venerdì 29 dicembre 2017

[Iran] Lo zero dell'amore

Sapete cos'è "lo zero dell'amore"?

Da noi si chiama ساعت صفر عاشقی
...mettendo questo nome in Google troverete tante foto, tutte brutte ma almeno capirete quanto sia importante per noi.
Lo zero dell'amore è esattamente l'ora 00:00 e si chiama così perché non esiste...
Non è ne' ieri e ne' domani... non è neanche oggi. È un minuto di nulla.
60 secondi che esistono solo per l'amore... e per questo le persone che si amano, spesso si danno il famoso bacio del buon 00:00 e si crede che i desideri che una persona buona fa nello zero d'amore vengano sempre esauditi!!
(Vabbè, è una cazzata... ma almeno fa capire che non siamo dei terroristi. Cioè... un popolo che crede ancora nell'amore, non può essere terrorista, no? Al massimo siamo cretini!)

Ecco
Ora, quando festeggerete il vostro nuovo anno a mezzanotte, pensatemi e fate un desiderio per me... tipo: ...vorrei che Jasmine imparasse bene l'italiano; o, che ne so, ...vorrei che Jass fosse più libera; o ...vorrei che quella lì smettesse di mangiare pasta col ketchup!
(Tanto non verrà esaudito , perché non è buona una persona che non mangia la pasta col ketchup)

sabato 23 dicembre 2017

[Iran] Yalda Mobarak

La sera del 21 dicembre noi festeggiamo YALDA.
Yalda è la notte più lunga dell'anno e da noi si festeggia perché da domani, i giorni saranno più lunghi e le notti più corte e così, da domani, avremo più luce nelle nostre vite.
In antica Persia, la notte rappresentava l'oscurità, il male, per questo in autunno la natura muore. Ma durante Yalda, il bene trionfa e il male viene sconfitto. E così da domani inizia il countdown per la primavera e la rinascita della natura.
Ecco perché noi in Iran, festeggiamo l'anno nuovo, nel primo giorno di primavera (20-21 marzo)
Yalda viene festeggiata con una riunione tra i membri della famiglia, mangiando melograno (che è il simbolo di Yalda), cocomero (che però si trova pochissimo), noci e dolci, leggendo le poesie del grandissimo amatissimo Hafiz...
Yalda Mobarak (felice Yalda a tutti!)

P.S:
le femmine che sono nate in questa sera, quasi tutte si chiamano Yalda.



Honduras, esplode la crisi



Autorità elettorale dice che ha vinto Hernández. OEA chiede nuove elezioni. UE: dichiarazioni ambigue

Tegucigalpa, 18 dicembre
Il Tribunale supremo elettorale, Tse, ha deciso di ignorare le innumerevoli denunce di irregolarità e brogli e ha annunciato che il presidente uscente Juan Orlando Hernández è il vincitore delle elezioni generali del 26 novembre scorso. La protesta è esplosa in tutto il paese.
Nonostante la rielezione sia proibita in Honduras, Hernández ha potuto partecipare grazie a una discussa sentenza della Corte suprema di giustizia, controllata da magistrati vicini allo stesso Hernández. Secondo David Matamoros, presidente del Tse, il leader del Partito nazionale avrebbe vinto con il 42,9% dei voti contro il 41,4% del candidato dell'opposizione, Salvador Nasralla, che in queste ore si trova negli Stati Uniti per denunciare i brogli e la violenza dei militari contro la popolazione.
La decisione dell'organo elettorale, diffusa a reti unificate dal solo Matamoros, ha immediatamente scatenato la protesta di migliaia di persone che sono scese nuovamente in piazza.
"Non accetteremo mai la decisione di un'organizzazione criminale che ha dimostrato di essere al servizio della frode elettorale organizzata dal governo”, si legge in un comunicato dell'Alleanza d'opposizione contro la dittatura.
L'Alleanza ha poi esortato le forze armate e la polizia a riconoscere l'autorità di Nasralla come nuovo presidente ed evitare così di essere accusate di alto tradimento. Ha anche chiesto di frenare la violenza contro la gente che protesta pacificamente e che lotta “per porre fine a questa dittatura mostruosa e criminale”.
L'opposizione si è inoltre lamentata della scarsa belligeranza delle missioni internazionali di osservazione, in modo particolare di quella dell'Unione europea che ha di fatto avallato la decisione dell'autorità elettorale. Ha poi chiesto alla popolazione di non cadere nel tranello “di un'informazione manipolata dal regime e diffusa attraverso media che sono al suo servizio”.
Sicuramente più incisivo il secondo rapporto preliminare dell'Organizzazione degli stati americani che considera di “bassa qualità” le elezioni del 26 novembre e dice di non essere in grado di considerare chiariti i tanti dubbi sorti in queste settimane. Ancora più forte la posizione del segretario generale dell'Osa, Luis Almagro, che dal suo account Twitter ha chiesto nuove elezioni “per garantire pace e armonia in Honduras data l'impossibilità di garantire un risultato elettorale sicuro”.
L'Alleanza di opposizione ha rincarato la dose e ha chiesto la “mobilitazione immediata e definitiva” della popolazione come unico strumento per obbligare il regime a fare marcia indietro.

