martedì 24 luglio 2018

[IRAN] PanahJou, i profughi

Noi in Iran viviamo malissimo ma se c’è una cosa della nostra cultura che adoro, è quella di avere una lingua bellissima, una letteratura meravigliosa...

In persiano, per esempio, i profughi si chiamano PanahJou (پناهجو).


Panah non ha un equivalente in italiano (o forse sì?).
Quando eravate piccoli, vi era mai capitato di perdervi nel parco? Ricordate la sensazione di terrore quando con gli occhi spalancati, cercavate la vostra mamma? E quando lì, da lontano, la vedevate correre verso di voi, vi ricordate la sensazione di immensa pace e felicità?
Quella sensazione è Panah.

Siete mai stati lontani da casa per tanto tempo? Avete presente quella sensazione di nostalgia e felicità quando con la macchina girate nella vostra strada e da lontano vedete la vostra casa e sapete che tra pochi minuti, abbraccerete la vostra famiglia e tutti i vostri cari che vi aspettano con gioia e impazienza?
Quella sensazione si chiama Panah.

Avete perso una persona molto cara? Immaginate di essere lì, al funerale, qualcuno vi chiama, vi girate e vedete un vecchio amico, molto caro, che non vedevate da tantissimo tempo e che non pensavate di rivedere mai più. Lo abbracciate piangendo, piangendo forte.
Quella sensazione di sfogo e di tristezza si chiama Panah.

Invece “Jou” vuol dire “una persona alla ricerca di…”
Noi chiamiamo i profughi PanahJou: persone alla ricerca di quell'abbraccio, di quella sensazione.

Forse non servirà a guarire questa malattia di odio e di intolleranza che si sta difondendo nella società italiana, ma forse smettere di chiamarli i “migranti”, “naufraghi”, “clandestini”, “quelli lì” potrebbe essere un inizio...

#no_more_wars
#no_more_walls



Jass.

giovedì 21 giugno 2018

El Salvador, un Paese in mano alle bande criminali

È passato oltre un anno da quando Donald Trump ha cominciato a twittare sui bad hombres della Mara salvatrucha 13 (Ms13). Oggi, grazie a Trump, la banda criminale ha aumentato il suo peso nell’agenda sociopolitica mondiale, mentre il fenomeno delle maras, di cui la Salvatrucha è soltanto un anello, riceve più attenzione che mai da parte della stampa internazionale, degli studiosi e della rete internazionale delle ong.
Assistiamo a qualcosa che fino a dieci anni fa era impensabile: la Ms13 si è inserita prepotentemente in diversi dibattiti elettorali negli Stati Uniti. Ogni giorno che passa, El Salvador e i salvadoregni vengono sempre più associati alla Ms13, così come da decenni ogni colombiano è associato al narcotraffico. Organizzazioni prestigiose come Medici senza frontiere e l’International crisis group hanno cominciato a interessarsi a quello che accade ormai da decenni nel paese “Pollicino d’America”. Se devo essere sincero, non mi stupirei se Netflix stesse già girando una serie tv sulle bande e gli squadroni della morte ambientata a Soyapango, Apopa o un altro quartiere difficile di San Salvador. 
Poliziotto salvadoregno con un uomo sospettato di appartenere a una gang
 Nessuno può negare che da quando Trump ha cominciato a occuparsi della Ms13, nel mondo si parla molto di più delle maras e di conseguenza del Salvador. Ma dubito che il mondo oggi ne sappia di più sulla reale portata del problema che tormenta noi salvadoregni.
Dopo diverse richieste insistenti, un rappresentante della Polizia civile nazionale (Pnc) mi ha consegnato un rapporto con la stima ufficiale del numero di affiliati alle maras in Salvador. Secondo il documento, che comprende informazioni raccolte dalla Pnc e dalla Direzione generale dei centri penali, nel paese vivono 64.587 esponenti delle bande criminali: 41.151 sono in libertà, 21.436 sono in prigione. Il documento riporta la data di giugno 2017.
Spesso le cifre, senza un contesto appropriato, sono soltanto numeri sterili, ma resta il fatto che questi 65mila pandilleros che dopo la sentenza della corte suprema dell’agosto del 2015 sono considerati terroristi a tutti gli effetti, rappresentano l’1 per cento della popolazione del paese. Pensateci, un cittadino su cento.
Ora mi rivolgo a te, amico colombiano che sei arrivato fino a questo punto del mio articolo. Immagina se in Colombia i guerriglieri e i paramilitari fossero stati 500mila. E tu, amica spagnola, pensa se Euskadi Ta Askatasuna avesse mai contato su 460mila gudaris. E voi, amici che mi leggete negli Stati Uniti, cosa pensereste se all’interno del vostro paese ci fossero tre milioni di affiliati di un’organizzazione terrorista? 
Dal punto di vista numerico è questo l’impatto delle maras in Salvador. Ma nella realtà dei fatti il problema è molto più vasto, perché le maras sono una piaga inequivocabilmente sociale, radicata in centinaia, migliaia di comunità impoverite in tutto il territorio. Per ogni activo – quasi tutti uomini – ci sono almeno quattro o cinque persone dipendenti dall’attività criminale: mogli, figli, familiari, simpatizzanti, collaboratori.
Torniamo alla data riportata sul documento: giugno 2017. Al governo salvadoregno, evidentemente, non piace far sapere quali sono le dimensioni del problema. L’effetto della criminalità sulla popolazione benestante o ricca è minore, dunque il governo cerca di dissimulare la realtà attraverso la propaganda. Giornalisti e accademici ripetono da anni che nel paese ci sono 60mila affiliati, ma dal 2012 lo stato non ha più pubblicato alcuna stima ufficiale sulle dimensioni del fenomeno.
Nel 2005 la stima ufficiale era di 11mila activos. Appena sette anni dopo e con un nuovo partito al governo, un rapporto del ministero della pubblica sicurezza fissava la stima in 62mila activos. Poi è arrivata la Tregua, che ha permesso alle maras di assumere il controllo di nuove aree. 
A partire dal gennaio del 2015, il governo del Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale (Fmln) ha fatto ricorso alla repressione più brutale nel tentativo di controllare le maras, con pratiche carcerarie che violano i diritti umani più basilari e con il tacito assenso alle esecuzioni extra-giudiziarie (la polizia ha comunicato, senza alcun pudore, di aver ucciso 1.400 persone nel corso di presunti scontri con i criminali). Il pugno di ferro seduce l’elettore salvadoregno, ma allo stato ha portato la denuncia di organizzazioni come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.
I numeri contenuti nel rapporto che mi è stato consegnato lasciano pensare che nemmeno calpestando i diritti umani (con le relative conseguenze nefaste che queste politiche pubbliche hanno avuto sul prestigio delle istituzioni) il governo è riuscito a fermare la crescita delle maras. Oggi ci sono più affiliati di cinque anni fa. Perché? I motivi sono molti, ma possono essere raggruppati in tre grandi concetti: per prima cosa, essere un pandillero continua a rappresentare un’opzione allettante per migliaia di giovani delle comunità povere ed emarginate; in secondo luogo bisogna considerare il flusso costante di criminali che escono di prigione e non sono riabilitati; infine l’aumento delle vittime generato dalla repressione dello stato è stato compensato da un allentamento del conflitto interno tra gli emeeses (appartenenti alla Ms-13) e i dieciocheros (appartenenti alla mara Barrio 18).
In questi cinque anni, però, le persone rinchiuse nelle carceri sono passate da 27mila a 39mila. El Salvador è uno dei paesi con più alto tasso di incarcerazione e con le carceri più affollate del mondo. Nonostante i tentativi di aumentare la capacità del sistema penitenziario, i posti disponibili nelle 28 strutture carcerarie del paese sono 18mila, meno della metà rispetto ai detenuti. Per non parlare dei 40mila affiliati a piede libero e di tutti quelli che collaborano con loro.
A meno che non si consideri l’ipotesi di un genocidio, la matematica dimostra che la linea repressiva non può essere una soluzione per risolvere il problema delle bande. Anche se lo stato riuscisse a punire efficacemente i crimini, il numero di persone che sarebbe costretto a incarcerare sarebbe insostenibile, soprattutto in un paese dalle risorse limitate e con un sistema penitenziario sull’orlo del collasso.
Davanti all’enormità delle cifre – che, ripeto, sono ufficiali ma vengono nascoste alla popolazione – e davanti alla prova che nemmeno la repressione più brutale può frenare l’espansione delle maras, mi vengono in mente soltanto due alternative: una è quella di andare avanti così, aspirando ogni anno al record di società più violenta del mondo e cercando di limitare l’impatto della criminalità sugli strati sociali più privilegiati; l’altra è quella di scommettere su una soluzione del conflitto attraverso il dialogo, una strada comunque spinosa e dolorosa che obbligherebbe la società salvadoregna a sopportare i terroristi della Ms13 e della Barrio 18 come attori sociali e politici. Tutto il resto, oggi come oggi, è solo un canto delle sirene



