essenziale - o per la riduzione della tariffa - ma per remunerare invece gli azionisti pubblici e privati. Per la gravità delle scelte compiute, per l’enormità dei compensi ai suoi 5 consiglieri (quasi € 1,500.000 l’anno pagato con le nostre tariffe), per la loro connivenza con l’abuso dei conguagli tariffari arretrati (ha dovuto intervenire il Parlamento per limitarli agli ultimi due anni) chiediamo lo scioglimento di ARERA e il ritorno delle sue competenze al Ministero dell’Ambiente.
Così in Italia, in Europa e nel mondo, i movimenti continuano a promuovere il diritto umano universale all’acqua bene comune contro le multinazionali e le istituzioni del Consiglio Mondiale dell’Acqua che vogliono decidere sulla testa dei cittadini e a cui, anche quest’anno da Brasilia, contrapporremo il FAMA (Forum Altenativo Mondiale dell’Acqua - 17-22 marzo). Stiamo tessendo nuove relazioni sui territori, costruendo una conoscenza diffusa, studiando modelli alternativi, partecipando attivamente al European Water Movement, opponendosi ai trattati internazionali sul commercio quali TTIP e CETA e aderendo alla petizione europea Stop al Glifosato.
Oggi più di ieri è necessaria una radicale inversione di tendenza rispetto a questo modello e diviene sempre più importante riaffermare il valore paradigmatico dell'acqua come bene comune, ribadendo che: l'acqua è un diritto umano universale e fondamentale ed è la risorsa fondamentale per l'equilibrio degli ecosistemi; l'acqua è un obiettivo strategico mondiale di scontro con il sistema capitalistico-finanziario; la gestione partecipativa delle comunità locali è un modello sociale alternativo; è necessario giungere ad un sistema tariffario equo, non volto al profitto e che garantisca gli investimenti.
Per affermare questi principi, proponiamo un rinnovato percorso di mobilitazione: una “carovana dell'acqua” che attraversi vari territori con una serie di iniziative collegate a partire dal 1 febbraio per concludersi il 25 marzo a Roma con un'iniziativa pubblica in occasione della Giornata Mondiale dell'Acqua.



mercoledì 24 gennaio 2018

[Iran] Concerto a Isfahan

In questi giorni che non sono stata online sono accadute tante cose… Provo a informarvi piano piano.


La settimana scorsa è uscita la foto di un concerto a Isfahan, dove il rappresentante della “guida suprema” (per noi "il dittatore”) ha dato l’ordine di togliere dal gruppo una donna musicista. Il concerto si sarebbe fatto solo senza di lei o… senza di lei!
Lei ovviamente ha deciso di ritirarsi per il bene del gruppo ma ha accompagnato il gruppo da dietro le quinte.
Foto triste, molto triste…


Ma poi esce un’altra foto di un artista molto famoso con dedica a tutte le ragazze musiciste che a causa di leggi assurde, qualche volta non riescono ad esibirsi sul palco:
“velo bianco… musica… natura… donna… donna libera!”
Sapete, mentre scrivevo questo post ho pensato che i desideri e i sogni di certe persone sono la vita quotidiana di altre persone...

Questo è triste. Ingiusto e triste. 





martedì 23 gennaio 2018

[Iran] il mercoledì bianco


Allora...
Vi ricordate le proteste in Iran di qualche settimane fa? Ecco!
Sono state arrestate tante persone, tra loro giornalisti, blogger, attivisti, studenti e gente normale. Una di queste persone è la ragazza (di cui non si sa ancora il nome), diventata il simbolo delle proteste. Di lei si sa che ha 31 anni e un figlio di 19 mesi. È stata arrestata poche ore dopo essersi tolta il velo in una delle strade principali di Tehran -il centro delle proteste anche nel 2009- che si chiama "Enghelab" (Enghelab vuol dire Rivoluzione). Poi rilasciata e di nuovo arrestata qualche giorno dopo; a oggi è ancora e di nuovo in galera. Mentre io stessa ero sottoposta ad interrogatorio a Tehran (Centro Khark), ho visto lei lì; e appena sono uscita ho avuto la fortuna di incontrare uno dei miei idoli -forse la persona che ammiro di più a questo mondo- l'attivista e avvocatessa (!) Nasrin Sotudeh. Lei sta facendo tutto il possibile per farla uscire.