Si scatena la protesta
La gente è scesa immediatamente in strada in varie parti del paese per protestare contro la decisione del tribunale elettorale. Le forze di sicurezza hanno cominciato a reprimere le manifestazioni. Dal 30 novembre a oggi ci sono già stati 20 morti e decine di feriti a causa della repressione.
“Ci troviamo di fronte a una destra stupida e primitiva che ha come unico obiettivo quello di difendere gli interessi di una piccola élite che sostiene Juan Orlando Hernández.
La decisione presa oggi dal tribunale elettorale manda un segnale chiaro e pericoloso e cioè che sono loro i padroni dell'Honduras e che se non ci sta bene verremo schiacciati”, ha detto il sacerdote Ismael Moreno, direttore di Radio Progreso.
"A questa gente non interessa il dialogo, nè il consenso, ma solamente controllare il paese. Chi si oppone viene bollato come nemico. Ma questo non ferma la gente, che continua a ribellarsi a questa dittatura", ha aggiunto Moreno.

Giorgio Trucchi 
Rel-UITA

Gerusalemme «unita» è la città più divisa



Netanyahu e Trump la proclamano capitale indivisibile di Israele. Ma Gerusalemme è spaccata in due: un ovest che si disinteressa totalmente dei palestinesi e un est arabo che protesta e cerca di sopravvivere