Razzismi

Tornando a correre, dopo tanto tempo che non lo facevo per piccoli problemucci fisici, questa mattina, in quella splendida condizione di apertura mentale che la serotonina in circolo m'induce, mi è venuta questa riflessione sul razzismo che vorrei condividere con i 12 lettori che avranno la bontà di leggermi.

Ritengo che esistano solo 2 forme di razzismo “dirette” e 2 forme – molto più gravi e pericolose – di razzismo indiretto. Le ho chiamate:
razzismo RETTILE
razzismo dell'IGNORANZA
razzismo dell'OPPORTUNISMO
razzismo dell'INDIFFERENZA

Il primo, il razzismo rettile, è quello legato al funzionamento meccanico della parte più antica del nostro cervello. Non mi dilungo molto su questa tema, ma ci sono esperimenti scientifici che dimostrerebbero in modo abbastanza incontrovertibile che a livello irrazionale abbiamo una tendenza piuttosto chiara di avversione verso ciò che ci appare diverso.
La parte superiore del nostro cervello serve proprio a correggere gli errori che la parte antica commette su molti altri aspetti che coinvolgono le nostre relazioni con persone e situazioni nelle società moderne.
Qui arriviamo al razzismo dell'ignoranza, quando anche la parte superiore del cervello commette errori. Si può essere razzisti solo se si è profondamente ignoranti sui fatti che coinvolgono episodi di razzismo. L'ultimo esempio relativo al presunto “censimento dei ROM" è solo uno dei tanti. Solo una persona profondamente ignorante (nel senso che non è a conoscenza dei fatti) può essere d'accordo con il concetto di “censimento dei ROM”. L'ignoranza può assumere moltissime forme. Si può essere ignoranti su ciò che effettivamente s'intende per “censimento”. Si può essere ignoranti sulla realtà dei ROM rispetto ai campi nomadi (solo un quinto dei ROM vive nei campi nomadi, quanti lo sanno?). Si può essere ignoranti circa la legislazione attuale. Si può essere ignoranti circa la differenza fra un “censimento dei ROM” ed un'indagine statistica sul fenomeno dei campi nomadi (cosa che è già stata fatta più volte, senza, ovviamente suscitare scandalo). Insomma, mille forme d'ignoranza inducono a convinzioni sostanzialmente razziste. Spesso il razzista ignorante non si crede razzista: l'ultima e più beffarda manifestazione della sua ignoranza.
 
Poi arriviamo alle forme più vili, infingarde e dannose di razzismo.
Il razzismo dell'opportunismo è quello di chi sfrutta le prime due forme di razzismo per trarne qualche utilità. L'opportunista non crede veramente in ciò che dice. In genere sono persone senza convinzioni, ma piene di convenienze. Salvini è solo l'ultimo esempio di questi tentativi malriusciti di essere umani. Il razzismo è una merce estremamente remunerativa proprio perché esiste in noi il seme del razzismo rettile e l'ignoranza è la cosa più diffusa nella nostra società. Spacciare razzismo è un'operazione con un tasso di rendimento molto elevato e pressoché certo. Per farlo è “solo” necessario inibire tutto ciò che ci rende profondamente esseri umani. Se si è disposti a pagare questo prezzo, si può aspirare a diventare uno dei tanti “Salvini” che la storia ha tristemente archiviato, avendo grandi vantaggi immediati e provocando devastanti danni a lungo termine a sé stessi ed alla società.
Infine arriviamo alla forma più dannosa di razzismo, il razzismo dell'indifferenza. Gli opportunisti possono svolgere il loro redditizio, quanto ignobile, business non solo grazie alle prime due forme di razzismo, ma anche grazie alla decisiva ignavia di coloro che non sono d'accordo ma hanno timore ad esporsi. Una parte di queste persone sono dei razzisti utilitaristi “latenti”, nel senso che magari non ne traggono vantaggi nel momento, ma potrebbero oppure non vogliono rischiare di perdere dei vantaggi che sentono di avere in questo momento. Altri sono dei deboli, altri ancora dei rassegnati che temono che sia tutto inutile.
Quest'ultima forma di razzismo è la più subdola perché spesso non c'è neppure la condanna né della propria coscienza, né del resto della società non ancora infetta dal morbo del razzismo, ma è una dei fattori principali grazie ai quali prospera la mala-pianta del razzismo.
Il razzismo rettile è il seme di questa pianta, l'ignoranza è il terreno nel quale il seme può dischiudersi e radicarsi, l'opportunismo è il concime e le sostanze chimiche che l'alimenta, l'indifferenza sono le condizioni ambiantali indispensabili: la pioggia, il giusto clima e le “cure” che la fanno prosperare.
Questo è il momento in cui chi non vuole essere razzista, in qualche sua forma, ha il dovere morale di fare qualcosa di concreto per porre un argine al razzismo strisciante ed esplicito che in modo incontrovertibile sta infettando le nostre società e qui in Italia abbiamo dei fatti così eclatanti che tacerli può significare solo che si è appartenenti ad una delle 4 forme di razzismo che ho appena delineato. E il momento di fare qualcosa. Non si può stare in silenzio a guardare.

venerdì 15 giugno 2018

[Iran] Siamo campioni insieme


Lo dico con orgoglio perché mi sento fiera!
In una delle piazze più importanti di Tehran era stato messo un grandissimo billboard per i mondiali, con l'immagine degli uomini di tutte le razze e minoranze etniche che vivono in Iran, però nel disegno c'erano solo gli uomini. Nessuna donna!!!

Abbiamo firmato una petizione (con le attiviste ancora in circolo della campagna un milione di firme), abbiamo scritto tante lettere al parlamento e abbiamo fatto girare la cosa sui social fino alla nausea, ed ha funzionato!!!!!!