Mentre tutto questo succedeva a Tehran, a Londra un'altra amica attivista, Masih Alinejad, ha fatto partire un trend sui social:
" #dove_è_la_ragazza_di_Enghelab " (دختر_خیابان_انقلاب_کجاست#) e tutti hanno iniziato a fare le foto come lei o a parlare di lei... Pure Mana Neyestani ha fatto questo disegno per lei e per tutte le donne che lottano contro il velo obbligatorio in IRAN.

Ora... Voi come potete darci una mano??
Semplice: parlate il più possibile del "Mercoledì Bianco" (White Wednesdays o, in persiano, چهارشنبه های سفید) che è la nostra lotta: i mercoledì ci vestiamo di bianco (spesso solo il velo bianco) e dove possiamo togliamo il velo in pubblico. Nei prossimi giorni ne parlarò meglio con voi e scriverò qualcosa per poter avere più attenzione dall'estero sull'argomento "velo obbligatorio in Iran".



la ragazza della strada Enghelab durante le manifestazioni
Nasrin Sotudeh ed il marito
 

venerdì 19 gennaio 2018

Lunga vita alle cose. Tremano i mercanti

La notizia è del 28 dicembre ed è di quelle destinate a fare storia, non tanto per la sua rilevanza penale, quanto per i suoi risvolti culturali, economici, ambientali. Di scena è la Procura di Nanterre che ha deciso di aprire un fascicolo a carico di Epson, Brother, Canon e HP, multinazionali di apparecchiature informatiche sospettate di obsolescenza programmata. Una pratica largamente in uso in tutto il mondo, ma che in Francia è proibita dal 2015, con pene che possono arrivare fino a due anni di reclusione. E dire che nel 1932, tale Bernard London aveva proposto di renderla obbligatoria per legge, come strategia per rilanciare i consumi durante gli anni della grande depressione.
Dal latino obsolescens, traducibile come invecchiamento, perdita di funzionalità, l’obsolescenza programmata consiste nel progettare oggetti con tempi di vita predeterminati. Una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti dei consumatori lanciata per la prima volta da un gruppo di imprese produttrici di materiale elettrico che per assicurarsi la vittoria non esitò ad allearsi in un cartello denominato Phoebus. L’atto di nascita avvenne il 23 dicembre 1924 in un sontuoso hotel di Ginevra dove si incontrarono i dirigenti delle principali imprese mondiali di lampadine. Constatato che le vendite languivano a causa di lampadine capaci di durare fino a 2.500 ore, decisero di accordarsi su modelli che non durassero oltre le 1.000 ore. Un patto di ferro che impegnava ogni impresa a  test preventivi di cattiva qualità prima del lancio di ogni nuovo prodotto.
Il caso fece scuola e l’obsolescenza programmata si estese a molti altri settori, ciascuno con le proprie strategie di usura e di scoraggiamento alla riparazione. Ora utilizzando metalli ad arrugginimento precoce, ora cerniere di facile inceppamento, ora batterie di breve durata nascoste in alloggiamenti sigillati. Quanto alle stampanti, l’associazione francese Hop, da cui la Procura di Nanterre ha preso spunto, ha denunciato che la turlupinatura più frequente si annida nei microprocessori. Molti di loro arrestano il sistema dopo un numero di fotocopie troppo basso, quando nelle cartucce c’è ancora il 20 per cento di inchiostro.
Il 9 giugno 2017 anche il Parlamento Europeo si è espresso contro l’obsolescenza programmata ed ha invitato la Commissione Europea ad adottare tutte le misure che servono per incoraggiare le imprese ad uniformarsi a criteri di robustezza, riparabilità e durata. Una scelta motivata non solo dalla volontà di evitare ai consumatori inutili spese, ma soprattutto di evitare al pianeta inutili saccheggi e contaminazioni. Vari studi hanno dimostrato che allungando la vita degli oggetti si possono ottenere sensibili riduzioni di rifiuti solidi e di anidride carbonica.
Uno dei settori che genera prodotti a vita particolarmente breve è quello dell’elettronica. Fra telefonini, stampanti e computer ogni anno nel mondo si producono oltre 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, per la maggior parte classificabili come rischiosi. Una categoria di rifiuti che come denuncia la Laudato sii alimenta un vasto traffico illegale verso i paesi del Sud del mondo. Ma nessun governo ha mai mobilitato il proprio esercito per arrestarlo. 
Si stima che ogni anno oltre 11 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi salpino illegalmente verso le coste africane e asiatiche, dando luogo a immense discariche a cielo aperto. Una delle più grandi è quella di Agbogbloshie, un’estensione di due ettari posta alla periferia di Accra, capitale del Ghana. La piana, cosparsa di televisori, computer, stampanti e ogni altro tipo di carcassa elettronica, è contornata da una vasta baraccopoli in cui si consuma una tale violenza da essere stata battezzata Sodoma e Gomorra. Molti dei 40.000 abitanti della baraccopoli, bambini compresi, passano le loro giornate nella discarica cercando di recuperare ogni sorta di minerale possibile. E siccome la tecnica per liberare i minerali dalla plastica è il fuoco, tutta l’area è avvolta da una cappa di fumo ripieno di diossina e ogni altro veleno che genera tumori in ogni dove. Da Taranto ad Accra: così il consumo di cose si trasforma in consumo di persone.