Gerusalemme, 18.12.17 - Situato alle spalle della centrale via Giaffa e di fronte agli uffici del ministero dell'interno che rilasciano i visti di soggiorno, al negozio e studio fotografico della signora Lilia non mancano i clienti.
«Qualche volta va bene, altre meno. Questo è il commercio», commenta la donna. Poco più avanti israeliani e turisti affollano i caffè di tendenza. L'atmosfera è serena. È una giornata come le altre nella zona ovest, ebraica, di Gerusalemme ma a poche centinaia di metri la tensione è alta. Mai come in questi giorni Gerusalemme conferma di essere una città divisa, spaccata in due, malgrado i proclami di unità sotto la sovranità israeliana. Superando il Municipio già appaiono le mura della città vecchia e Porta Nuova.
Comincia la zona est, araba, occupata nel 1967 dall'esercito israeliano e annessa unilateralmente allo Stato ebraico. Gli abitanti palestinesi da giorni protestano e manifestano - l'hanno anche ieri, per ore, alla Porta di Damasco e in via Salah Edin - contro il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele fatto dal presidente americano Donald Trump, un altro atto unilaterale, contro le risoluzioni internazionali. E l'Amministrazione Usa ha fatto sapere di considerare anche il Muro del pianto, nella città vecchia, già parte di Israele. «Non accetteremo alcun cambiamento sul confine di Gerusalemme est», ha replicato Nabil Abu Rudeineh, il portavoce del presidente palestinese Abu Mazen.
Lilia ammette di non andare mai nella zona araba. Allora, chiediamo, perché volete tenerla tutta questa città? «Mio padre diceva che l'unica città dove avrebbe vissuto è Gerusalemme perché Gerusalemme è del popolo ebraico. Aveva ragione», ci risponde. La storia, replichiamo, però racconta di una città di eccezionale importanza anche per i palestinesi, per gli arabi, per i cristiani e i musulmani nel mondo. «Tutti hanno diritto di pregare a Gerusalemme, di visitarla, ma la città è di Israele», insiste Lilia. Frasi simili a quelle che, in questi giorni, pronuncia il premier Netanyahu. Su Gerusalemme gli israeliani sono un po' tutti Netanyahu. Nazionalisti, religiosi, progressisti, di ogni fede politica, ceto sociale e livello d'istruzione. Solo una minoranza esigua vorrebbe la città capitale di Israele e Palestina.
D'altronde fu l'establishment laburista, fondatore del Paese che, appena occupata ai primi di giugno del 1967, dichiarò la zona araba annessa a Israele. «Questa mattina l'Idf (le forze armate) ha liberato Gerusalemme.
Abbiamo riunito la Gerusalemme divisa, la capitale di Israele che era stata divisa in due. Abbiamo fatto ritorno ai nostri luoghi più sacri e siamo tornati per non abbandonarli mai più», proclamò il ministro della difesa Moshe Dayan già il 10 giugno dopo essere entrato nella città vecchia.
Intento a sorseggiare il suo afuk, il cappuccino in versione locale, Motti, un impiegato, non si scompone quando gli domandiamo la sua opinione sulle proteste palestinesi. «Strilleranno un po' come fanno sempre, poi la smetteranno e finirà tutto questo clamore. Gerusalemme è di Israele, devono rassegnarsi», ci dice. Il suo collega, Shlomi è più ruvido: «se agli arabi non piace l'autorità di Israele allora posso andare via dalla città, nessuno li trattiene». Al caffé Hillel dove Shlomi ci illustra la sua "soluzione" non giungono i boati delle granate assordanti che la polizia lancia in questi giorni per disperdere i manifestanti palestinesi che si radunano alla Porta di Damasco, l'ingresso principale della città vecchia.
A Gerusalemme ovest si vive un'altra vita rispetto alla zona est dove gli israeliani non vanno mai. Chi va al Muro del Pianto lo fa attraverso la Porta di Giaffa, lungo una strada che costeggia ma non entra nel mercato palestinese. All'interno di quella che Israele proclama la sua capitale unita e indivisibile, le vite di israeliani e palestinesi non si incontrano quasi mai. E quando avviene è quasi sempre per motivi di lavoro - i palestinesi occupati nel settore ebraico - o perché ci si ritrova negli stessi uffici pubblici. Non c'è coesistenza nella Gerusalemme della dichiarazione di Donald Trump ma indifferenza degli uni verso gli altri.
Gli israeliani controllano la città ma i palestinesi non smettono di considerarli gli occupanti.
E l'occupante impone la sua legge. Musa, ci chiede di non pubblicare il suo cognome, è un manovale e vive nel sobborgo palestinese di Jabal al Mukaber. Da quando Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele è molto preoccupato. Teme che il comune si senta autorizzato, più di prima, a demolire le abitazioni che i palestinesi costruiscono senza il permesso edilizio. «Per anni gli israeliani hanno sempre respinto la mia richiesta ma ho cinque figli che stanno diventando grandi e ho deciso di costruire per loro una casa», ci spiega.
Il comune parla di lotta «all'abusivismo edilizio» ma dalla finestra della casa di Musa si scorgono palazzine e villette di Armona HaNetsiv, una delle colonie ebraiche che Israele ha edificato in violazione delle leggi internazionali nella zona est di Gerusalemme. «Se mi porteranno l'ordine di demolizione sarò costretto ad abbattere la casa con le mie mani, per evitare di pagare una multa salata. Non ho quei soldi», ci dice Musa. Il comune infatti presenta agli "abusivi" il conto delle spese della demolizione, tra 15 e 20mila dollari. Quest'anno già 22 famiglie palestinesi hanno distrutto le loro case. Lo scorso anno sono state 28.
L'articolo 53 della IV Convenzione di Ginevra IV probisce all'occupante la distruzione delle case e delle proprietà dell'occupato, se non per operazioni militari assolutamente necessarie. Ma Trump della Convenzione di Ginevra forse non ha mai sentito parlare...