Hanno cambiato l'immagine del billboard con una foto di uomini e donne iraniane che cantano l'inno prima della partita (con la scritta: با هم قهرمانیم, siamo campioni insieme. یک ملت یک ضربان: un popolo un battito)
Ed è gooooooooooooooooooal!

1-0 per noi!
Non posso più scrivere #mainagioia
forse almeno oggi: #soddisfazioni


Jass.

mercoledì 9 maggio 2018

in ricordo di Ermanno Olmi

Lettera a una Chiesa che ha dimenticato Gesù è il libro che il maestro Ermanno Olmi, che ci ha lasciato in questi giorni, scrisse 5 anni fa per Piemme.

“la Repubblica” del 4 marzo 2013 ne anticipò l’incipit

Cara Chiesa, non so più a chi rivolgermi e anche tu non mi vieni in aiuto. Ci parli di Dio ma sai bene che nessun dio è mai venuto in soccorso dell’umanità.
Nella lotta tra bene e male, l’uomo è sempre stato solo. Già nel racconto biblico si comincia con un delitto:«Che hai fatto Caino? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo dove sei nato…» dunque, dio ha udito benissimo il grido del fratello ucciso, ma non ha fatto nulla per trattenere la mano fratricida.
E adesso?  Cosa sta accadendo a tutti noi?  Come abbiamo fatto a ridurci così ?  troppo spesso ho la sensazione di non sentirmi in relazione con gli altri. Anche con le persone che mi sono più vicine. Mi trovo in uno stato confusionale, come se ognuno parlasse per conto proprio annaspando nel nulla.
Cara Chiesa di cristiani smarriti, ho deciso di scriverti non tanto per fede ma perché tu hai più di duemila anni di storia e forse puoi aiutarci a capire i nostri comportamenti. Abbiamo smarrito la via maestra della pacifica convivenza. Ovunque conflitti di religione, separazioni di razze. Chi crede in dio sa bene che il Creatore ha fatto l’uomo e la donna, ma non le razze. E che neppure ha dato di più ad alcuni per farli ricchi perché con il loro denaro umiliassero i poveri. Così ho deciso di scriverti.
Perché in questo tempo bastardo anche tu mi deludi, e mi dispiace. Probabilmente sono mosso più dal sentimento che dalla ragione. Del resto, è il sentimento che presiede ogni ragionamento.
Voglio credere, Chiesa di Cristo Gesù, che tu abbia i tuoi buoni motivi che io non posso conoscere né sarei in grado di capire: questioni istituzionali, ragioni di Stato. Ma ugualmente non riesco del tutto a giustificarti, perché vorrei sentire che prima d’ogni altro motivo c’è il tuo impulso di madre a proteggerci, e che sopra tutti i tuoi pensieri ci siamo noi, i tuoi figli. Io, e tanti come me, vorremmo che nelle difficoltà che ogni giorno dobbiamo affrontare non mancasse mai il tuo conforto. In momenti come questi che stiamo vivendo, sembra perduta ogni solidarietà fra gli uomini. Non mi dimentico che ci sono tanti cristiani di buona volontà, preti e laici, che prima ancora che nelle gerarchie ecclesiastiche si riconoscono in coloro che hanno più bisogno del nostro aiuto. Non sono soprattutto gli umiliati, i reietti che Cristo ti ha affidato?
Ma chi sono io, cara Chiesa, per pretendere di interrogarti e tirarti dentro a questioni di cui non sono all’altezza? Mi faccio coraggio pensando che chiunque poteva rivolgersi con confidenza a Gesù come ora io mi rivolgo a te. Non tanto perché tu debba a me delle spiegazioni. Tu sai bene quali sono i tuoi compiti e come agire, ma almeno aiutami a capire certi tuoi comportamenti a cominciare dall’attaccamento ai beni temporali. Mostraci che hai davvero a cuore i più deboli e diseredati. Che come vedi, sono sempre più numerosi e vengono al mondo solo per morire. Ma tu, Chiesa, ci dici che sono proprio costoro i primi presso il cuore di Gesù. E allora, se sei davvero Chiesa soccorritrice, ricordati anche della solitudine dei ricchi che non troveranno mai quiete nelle loro ricchezze.
Quel che adesso sto per dire disturberà gerarchie e devoti benpensanti e tutti coloro che proclamano la Chiesa madre di tutti. Ma tu, Chiesa dell’ufficialità, sei una madre distratta, più sollecita nei fasti dei cerimoniali che nell’annunciare la prima di tutte le santità: quella di coloro che credono in te anche soffrendo per le ingiustizie subite.
Sono convinto che tutto l’Occidente – e questa nostra Italia sempre più sfiduciata e incapace di nuovi slanci – abbia bisogno di un supplemento d’anima. Quel Gesù di Nazareth, falegname e maestro, col suo esempio può farci ancora ritrovare la gioia di come spendere il bene prezioso della nostra esistenza.
Invece tu, vecchia Chiesa che hai innalzato tanti altari di Cristo, sembri averlo dimenticato. Proprio tu! ecco perché oggi molti s’interrogano: «Quale sarà il luogo delle beatitudini dove il Maestro tornerà all’appuntamento coi nuovi discepoli di questo nostro tempo?…». Sei davvero tu, Chiesa cattolica, la casa aperta non solo ai cristiani obbedienti, ma anche a coloro che cercano dio nella libertà, oltre i loro dubbi?
Assisto sconsolato a quanto sta accadendo in Vaticano in questi ultimi mesi: intrighi, processi, scandali di pedofilia, movimenti di capitali nelle banche della stessa Chiesa. Il compianto cardinal Martini, nel momento estremo del suo congedo ci ha lasciato il suo ammonimento: «Siamo una Chiesa rimasta indietro di duecento anni, una Chiesa carica di addobbi e orpelli…». Una Chiesa ricca per i ricchi.
Ho nella mente un turbinare di interrogativi che non mi danno tregua. Quanti anni sono passati dal Concilio Vaticano II? E dal poverello di Assisi cosa abbiamo imparato e poi trascurato? E dai martiri di ogni tempo e di ogni fede? Cattolici, protestanti, ortodossi: eppure eravamo tutti ai piedi della stessa Croce. Ma cosa sono duemila anni nella storia dell’umanità? Ne sono trascorsi appena cinquanta dal Concilio Vaticano II e troppo poco è rimasto della buona novella di quella straordinaria assemblea di fedeli. E che grande fermento: in quei giorni si sentì la brezza di una nuova primavera. Giovanni XXIII scosse la sonnolenza di una Chiesa che si affidava più alla “liturgia del rito” che alla “liturgia della vita”. E tutto il mondo, cristiano e no, accolse l’invito ad aprire menti e cuori perché entrasse nella Casa di Cristo aria fresca e luce limpida. Ma poco è davvero cambiato nella Chiesa di Roma. Né dopo il Concilio né dopo duemila anni di cristianità.
Ancora una volta, come dopo quella notte nel Getzemani, qualcuno ha tradito. Ancora una volta, su tutti i monti degli ulivi, Gesù è uno sconfitto. Siamo tutti degli sconfitti

giovedì 19 aprile 2018

[Iran] Paradosso

Tra tutte gli elementi che ci sono nella lingua, in letteratura e in generale, io amo di più il paradosso. Forse perché ci vivo dentro.