Tanti sono i cambiamenti da introdurre per consentire a ogni abitante del pianeta di poter vivere dignitosamente del proprio lavoro svolto in condizioni di dignità, sicurezza e sostenibilità. Ma un modo è anche quello di combattere l’obsolescenza, che prima di essere un attacco alla vita delle cose è un attacco alla felicità delle persone, condannati come siamo alla frustrazione perenne di chi è costantemente incalzato da nuove sollecitazioni. Del resto già nel 1917, Charles Kettering, direttore di prim’ora della General Motors, ci aveva avvertito: “La chiave della prosperità economica è la creazione organizzata dell’insoddisfazione”. Ma l’infelicità è un prezzo troppo alto da pagare sull’altare della crescita. E’ tempo di cominciare a liberarci dall’insoddisfazione cronica pretendendo oggetti fatti per durare ed essere riparati. Ci guadagneremo in salute, sostenibilità ed occupazione.

Francesco Gesualdi
Allievo di don Milani, ha fondata nel 1985 il Centro Nuovo Modello di Sviluppo
 

mercoledì 10 gennaio 2018

Yemen, mille giorni di terrore

Il Paese e’ sull’orlo di una delle carestie piu' terribili dell’era moderna. Lo racconta il rappresentante dell’Unicef in Yemen.