Michele Giorgio,
Nena-news.it

mercoledì 20 dicembre 2017

[Iran] Auguri Ibrahim

Il proprietario della libreria mi conosce da più di 10 anni, cioè dalla prima volta che sono andata a chiedergli se aveva “I versi satanici” di Salman Rushdie (illegale venderlo ed illegale comprarlo in Iran, il tutto punibile con 4 anni di prigione)...
Quella volta mi guardò arrabbiatissimo e mi disse: "Vai via stupida bambina. Noi non vendiamo libri del genere. Questi non sono libri, sono spazzatura!!!"
Ci sono tornata due giorni dopo per chiedergli se aveva un altro libro censurato, “L’indovinello di Hoveyda” di Abbas Abdi (illegale anche quello e all'epoca punibile con 6 mesi di carcere -ora non più)!
Mi guardò di nuovo sdegnato e offeso e mi chiese: "fai finta di essere scema o sei veramente così stupida?"
Gli dissi che questi erano libri vecchi e lui aveva la libreria più vecchia di Isfahan e per forza doveva avere quei libri da qualche parte recondita e me li doveva vendere perché avevo bisogno di leggerli perché ero molto curiosa e mio padre mi diceva che erano brutti libri ma io non gli credevo e dovevo leggerli per sapere la verità!
Capì che non fingevo e che sono veramente così stupida... Mi portò nel magazzino e mi disse: "cerca quello che vuoi. Metti i libri nel tuo zaino, esci e non voglio parlarti più".
Presi 3 libri e lasciai i soldi lì. Ovviamente ci sono tornata altre 1827363618191937362719 volte in questo negozio... Ci siamo sempre parlati poco, lui mi guarda sempre arrabbiato ma mi da i libri che cerco e qualche volta che non ho abbastanza soldi, mi li presta (li leggo coi guanti senza aprire bene le pagine per non rovinarli).

Gli voglio bene. Viviamo in due mondi diversissimi ma gli voglio bene.
Oggi compie gli anni e io gli regalo l'abbonamento del nostro giornale per un altro anno, anche se mi dice sempre che il nostro giornale gli fa schifo perché siamo tutti col cervello che puzza e ciò che scriviamo semina pensieri di dubbio nei giovani e questo è sbagliato ma poi lo legge dalla prima all'ultima pagina, sempre!!
La foto me l’ha fatto lui una volta che mi parlava e io non rispondevo! E poi gli ho fatto una foto anch'io e questa è la sua faccia ogni volta che mi vede…

Auguri Ibrahim. Buon Compleanno!

P.S.
sì, negli anni sono riuscita a comprarli tutti i libri che guardavo con così tanto amore!

mercoledì 6 dicembre 2017

[Salvador] Il martirio della UCA

Il 16 novembre è trascorso il ventottesimo anniversario della mattanza dei sei gesuiti dell’Universidad Centroamericana di El Salvador, uccisi dai militari dell’esercito salvadoregno nel 1989. Quella strage, purtroppo, non solo è rimasta impunita, ma una recente sentenza della Corte costituzionale, emessa poco meno di tre mesi fa, ha umiliato, ancora di più, la memoria dei religiosi e il diritto alla verità e alla giustizia di un intero paese.