Questo è il muro della redazione del giornale BiGhanoon dove lavoravo. Il proprietario del palazzo ha deciso che il giornale porta troppi guiai e vuole costruire un appartamento nuovo e darlo in affitto a un gruppo di avvocati e medici.
Mentre io non c'ero, i miei colleghi hanno traslocato, prima del nuovo anno, e ora sono in un altro posto, per fortuna più vicino a me, anche se non posso più lavorare con loro (e con nessuno). Paradosso.

Prima di traslocare, però, hanno deciso di scrivere una mia frase sul muro, per ricordarmi, perché non c'ero al tempo del trasloco.
Il muro verrà giù tra un po'; e comunque leggerla lì, vederla, mi riempie di gioia e di tanto dolore. Paradosso.

Fisso il muro; tanti ricordi belli e brutti.
Amo e odio la mia terra.
Paradosso.

E capisco. Non vivo in un grande paradosso.
Sono io il paradosso.


ایستادم. نیامدی. حالا گنجشک ها در من لانه کرده اند.
(rimasi in piedi. Tu non arrivasti. Ora in me gli uccellini hanno fatto nido)

Jass.


  

lunedì 26 marzo 2018

Giustizia per Marielle

Uccisa a Rio Marielle Franco: aveva denunciato gli omicidi nelle favelas

Trentotto anni, la consigliera comunale è stata assassinata con quattro colpi di pistola alla testa.
I sicari hanno anche ucciso il suo autista e ferito lievemente una sua assistente

Marielle era nata e cresciuta alla Maré, il vergognoso benvenuto di Rio de Janeiro per chi sbarca all’aeroporto internazionale. Dietro tristi pannelli, ufficialmente antirumore, e tra i fetori di un mare morto da tempo, vivono 130.000 abitanti in quello che è definito «complesso» di una dozzina di favelas. Il tassista che sfreccia verso gli alberghi sulle spiagge raccomanda finestrini chiusi. Per l’odore nauseabondo e il «non si sa mai».
Veniva da qui Marielle Franco, 38 anni, consigliere comunale, morta ammazzata mercoledì sera a causa della lotta coraggiosa per i diritti della sua gente, povera e di colore come lei. In primo luogo il diritto di non finire ammazzata per mano degli squadroni della polizia. E la sua è stata una vera e propria esecuzione. Sapevano tutto: che lei era in quell’auto, seduta dietro, sono andati a colpo sicuro nonostante la notte e i vetri scuri.
Dalla macchina affiancata al semaforo sono partiti dieci colpi, che hanno ucciso Marielle insieme ad Anderson Gomes, l’autista. In perfetto stile mafioso: tappare una bocca e spaventare le altre.
Era appena uscita da un dibattito pubblico sul tema a lei più caro, la violenza sulle donne nelle aree di rischio, tutto filmato sui social. E alle 21,30, nel mezzo di un’importante partita del Flamengo per la coppa Libertadores, il tam tam della rete ha sconvolto la vita dei tanti abitanti di Rio che la conoscevano e l’avevano votata.
Nel 2016, esordiente in politica, Marielle Franco aveva preso 46.000 preferenze, la quinta più votata alle comunali. Militava in un piccolo partito di sinistra, il Psol, da sempre in prima linea a Rio sul tema dei diritti umani. Con il leader del partito, Marcelo Freixo, Marielle aveva lavorato per anni. A causa delle loro accuse sugli abusi di forza della polizia, qualcuno li definiva «amici dei banditi». Freixo è anche diventato personaggio di un film sulla violenza a Rio che ha fatto il giro del mondo, Tropa de Elite.
Ha dunque il suo primo omicidio eccellente la nuova guerra di Rio de Janeiro, deflagrata dopo i «fasti» dei Mondiali di calcio e delle Olimpiadi. Con la classe politica corrotta spazzata via dai giudici, i narcos e le milizie paramilitari si sono ripresi gli spazi perduti negli anni in cui la città era sotto gli occhi del mondo.
Il governo centrale ha risposto commissariando Rio con i militari, e il governatore è stato esautorato da un generale poche settimane fa. Contro questa misura estrema, possibilmente foriera di altre morti e brutalità nelle favelas, lottava Marielle Franco.
Qualche giorno fa, il suo gruppo politico aveva convocato a Rio i giornalisti stranieri per lanciare una iniziativa di monitoraggio e denuncia sull’intervento dei militari a Rio. Ma chi l’ha uccisa dunque? La polizia corrotta, le milizie, i narcos? In tanti potrebbero aver avuto questo interesse.
Quattro giorni prima di morire Marielle aveva denunciato la morte ingiustificata di due giovani, alla periferia nord di Rio, per mano della polizia. Appena poche ore prima dell’agguato, aveva scritto su Twitter: «Quante altre persone dovranno morire prima che questa guerra finisca?». Soltanto la scorsa notte a Rio sono state ammazzate cinque persone. Tra loro Marielle e Anderson.

Rocco Cotroneo,
Corriere.it del 15 marzo 2018
 
 

 


FIRMA L'APPELLO DI AMNESTY INTERNATIONAL
"Giustizia per Marielle"


domenica 25 marzo 2018

La guerra dell’acqua, 500 conflitti per conquistarla

I rapporti di Onu e Cia: “Le risorse idriche sono una vera emergenza”
Roberto Giovannini, LaStampa

Per l’acqua si combatte: finora sono documentati dalla Banca Mondiale ben 507 conflitti legati al controllo delle risorse idriche. Tra tanti, l’esempio della guerra civile in Siria, dove secondo molti esperti la sequenza di molti anni di siccità ha certamente contribuito allo scatenarsi della crisi. E di questo passo, in un pianeta sovrappopolato e il cui equilibrio climatico sta cambiando in una direzione sfavorevole, c’è il rischio che per la sempre più strategica acqua si combatterà e si morirà.

Entro il 2030 - lo dicono i dati delle Nazioni Unite -addirittura il 47% della popolazione mondiale vivrà in zone a elevato stress idrico. E perfino la Cia, in un suo documento, ha affermato che «le questioni idriche sono principalmente una questione di stabilità mondiale». Anche se il 70 per cento del pianeta Terra è coperto dall’acqua (di cui in questi giorni ricorre la Giornata mondiale, NdR), di questa risorsa fondamentale per la vita soltanto una parte piccolissima, lo 0,5 per cento, è acqua dolce e potenzialmente utilizzabile per gli umani e per i loro miliardi di animali da allevamento. Per metterci le mani sopra si combatte militarmente, ma anche economicamente: così come da tempo avviene per i terreni agricoli e per le risorse minerarie, già oggi Stati e aziende sono al lavoro per accaparrarsi l’acqua. Sottraendola ad altri Stati o -cosa molto più facile - a comunità locali colpevoli di vivere vicino a una risorsa di valore immenso.