Volevo iniziare questo articolo raccontando cosa è successo nello Yemen da marzo, quando sono terminati due anni di guerra nel Paese...  Ma una storia e’ rimasta nella mia testa e non riesco a tirarla fuori finché non la scrivo. È la storia di Ali, che illustra tutto ciò che è successo da allora.
Ho incontrato Ali a settembre in un ospedale di Aden, nel sud del Paese, in una zona sotto il controllo del governo yemenita del presidente Hadi, in gran parte in esilio, ma che visita di tanto in tanto il posto. Ali si trovava nell'area di intervento contro il colera ed era collegato alla vita attraverso dei fluidi per via endovenosa. Il poco che ne è rimasto.
Ali aveva sette anni e non credo che pesasse in quel momento più di 15 chili. Era letteralmente pelle e ossa. Lo sguardo perso. Abbiamo provato più volte a parlare con lui, ma lui non era lì, solo il suo corpo ossuto e il suo sguardo perso. Inghiottendo le mie lacrime, chiesi a sua madre cosa fosse successo perche’ fosse stato portato cosi’ tardi e in quelle condizioni all'ospedale. Mi disse che aveva dovuto metterci un certo impegno per raccogliere il denaro di cui aveva bisogno per trovare un mezzo di trasporto per portarcelo. Non c'è risposta a tale ingiustizia.
Ali è stato salvato, ma molti bambini sono morti quest'anno per cause totalmente prevenibili. Con due anni di conflitto alle spalle, la situazione delle famiglie è solo peggiorata. I tassi di malnutrizione rimangono tra i più alti del mondo, con quasi due milioni di bambini malnutriti, e di questi, 385.000 con malnutrizione grave acuta. Anche se l'Unicef fornisce cure e cure a gran parte di loro in questa situazione, molti tornano poi al programma di trattamento perché una volta tornati a casa non hanno nulla da mangiare.
Lo Yemen è sull'orlo di una delle più terribili carestie dell'era moderna: sette milioni di persone, metà delle quali ragazze e ragazzi, dipendono dagli aiuti alimentari per mandar giu’ qualcosa una volta al giorno, e altri 10 milioni soffrono di insicurezza alimentare. Ci sono 17 milioni di persone che non sanno se mangeranno anche domani. Possiamo metterci al loro posto anche se è solo per cinque minuti?
In questo contesto l'epidemia di diarrea acuta (colera) che ha colpito lo Yemen quest'anno, coinvolgendo quasi un milione di persone, non è potuta arrivare in un momento peggiore. Il sistema sanitario era già collassato, senza budget da parte del governo o delle autorità di fatto, con tutti i professionisti della salute non retribuiti da ottobre 2016 e con metà dei centri sanitari chiusi. Grazie al lavoro dell'Unicef, dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e di altre agenzie delle Nazioni Unite e ONG, l'epidemia e la situazione sono state gestite. Ma il colera tornerà perché le infrastrutture sanitarie crollate e la mancanza di acqua e cibo sono i suoi terreni fertili. A questo dobbiamo aggiungere un focolaio di difterite che si sta diffondendo nel Paese. Al momento siamo tutti concentrati nell'ottenere i vaccini necessari, che con un po 'di fortuna (e molto lavoro) raggiungeranno Sanaa.
Mentre tutto questo stava accadendo, la guerra stava seguendo il suo corso e il porto di Hodeida e’ stato bloccato nello stesso momento dell'aeroporto di Sanaa. La maggior parte degli aiuti umanitari entra nel Paese attraverso questo porto e attraverso l'aeroporto nel caso di vaccini e medicinali dell'Unicef. Ma lo Yemen importa anche l'80% delle merci che consuma, tra cibo e carburante, e quindi il blocco è riuscito a soffocare una popolazione già impoverita, disoccupati, senza la possibilità di guadagnarsi da vivere e in situazioni estreme. E’ bene sapere che qui il carburante (diesel, benzina) è essenziale per la produzione e la distribuzione di acqua e il trattamento delle acque reflue. Senza carburante non c'è acqua e senza acqua non c'è vita. Fino ad oggi, siamo riusciti a ottenere aiuti umanitari con il contagocce, ma non le importazioni commerciali, senza le quali i prezzi di cibo, carburante e acqua sono saliti alle stelle. Le famiglie devono decidere tra l'acquisto di acqua o cibo.
Poche settimane fa, i due alleati nel nord del Paese che costituivano il governo di fatto, hanno iniziato a prendere le distanze e a combattersi tra loro. A Sanaa sono morte circa 200 persone, più di 400 sono state ferite e, soprattutto, il precedente presidente, capo di una delle fazioni che controllava il nord, e’ morto. Da allora il conflitto si è intensificato nella maggior parte del Paese. Si temono molte altre morti, incertezze, più povertà e niente di buono per bambini come Ali, la cui infanzia è stata interrotta da questo conflitto.
A soli sette anni, Ali ha sofferto sulla propria pelle la mancanza di cibo, la conseguente malnutrizione, mancanza di reddito nella famiglia e non ha potuto nemmeno prendere un autobus per l'ospedale, la mancanza di acqua pulita, e sicuramente ha assistito agli orribili echi della guerra, della paura e dell'incertezza.
Questi giorni di dicembre sono 1.000 giorni che e’ in corso il conflitto. 1.000 giorni di orrore per i più piccoli come Ali. Chiediamo solo agli uomini che decidono, per favore, di fermare la guerra nello Yemen, ora. I motivi per farlo si trovano in questo conflitto che molte vite innocenti stanno portando avanti.