Quel 16 novembre, i militari del regime che si era instaurato fin dal 1980 nel paese centroamericano, fecero irruzione all’interno dell’ugeniversità uccidendo cinque sacerdoti spagnoli (Ignacio Ellacuría, Segundo Montes, Armando López, Ignacio Martín Baró e Juan Ramón Moreno), il salvadoregno Joaquín López e due domestiche che lavoravano con i religiosi, Elba Julia Ramos e la figlia Celina. La recente sentenza della Corte, invece, non solo ha fatto orecchie da mercante di fronte all’ordine di cattura emesso nel gennaio 2016 dal giudice spagnolo Eloy Velasco, ma ha addirittura accettato il ricorso formulato dai legali degli alti vertici militari di allora per presunte violazioni della libertà personale. Non solo, quindi, non sarà dato adito all’estradizione dei responsabili della mattanza in Spagna, ma si favorisce e si rafforza quel clima di impunità dilagante in El Salvador nonostante alla guida del paese ci sia il Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional.
Del resto non c’è da sorprendersi poiché l’allora presidente Alfredo Cristiani, della destrissima Alianza Republicana Nacionalista (Arena), il partito che ha creato gli squadroni della morte ed ha promosso e incoraggiato la tortura verso gli oppositori politici, non ha mai chiesto scusa per l’omicidio dei religiosi. È così che i responsabili della morte dei gesuiti, tra i quali Juan Rafael Bustillo, Rafael Humberto Larios, Juan Orlando Zepeda, Francisco Elena Fuentes, Carlos Mauricio Guzmán, pur essendo dei veri e propri criminali di guerra, paradossalmente possono sostenere che la “democrazia, la legalità, l’etica e la giustizia hanno trionfato”. Arpas El Salvador (Asociación de Radios comunitarios) ha scritto che la magistratura, ancora oggi, è controllata dall’oligarchia e gode della copertura e del sostegno dei principali mezzi di comunicazione del paese, mentre la sinistra, per quanto al governo, non è mai andata aldilà di critiche che poi si concludono finendo con l’accettare l’arroganza dei poteri forti.
Definito come uno dei casi più emblematici del conflitto salvadoregno (il regime militare è stato al potere fino al 1992, ma anche dal ritorno in “democrazia” Arena ha governato fino al 2009), il martirio dei religiosi della Uca ha sempre rappresentato un ingombrante scheletro nell’armadio per le forze che simpatizzavano con la dittatura, tanto che la giustizia ha tutelato in tutte le sedi gli autori materiali e intellettuali della mattanza. Secondo la Commissione per la verità di El Salvador, che nel suo rapporto intitolato “Dalla pazzia alla speranza” ha indagato a fondo sul caso, è emersa la responsabilità dell’ex ministro della Difesa René Emilio Ponce, morto alcuni fa, ma noto per la sua offensiva lanciata, in qualità di colonnello, contro il Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional, quando la guerriglia sembrava vicina a conquistare la capitale San Salvador. Fu proprio Ponce ad ordinare l’irruzione all’interno della Uca per uccidere Ignacio Ellacuría ed a chiedere deliberatamente ai suoi sottoposti di fare una strage affinché non restassero testimoni. Cristiani, in qualità di presidente del paese, ha sempre coperto i militari coinvolti che, insieme a Ponce, facevano parte dell’Asvem, l’associazione dei veterani militari. Nel 1991 un gruppo di militari che avevano partecipato alla mattanza fu processato, ma nel 1993 giunse una legge di amnistia votata a grande maggioranza dal Parlamento salvadoregno che servì per scagionarli da ogni accusa, mentre nel 2012, per la prima volta, il paese negò l’estradizione dei militari verso la Spagna.
Andreu Oliva, rettore della Uca, ha evidenziato come nel paese vi sia tuttora una politica volta a favorire e a proteggere sistematicamente i militari responsabili delle violazioni dei diritti umani, come accadde anche in occasione del massacro di El Mozote, avvenuto il 10 dicembre 1981, quando il battaglione dell’esercito Atlacatl, lo stesso che uccise i gesuiti, sterminò gli abitanti di questo piccolo villaggio perché, secondo loro, offrivano appoggio e sostegno ai guerriglieri del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional.
Oggi, a distanza di ventotto anni, gran parte degli assassini di Ignacio Ellacuría sono ancora a piede libero e conducono tranquillamente la loro esistenza in maniera nemmeno troppo nascosta.