Dopo il land grabbing, dunque, è già suonata l’ora del water grabbing, un neologismo che probabilmente diventerà in futuro di uso sempre più comune. È di questo fenomeno che parla Water grabbing, le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo (EMI editore), un libro firmato da Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli. Un fenomeno aggravato dalla crescente domanda di acqua per cibi e prodotti e dalla contemporanea diminuzione della disponibilità provocata dal cambiamento climatico, spiega Bompan, giornalista e collaboratore de La Stampa-Tuttogreen. «Vogliamo sempre più acqua mentre il bicchiere è sempre più vuoto - dice - e le mani che lo reggono si fanno sempre più avide». Già oggi quasi 2 miliardi di persone in tutto il mondo vivono senza acqua potabile sicura, «nonostante ormai da otto anni l’Onu abbia dichiarato il diritto umano all’acqua come primario e indiscutibile», afferma Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory. Una situazione che rischia di peggiorare, visto che non ci sono norme internazionali in grado di mettere la museruola agli appetiti idrici di Stati e multinazionali. Appetiti che qualche benemerita iniziativa di ripubblicizzazione di una risorsa che dovrebbe essere di tutti non riescono a frenare. Mentre paradossalmente si spreca in modo colossale, tra infrastrutture inadeguate e sistemi agricoli e urbani dall’impatto non più sostenibile. E il preziosissimo liquido viene utilizzato senza troppi pensieri per il fracking di gas e petrolio, che spesso porta a un inquinamento delle falde, o per la produzione di energia elettrica. Il prezzo del water grabbing, intanto, lo pagano i più deboli. Il libro racconta le conseguenze umane della costruzioni di monumentali dighe, come quella delle Tre Gole in Cina, che ha comportato il trasferimento forzato di 1,2 milioni di persone, o quella Gibe III in Etiopia, che ha sconvolto la vita di 400 mila poverissimi Oromo. O indirettamente: sono i più poveri ad essere travolti dai conflitti militari e dalle tensioni politiche. In Siria, ma anche tra India e Cina per il controllo del fiume Brahmaputra, tra Autorità palestinese e governo israeliano, tra Cina, Vietnam, Laos e Cambogia per il controllo del Mekong.
E l’Italia? I numeri dicono che le riserve idriche si sono dimezzate in appena sette anni. Siamo davvero convinti di non essere coinvolti?

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La sfida globale perché sia un diritto per tutti
Michel Temer
(Presidente della Repubblica Federativa del Brasile)

L’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici di base - tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite e condizione per la vita umana - è un diritto. Eppure 2 miliardi di persone nel mondo sono prive di una fonte d’acqua sicura in casa; circa 260 milioni, più dell’intera popolazione brasiliana, devono camminare più di mezz’ora per raggiungerla e 2,3 miliardi hanno carenza di servizi igienici. Garantire l’accesso a questo bene è una delle principali sfide del nostro tempo.

In Brasile si concentra il 12% dell’acqua dolce del pianeta, eppure non siamo immuni dai problemi relativi all’acqua. Le grandi città hanno affrontato la mancanza di approvvigionamento, ma persiste l’inaccettabile carenza di servizi igienico-sanitari. È nota la sofferenza che le siccità causano nel Nordest brasiliano. Per rispondere a tali pressanti domande ospitiamo in questi giorni a Brasilia l’ottavo Forum Mondiale dell’Acqua, con più di 40 mila partecipanti provenienti da oltre 160 Paesi. Sono presenti capi di Stato e di governo, governatori e sindaci, parlamentari e magistrati, rappresentanti di organizzazioni internazionali e del mondo accademico, del settore privato e della società civile. Una diversità di attori che arricchisce il Forum. La scelta del Brasile come Paese ospitante del più importante evento globale sulle risorse idriche non stupisce. Abbiamo già ospitato Rio 92 e Rio +20, in cui si è sottolineato lo stretto rapporto tra sostenibilità idrica e sviluppo.

Più di recente, siamo stati tra i primi a ratificare l’Accordo di Parigi su una delle principali minacce al diritto all’acqua: il cambiamento climatico. Questo tradizionale protagonismo estero è ancorato a misure concrete sul piano interno. Il Brasile è consapevole che acqua e servizi igienico-sanitari sono sinonimi di preservazione ambientale e noi abbiamo fatto della sicurezza idrica il pilastro delle nostre politiche per l’ambiente.
Per preservare i corsi d’acqua, abbiamo implementato il programma «Piantatori di fiumi», con l’impiego di strumenti digitali nella difesa delle sorgenti e delle aree di preservazione permanente. Abbiamo fatto grandi progressi anche nella protezione delle foreste, ampliando le aree di conservazione e invertendo la curva della deforestazione in Amazzonia, in precedenza in ascesa. E stiamo per creare due vaste aree di tutela della biodiversità marina. È così, proteggendo gli ecosistemi, che proteggeremo le nostre fonti d’acqua.

Avere acqua è essenziale, ma non sufficiente. È necessario che essa raggiunga chi ne ha bisogno. Proprio di questo tratta un antico progetto, la trasposizione del fiume São Francisco, che stiamo ultimando a beneficio di 12 milioni di abitanti del Nordest. Già concluso l’asse che porta acqua in Pernambuco e Paraíba, siamo ora nella fase finale del tratto che raggiungerà il Ceará.

Nel contempo, non trascuriamo la sostenibilità: abbiamo lanciato il progetto «Novo Chico», teso alla rivitalizzazione del fiume São Francisco. Quanto ai servizi igienico-sanitari, stiamo concludendo un progetto di legge teso a modernizzare il quadro normativo del settore e incoraggiare nuovi investimenti. A spingerci è la ricerca per l’universalizzazione di questo servizio di base.

Questo è il Brasile che ospita il Forum Mondiale dell’Acqua: un Brasile in cerca di soluzioni comuni per problemi globali, che fa e continuerà a fare la propria parte per preservare la nostra risorsa naturale più preziosa.

sabato 17 marzo 2018

Microplastica nelle bottiglie d’acqua, allarme contaminazione

Tracce di microplastiche sono state trovate nell’acqua in bottiglia di oltre il 90 per cento dei marchi più diffusi. A rivelarlo è uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità secondo la quale i livelli di plastica nelle bottiglie sono circa il doppio di quelli che si trovano nell’acqua del rubinetto.
L’analisi è stata condotta su 259 bottiglie 11 marchi diversi di 9 paesi del mondo, e in media sono state trovate 325 particelle di plastica per ogni litro di acqua venduta. Lo studio arriva in seguito a un’inchiesta dell’organizzazione giornalistica Orb Media.
Delle 259 bottiglie testate, solo 17 erano prive di plastica. Le analisi sono state condotte dall’Università di Fredonia, negli Stati Uniti.
Gli scienziati che hanno lavorato al rapporto hanno dichiarato di aver trovato circa il doppio delle particelle di plastica nell’acqua in bottiglia rispetto a un precedente studio sull’acqua del rubinetto.

Secondo il nuovo studio, il tipo più comune di frammento di plastica trovato era il polipropilene, lo stesso tipo di plastica utilizzato per realizzare i tappi di bottiglia. Le bottiglie analizzate sono state acquistate negli Stati Uniti, Cina, Brasile, India, Indonesia, Messico, Libano, Kenya e Tailandia.
Gli scienziati hanno usato il colorante rosso Nilo per fluidificare le particelle nell’acqua. Questo colorante tende ad aderire alla superficie della plastica ma non alla maggior parte dei materiali naturali.
Lo studio non è stato pubblicato su una rivista e non è stato sottoposto a una peer review scientifica.
I marchi analizzati sono Aqua (Danone), Aquafina (PepsiCo), Bisleri (Bisleri International), Dasani (Coca-Cola), Epura (PepsiCo), Evian (Danone), Gerolsteiner (Gerolsteiner Brunnen), Minalba (Grupo Edson Queiroz), Nestlé Pure Life (Nestlé), San Pellegrino (Nestlé) e Wahaha (Hangzhou Wahaha Group).