Meritxell Relaño, rappresentante Unicef in Yemen
Articolo pubblicato sul quotidiano El Pais del 02/01/2018

lunedì 1 gennaio 2018

[Iran] Viva la libertà

Incendio, di Mana Neyestani
Ricevo messaggi da tanti di voi, amici italiani, perché avete letto o visto la notizia delle proteste in Iran e che hanno sparato e ucciso 6 persone.
Innanzitutto, io sto bene.
Mi chiedete cosa ne penso io. Cosa sta succedendo? Non lo so!
Vi dico solo che tutto è iniziato grazie a quelli come quel co###one maledetto di Ahmadinejad, che volevano mettere in ginocchio il governo del presidente Rouhani (e così mettendo fine alle riforme in Iran per sempre) facendo credere che è il governo di Rouhani che sta portando il paese verso una crisi economica ancora più devastante. Hanno organizzato delle manifestazioni tre giorni fa, a Mashhad, una città pro-regime, e la gente (pagata bene per farlo) si è lamentata della corruzione, dei problemi economici, della crisi ecc.ecc.
Il regime non si aspettava, però, che in quasi 30 città dell'Iran il popolo usasse questa opportunità di caos, per gridare sempre più forte "morte al dittatore" e "viva la libertà", com'è successo oggi a Tehran e Isfahan (ecco perché non ho avuto Internet e forse sparirò nei prossimi giorni).
Quindi sì, cari amici miei, quella che doveva essere una corda per strangolare le riforme (e con essa, il nostro futuro e la nostra libertà), è finita sul collo del regime.
Le manifestazioni di sicuro verranno soffocate in fretta con l'aiuto dei guardiani della rivoluzione come hanno fatto nel 2009 e sì, il governo attuale ha perso tanto potere e quindi le riforme non si faranno nemmeno nei prossimi anni, ma una cosa è certa ormai...
Il leader del mio paese ovvero, il dittatore Kh.ame.nei, ha i giorni contati...
IRAN purtroppo vedrà giorni bruttissimi nei prossimi mesi/anni... ma non ci sarà più il dittatore!