“Le microfibre di plastica sono facilmente presenti nell’aria. Chiaramente ciò si sta verificando non solo all’esterno ma all’interno delle fabbriche”, hanno detto gli scienziati.
Il problema delle microplastiche è diventato allarmante e più grave di quanto ipotizzato. Jacqueline Savitz, del gruppo di ricerca Oceana, ha dichiarato: “Sappiamo che la plastica si sta formando negli animali marini e questo significa che anche noi siamo esposti”.
Nestlé ha criticato la metodologia dello studio, affermando in una dichiarazione alla CBC che la tecnica che usa la colorazione rossa del Nilo potrebbe “generare falsi positivi”.
La Coca-Cola ha detto alla BBC di avere metodi di filtrazione rigorosi, ma ha riconosciuto l’ubiquità delle materie plastiche nell’ambiente, il che significa che le fibre di plastica “possono essere trovate a livelli minimi anche in prodotti altamente trattati”.
Un portavoce della Gerolsteiner ha affermato che anche la società non può escludere che la plastica entri nell’acqua imbottigliata da fonti aeree o da processi di imballaggio. Il portavoce ha dichiarato che le concentrazioni di materie plastiche in acqua derivanti dalle proprie analisi erano inferiori a quelle consentite nei prodotti farmaceutici.

giovedì 15 marzo 2018

Cumhuriyet, per ora niente lieto fine

Cumhuriyet” [Repubblica, NdR] è il più antico quotidiano turco ancora in circolazione, fondato nel 1924. Il direttore e alcuni giornalisti sono stati arrestati nel 2015 e rilasciati nel 2016. Il direttore dell’edizione online è stato arrestato nel 2017 per un’inchiesta sulla morte sospetta di un procuratore capo. Lo hanno seguito in carcere altri giornalisti del quotidiano, come ricorda Can Dündar in questo articolo.


Il film “The Post" fa pensare al destino del giornale “Cumhuriyet”.
Quando nel nuovo film di Steven Spielberg ho visto quello che accadde al “Washington Post”, allorché fece conoscere come il governo USA aveva ingannato il popolo sulla guerra del Vietnam, ho pensato involontariamente al mio giornale “Cumhuriyet”, quando scoperchiò le bugie del governo turco a proposito della fornitura di armi in Siria. Quello che i miei colleghi vissero al “Washington Post”, una generazione fa, lo stiamo vivendo noi oggi alla stessa maniera.
In che modo sfacciato i governi si nascondano dietro la scusa del “segreto di stato” per celare le loro menzogne lo si può vedere in due scene. Quando Nixon nello studio ovale urla: “Quello che fanno questi giornalisti è alto tradimento! Bloccate le pubblicazioni, avviate le indagini!”, vediamo un politico che oggi ispira Erdogan. La somiglianza dei pubblici ministeri americani, che minacciano di arrestare il redattore capo del “Post”, coi pubblici ministeri turchi che ci hanno messo in carcere e ci volevano tenere per tutta la vita dietro le sbarre, ci è di ammonimento.
Quando vediamo come i giornalisti, nonostante le pressioni, le minacce e i rischi, si impegnino al servizio della verità e difendano i loro resoconti, noi pensiamo ai nostri colleghi che oggi conducono la lotta per la verità sottoposti a una massiccia pressione. Noi sappiamo che la persecuzione è una parte inevitabile, necessaria della lotta per la libertà di parola, che viene condotta da centinaia d’anni.
E’ naturale che tra il caso del “Washington Post” e del “Cumhuriyet”, accanto a molte somiglianze, ci siano anche notevoli differenze: il nostro film non è ancora arrivato al lieto fine del “Post”.
A questo proposito due sono gli elementi interessanti: il primo è che in Turchia non ci sono più giudici indipendenti che possano firmare un verdetto in cui si stabilisce il principio che “la stampa non serve a coloro che governano, ma a coloro che sono governati”. Se la Giustizia statunitense degli anni Settanta fosse stata agli ordini del governo, come oggi accade in Turchia, la storia sarebbe stata scritta in modo diverso. Questa è la prova più importante del fatto che senza uno stato di diritto e la divisione dei poteri non può esserci alcuna libertà di stampa.
La seconda differenza consiste nel fatto che la solidarietà, che gli altri media americani dimostrarono al “Washington Post”, non si è manifestata per il “Cumhuriyet”. Al contrario, l’attacco principale è venuto proprio dai media “al servizio di coloro che governano”. Questo spiega perché Erdogan, prima della presidenza, decise di diventare patron dei media. Come si spiega anche con gli attuali attacchi di Trump contro i media.
A un’altra cosa ancora fa pensare il film “The Post-L’editrice”(*): il “Cumhuriyet” viene pubblicato da una fondazione indipendente. Esso non ha, quindi, un capo. Di conseguenza anche gli “amici del capo” non hanno possibilità alcuna di intervenire nella politica editoriale del giornale. Il film dimostra una volta di più che l’indipendenza dei media è così fondamentale che non può essere lasciata alla benevolenza dell’editore.
I “Pentagon Papers” prepararono la fine di un governo che mentiva al popolo, e consolidarono la fama di un giornale che scoperchiò la verità. Il “Cumhuriyet”, invece, è oggi un giornale, la cui dirigenza è in prigione, perché ha smascherato un governo che mentisce al popolo..
Comunque, non c’è menzogna che viva più a lungo della verità.
La storia della stampa presenta centinaia di esempi a favore del fatto che sono i difensori della verità, alla fin fine, a eliminare coloro che cercano di occultarla.
Ed è giusto che sia così.




Can Dündar,
Die Zeit” 8/2018 del 14 febbraio 2018


(*) “L’editrice” [“Die Verlegerin”] è il titolo con cui è uscito in Germania il film “The Post”, che in Italia ha mantenuto il titolo originale.

giovedì 8 marzo 2018

[Iran] otto marzo


Cara mamma,
Ora che ti scrivo questa lettere mancano poche ore all'8 marzo. Tra qualche giorno ci sarà anche la giornata nazionale della mamma, qui. Quest’anno non ci sei e io ti penso più che mai!
Mamma, ti ricordi quando ero piccola e ti compravo sempre dei regali per la giornata della mamma? Una volta comprai un bellissimo velo rosso. Ero così felice e fiera… ti piaceva tanto. Ancora oggi penso che il rosso sia il colore giusto per te, ma ora so che non dovevo regalarti un velo! Nessuno regala a una colomba, una gabbia. Nessuna donna merita di ricevere un velo come regalo. Nessuna donna merita di dover portare il velo!

Mamma, ricordi quell’anno che ti avevo comprato un libro di ricette per la festa della mamma? Pensavo che ti avrebbe fatto felice. E ti ha fatto veramente felice. Non capisco perché invece di regalarti questo libro, non ho deciso di cucinare per te per un giorno, una settimana, per tutta la vita!
 
Mamma! Oggi è il nostro giorno e io mi accorgo che pure il nostro rapporto ha un colore maschile, che il mio amore per te era tutto maschile. Non mi hai insegnato come trattarti da donna perché nemmeno tu sapevi come dovevi essere trattata. Oggi io so che meritavi di più, che meriti di più, che meritiamo di più. E sai, mamma, non sono da sola! 

Oggi non ho nessun regalo per te, mamma; solo un “perdonami”. Proverò con tutta me stessa ad amarti da donna, come donna. E tu promettimi che sarai sempre prima una donna e poi, la mia mamma...

Ti voglio bene mamma
 

Tua
JASS


La strage degli ulivi e l’affaire Xylella




La Commissione europea ha usato due pesi e due misure, con la complicità delle istituzioni nazionali che non hanno avuto nulla da obiettare, per la gestione di organismi nocivi da quarantena? Dalla lettura dei dispositivi europei emanati sembrerebbe di sì.

Cerchiamo di analizzare questi documenti. Nel 2015, a distanza di poche settimane l’una dall’altra, la Commissione europea ha emanato due Decisioni di esecuzione, la 789/2015 e la 893/2015, per due organismi nocivi inseriti entrambi in Lista Eppo 1 (la lista degli organismi da quarantena), Xylella Fastidiosa (riscontrato in Salento) e Anoplophora Glabripennis (riscontrato in Lombardia). Entrambi sono considerati organismi da quarantena, ma la Commissione ha deciso di trattarli in maniera diversa per quanto riguarda le eradicazioni.

Per la Xylella è stato imposto, anche con l’uso della forza pubblica, di procedere con lo sradicamento di tutte le piante “potenzialmente ospiti”, solo con esami visivi e con delle supposizioni degli ispettori fitosanitari, senza esami analitici nel raggio di cento metri intorno alla pianta dichiarata infetta in fascia di contenimento.
Per l’altro organismo nocivo, invece, è stato concesso di andare in deroga all’abbattimento delle piante “per motivi connessi al particolare valore sociale culturale o ambientale”! Chiaro? La Commissione prevede che per il patogeno trovato in Lombardia, l’Anoplophora Glabripennis, si può andare in deroga agli abbattimenti, non come sta accadendo in questi giorni nel brindisino, precisamente a Cisternino, dove invece si impone il taglio indiscriminato delle piante ritenute potenzialmente ospiti.

Tutte e due le risoluzioni portano la stessa firma, il Commissario europeo Vytenis Andriukaitis (per approfondire suggeriamo l’articolo del professor Luigi Cerciello Renna dal titolo Xylella, l’arretramento giuridico dell’Europa nella tutela del paesaggi).

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Sorvoliamo su quanto abbiamo ripetutamente scritto – e per il quale abbiamo ricevuto in questi anni offese, ritorsioni o ‘messaggi particolari’ (ma rassegnatevi, perché perdete solo tempo; piuttosto non nascondetevi e rispondete ai nostri rilievi) – a proposito della mancanza dei dati epidemiologici (con prove di laboratorio che certifichino la presenza di una epidemia da xylella, da non confondere con il Co.di.r.o., Complesso del Disseccamento Rapido dell'Olivo) sulle vere cause dei disseccamenti in zona infetta, batterio oppure verticillium o altro.
Sorvoliamo sulle parole pronunciate dall’allora procuratore capo Cataldo Motta (“L’Unione europea è stata tratta in inganno con una falsa rappresentazione dell’emergenza xylella fastidiosa, basata su dati impropri e sull’inesistenza di un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi”).
Sorvoliamo sulle forti contestazioni allo studio di Efsa che dimostrerebbe il nesso causa/effetto xylella con disseccamento olivi (mancanza di peer-review indipendente ed approvata dalla comunità scientifica internazionale).

Quello su cui non si può sorvolare è che nel frattempo Xylella Fastidiosa è passata da Lista Eppo 1 (come era nel 2015), a Lista Eppo 2, ma è sempre soggetta agli stessi decreti legge nazionali e le stesse decisioni. Quindi le eradicazioni vengono imposte, per un aspetto prettamente burocratico. Ma mentre in Lombardia o nelle altre zone in cui è stato riscontrato il patogeno Anoplophora Glabripennis i proprietari di alberi (che hanno un valore paesaggistico e sociale) possono salvare le loro piante senza grossi problemi, a Ostuni e Cisternino sono costretti invece a ricorrere al Tar (e a sopportare anche pressioni e spese). Questo per le rispettive fasce di contenimento.

A questo punto non ci possono più essere alibi per nessuno, né per le associazioni di categoria, spesso cieche e sorde di fronte a queste palesi contraddizioni, né per quegli agronomi collusi con le stesse associazioni e con le baronìe universitarie, né per quei giornalisti appiattiti su un’impostazione che traballa sempre più, né per la maggior parte dei politici locali che fanno finta di non capire rendendosi tutti complici di queste scelleratezze.
Xylella è un problema di politica economica e di riconversione agricola che si vuole imporre, senza se e senza ma, al nostro territorio? Questa è la domanda cui tutti dovrebbero dare risposte.

Un’altra riflessione da fare è legata ad una incredibile variabile di questa storiella: il vettore, la famigerata Philaenus spumarius comunemente conosciuta come ‘sputacchina‘.
In questi anni ne abbiamo sentite di tutti i colori (in tutti i sensi): “Se andate in Salento tenete i finestrini delle automobili ben chiusi per evitare che gli insetti saltino all’interno e vengano così trasportati in altri luoghi” – disse un ricercatore barese; oppure ”un insettuccio polifago grande meno di mezzo centimetro, che di suo non si sposta più di cento metri, ma ha una predilezione per i colori intensi, si attacca spesso alle automobili con le carrozzerie metallizzate e per questo motivo è stato definito “autostoppista”; ma anche “Xylella, nessun rischio nel Barese. Gli esperti: ‘Occhio ai viaggi in auto’, l’insetto infatti, attratto anche dai colori chiari, nonostante le piccolissime dimensioni, potrebbe saltare fin dentro il veicolo, usufruendo di ‘passaggi’ indesiderati”.
Tenendo presente come sta andando avanti la storiella dell'”avanzata inesorabile del batterio” – che sembra si sposti alla media costante di circa trenta chilometri all’ anno (da Gallipoli 2013 a Cisternino 2018), salvo poi fare incredibili salti di diversi chilometri come nel caso dei focolai puntiformi che sarebbero stati ritrovati a Ceglie Messapico o Cisternino in aperta campagna distanti molti chilometri da Oria, cioè dal punto più a nord della cosiddetta ‘zona infetta’ (super sputacchina?) – fosse vero tutto quello che ci hanno sempre raccontato, possibile che mai nessuna sputacchina sia riuscita, in oltre quattro anni, ad imbarcarsi su di un’auto dai “colori intensi” o “chiari” o multicolor per farsi un bel viaggetto fino a Bari, Foggia, Pescara o Toscana?
Più che una variabile aleatoria la sputacchina appare così una costante prevedibile, un po’ come le dichiarazioni a rate di certi pentiti.

Durante il consiglio comunale aperto tenuto a Cisternino alcuni giorni fa sul problema eradicazioni, è emerso che la positività dei tre olivi sarebbe stata riscontrata a settembre 2017, ma la notifica dei decreti di eradicazione è avvenuta a febbraio 2018, cioè dopo oltre cinque mesi. Stiamo parlando di un intervento fortemente invasivo: per ogni olivo infetto infatti dovranno essere sradicate tutte le piante potenzialmente ospiti nel raggio di cento metri intorno, cioè presenti in un’area di oltre tre ettari.
Si presume possano esserci circa centocinquanta/duecento piante da sradicare intorno ad ogni olivo dichiarato infetto.
Ora, supponendo fosse tutto vero quello che ci hanno raccontato finora, soprattutto sull’ineluttabilità e tempestività degli interventi per “fermare l’avanzata inesorabile del temibile batterio”, com’è possibile un simile ritardo quando poi la Decisione 789 impone che il proprietario sia “immediatamente informato della presenza o sospetta presenza dell’organismo specificato” e “lo Stato membro deve rimuovere immediatamente nel raggio di cento metri … le piante ospiti … le piante notoriamente infette..le piante che presentano sintomi indicativi…”?