La storia di un palestinese ucciso due volte


Il tiratore scelto dell’esercito israeliano non poteva prendere di mira la parte inferiore del corpo della sua vittima: Ibrahim Abu Thuraya non ce l’aveva più. L’uomo di 29 anni, che lavorava in un autolavaggio e che viveva nel campo profughi Shati di Gaza, aveva perso entrambe le gambe dopo un attacco aereo israeliano nel corso dell’operazione Piombo fuso del 2008. Per muoversi usava una sedia a rotelle. Il 15 dicembre 2017 l’esercito ha portato a termine il suo lavoro: un tiratore scelto ha mirato alla sua testa e l’ha ucciso.
Le immagini sono orribili (abbiamo scelto di pubblicare solo la prima, NdR): Abu Thuraya in sedia a rotelle, spinto dagli amici, che invita a protestare contro la dichiarazione degli Stati Uniti che riconosce Gerusalemme come capitale d’Israele, Abu Thuraya a terra che striscia verso la recinzione dietro la quale è imprigionata la striscia di Gaza, Abu Thuraya che sventola una bandiera palestinese, Abu Thuraya che solleva entrambe le braccia in segno di vittoria, Abu Thuraya trasportato dai suoi amici mentre muore dissanguato, il cadavere di Abu Thuraya steso su una barella, titoli di coda.
Il tiratore scelto dell’esercito non poteva mirare alla parte bassa del corpo della sua vittima, il 15 dicembre, e ha quindi deciso di sparargli alla testa e ucciderlo.
Si può ragionevolmente pensare che il soldato si sia reso conto che stava mirando a una persona in sedia a rotelle, a meno che non stesse sparando indiscriminatamente su una folla di manifestanti.
Abu Thuraya non era una minaccia per nessuno: che pericolo poteva rappresentare un uomo in sedia a rotelle privo di entrambe le gambe e imprigionato dietro una recinzione? Quanta malvagità e insensibilità occorre per sparare a una persona in sedia a rotelle? Abu Thuraya non è stato il primo, e non sarà l’ultimo, disabile palestinese ucciso dai soldati dell’esercito israeliano, i soldati più morali al mondo, come dicono alcuni.
L’uccisione di Abu Thuraya è passata praticamente inosservata in Israele. L’uomo era uno dei tre manifestanti uccisi quel giorno, un giorno come gli altri. Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se dei palestinesi avessero ucciso un israeliano in sedia a rotelle. Quale furore si sarebbe scatenato, quale fiume d’inchiostro sarebbe stato riversato per parlare della loro barbarie e crudeltà. Quante persone sarebbero state arrestate, quanto sangue sarebbe stato versato per vendicare la cosa.

Crimine di massa

Ma quando i suoi soldati si comportano in maniera barbara, Israele tace e non sembra interessata. Nessuno shock, nessuna vergogna, nessuna pietà. Sperare in un’espressione di rimorso, rimpianto o scuse è impensabile. Anche l’idea di obbligare i responsabili di quest’omicidio criminale a rendere conto della loro azione è una pia illusione. Abu Thuraya è diventato un uomo morto quando ha osato partecipare alle proteste della sua gente, e la sua uccisione non interessa a nessuno, visto che era un palestinese.
Sono undici anni che la Striscia di Gaza è chiusa ai giornalisti israeliani. Si può solo immaginare quale fosse la vita di questo addetto a un autolavaggio di Shati prima della sua morte, come debbano essere state curate le sue ferite in assenza di servizi di riabilitazione decenti, in questo territorio posto sotto assedio, senza nessuna possibilità di ottenere delle protesi per le gambe.
Come si muovesse con una sedia a rotelle meccanica, non elettrica, nei vicoli polverosi del suo campo. Come abbia continuato a lavare auto nonostante la sua disabilità, dal momento che a Shati non esiste altra scelta, anche per le persone disabili. E come abbia continuato a lottare coi suoi amici, nonostante la disabilità.
Nessun israeliano potrebbe immaginare come si vive in quella gabbia, la più grande del mondo, chiamata Striscia di Gaza, parte di un esperimento di massa senza fine sugli esseri umani.
Bisognerebbe osservare quei giovani disperati che, nelle manifestazioni del 15 dicembre, si sono avvicinati alle recinzioni, armati di pietre che non potevano colpire nessuno, e che lanciavano attraverso gli spiragli esistenti tra le sbarre dietro le quali erano intrappolati.
Questi giovani non hanno alcuna speranza nella vita, anche quando possiedono due gambe sulle quale muoversi. Abu Thuraya aveva ancora meno speranze.
C’è qualcosa di patetico eppure dignitoso nella foto dell’uomo che solleva una bandiera palestinese, vista la doppia prigionia di cui è vittima: quella nella sedia a rotelle e quella nel suo paese assediato.
La storia di Abu Thuraya riflette le condizioni in cui vive il suo popolo. Poco dopo essere stato fotografato, la sua tormentata vita è giunta a conclusione. Quando, ogni settimana, le persone urlano: “Netanyahu a Maasiyahu!”, in prigione, qualcuno dovrebbe finalmente cominciare a nominare anche il tribunale dell’Aja.


Gideon Levy,
giornalista israeliano