Stiamo affrontando una finta emergenza, o una vera farsa?


Crocifisso Aloisi
*consigliere comunale nel Comune di Galatone (Lecce).
Ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui

(Fonte: Comune-info)

martedì 6 marzo 2018

[Iran] la fontana



Una vecchissima signora, credo abbia 90 anni, sale sul muretto della fontana (?) con molta fatica e si toglie il velo.
E lo sventola come fanno le ragazze della strada #Enghelab !


Ora la Fontana è così.
Succede -non nel medioevo ma nel 2018.
Tehran, IRAN


 



   
JASS.


sabato 3 marzo 2018

[Iran] Sono una delle ragazze di #Enghelab

WhiteWednesday: una manifestante

Dopo 30 anni di vita, solo recentemente sono venuta a conoscenza di alcuni miei diritti di donna, anche se possono essere definiti come diritti di ogni essere vivente, ma qui, in Iran, i diritti umani sono solo per gli uomini e i diritti per le donne sono sotto un’altra categoria.
Comunque non è di questo che voglio parlare (almeno non questa volta, per vostra fortuna)!

Io, da piccola, pensavo che il mio diritto di donna, dopo i 18 anni, sarebbe stato il permesso di cambiare la ricetta del brodo della bisnonna e non metterci più i piselli. Anche se i piselli ci sono ancora e dopo aver letto il libro “Ingoia il Rospo” li ingoio senza dire niente. Spero però di trovare il coraggio necessario per poterli almeno mettere da parte nel piatto, uno di questi giorni.
Devo confessare che l’arrivo delle parabole e dei canali satellitari, è stato un aiuto enorme alla mia trasformazione esistenziale e a quella di tante altre ragazze/donne iraniane.
Perché prima vedevamo solo le nostre mamme, zie, nonne. Tutte uguali, tutte sposate, tutte obbedienti e spesso incinte.
Ma avendo avuto accesso ai canali turchi e, anni dopo, a quelli europei, riuscimmo a vedere un mondo diverso dal nostro. Vedemmo le donne “vere”. Quelle belle, bionde, truccate, sexy, libere e felici.

Raggiunti i 18 anni, capii che i miei diritti erano decisamente superiori a quelli che pensavo.
Fino a quell’età, non avevo mai comprato gli occhiali da sole perché a mio padre non piacevano. Diceva che solo le “poco di buono” mettevano gli occhiali da sole e che era un modo per far capire agli uomini “poco di buono” che erano disponibili. Poi, in TV, vidi che, nel mondo, c’erano persino delle donne che compravano gli occhiali e li mettevano sui capelli mentre guidavano: straordinario!
Quando mi accorsi che avevo il diritto di comprarmi gli occhiali e metterli, anche fuori casa, fiera di questa scoperta che mi avrebbe cambiato la vita, feci un minuto di standing ovation per me stessa.

Però devo dire che la svolta ci fu con i miei 21 anni, quelli che ricordo come pietra miliare della mia esistenza. Ero seduta con delle amiche sulle panchine fuori dall’università, tutte con i nostri occhiali da sole e un bicchiere di thè tra le mani, per scaldarci, quando venne una nostra amica molto trasgressiva e coraggiosa. Aveva una bibita colorata – di quelle senza zucchero che bevevano le donne fighe in TV – e disse con molto orgoglio: “Sapete che anche noi abbiamo il diritto di tornare a casa dopo il tramonto?”. Noi tutte pensammo che ci volesse solo prendere in giro: “Bugiarda! Mica siamo maschi!”. Lei però continuò seriamente: “Io torno a casa verso le 8, solo poche ore prima di mio fratello perché questo è un mio diritto”.
Pensai tra me e me: “Rivoluzionaria!! Ma di sicuro ci vuole far fare una brutta figura davanti ai nostri genitori con questo scherzetto…”. Ma lei mise i suoi occhiali sul velo e disse: “Questa è la verità, sfigate! Noi abbiamo quasi gli stessi diritti dei nostri fratelli”.
“Allora non sta scherzando! Chissà quant’è bello passeggiare da sola per le strade e guardare le vetrine” pensai con un velo di tristezza.
Quanto avrei voluto essere come lei.
La stessa sera decisi di comunicare alla mia famiglia questo mio nuovo diritto. Mentre cenavamo dissi: “Io ho il diritto di tornare a casa dopo il tramonto”.
Tutti si interruppero, mi guardarono con stupore, poi ripresero a mangiare, pensando che fosse solo una delle mie battute. Mio padre disse: “Passami l’acqua: ti ho detto mille volte che le donne non raccontano barzellette”. Gli risposi: “Padre, hai sentito cosa ho detto? È un mio diritto!”.
Lui sussurrò a mia madre: “Ha trovato il codice di quei canali lì?”. Mia madre arrossì e mi guardò con rabbia e mi fece capire con il movimento degli occhi e le sopracciglia, che dovevo stare zitta.
Rimasi zitta, per anni, ma rimasi convinta che c’era qualcosa di giusto in quello che avevo detto. E poi, di quali canali parlava mio padre?


A 26 anni, sentii una cosa che mi fece fissare il muro della mia stanza per 5 ore.
Non riuscivo a gestire tutti i pensieri e le sensazioni che bombardavano la mia esistenza: “Le donne hanno il diritto di viaggiare da sole come gli uomini”.
Pure adesso, a 30 anni, mentre lo scrivo, mentre lo penso, mi sento svenire da quanto mi suona folle e incredibilmente piacevole sapere di avere questo diritto.
Trovo così coraggiose le donne straniere che viaggiano da sole senza chiedere il permesso scritto di un loro parente maschio!
“Quanto vorrei essere come loro. Che ingiustizia essere nata qui!”.
Ma mi feci una promessa: “Prima di morire farò tutto quello che non mi hanno mai permesso di fare perché sono nata femmina e perché, per loro, sono una creatura inferiore e incapace di intendere e volere”.

Ho 30 anni. Poche settimane fa ci sono state proteste contro il regime totalitario in Iran, contro discriminazione, corruzione, povertà, censura. Stavamo cenando e al telegiornale parlavano delle ragazze arrestate per le strade della capitale, perché si erano tolte il velo dicendo che era un loro diritto scegliere il proprio abbigliamento. Mio padre arrabbiato commentava: “Svergognate! Vorrebbero pure il diritto di vivere da sole senza essersi sposate”.
Oh! Sarebbe bello! Perché non ci ho pensato prima? Dissi: “Non è che ho pure questo diritto e non me lo avete detto?”. Mio padre, nervoso, tossì e mia madre cambiò argomento: “Mangia i piselli e stai zitta”…
… No! Non è andata così! Avrebbe potuto, ma non è andata così!

Per tanti anni non ho saputo di avere dei diritti.
Ora ho 30 anni e so di avere dei diritti e lotto per averli.
Io sono una delle ragazze di #Enghelab .
Io tolgo il mio velo perché questo è un mio diritto.




 JASS.
(
articolo pubblicato su syndromemagazine.com)