mercoledì 26 aprile 2017

VENEZUELA, prove di guerra civile


  Quanti morti servono per riprendere il dialogo? E portare il paese alle elezioni?




La lunga e drammatica crisi venezuelana divide radicalmente le opinioni degli osservatori, esperti e politici, in particolare in America Latina. Intanto la situazione è sempre più critica: in pochi giorni i morti sono ormai saliti a 21 (30 al momento della pubblicazione sul ns. blog, NdR). Da giorni, a diverse ore della giornata, in tutte le principali città del Paese gli scontri fra le due parti si moltiplicano e la spirale della violenza non si ferma. Ovviamente la situazione venezuelana divide anche l’opinione pubblica ovunque e anche i media. C’è chi dà ragione al governo del Presidente Nicolás Maduro e ai partiti che lo appoggiano: otto, di cui 4 con rappresentazione parlamentare. Invece c’è ch
i sostiene i partiti dell’opposizione riuniti nel Tavolo per l’unità democratica (MUD): sedici di cui 13 con rappresentanza parlamentare. Nell’Assemblea Nazionale, parlamento unicamerale, il governo ha 55 voti e le opposizioni 112 (Legislatura 2016-2021).
Dentro il Paese le cose però sono un po’ più articolate perché una parte dei venezuelani, abbastanza minoritaria, si colloca in questa dialettica descritta e si tratta spesso di gruppi guidati e manipolati dai sostenitori o dai contrari al governo. Sono minoranze ma rumorose e sanno avvalersi con astuzia dei media che, divisi anche essi in due posizioni, partecipano con entusiasmo al gioco.
L’immensa maggioranza del Paese vive, meglio sopravvive, in un’altra dimensione: contrari o favorevoli a Maduro sono milioni di venezuelani che cercano ogni giorno di passare la giornata e garantirsi un minimo per il domani. Loro non hanno tempo per far parte attiva dello scontro che dilania e devasta la nazione venezuelana. Le loro teste si trovano in un’altra dimensione che, naturalmente, è lontana anni luce dalla guerra tra le oligarchie che hanno preso in ostaggio il Paese. Se nelle manifestazioni di questi giorni sono scesi per strada 6 milioni di venezuelani, cifra senza riscontro e verifica plausibili, si tratterebbe solo del 20% della popolazione totale (30.410.000).
In Venezuela nessuna delle parti, governo e opposizioni, rappresentano una soluzione; anzi, governo e opposizioni sono il vero problema, in particolare il fatto che nessuna riconosce l’altro come vero interlocutore. Da quattro anni almeno il Paese è paralizzato, ingabbiato, in discesa continua, dall’odio reciproco, dalla mediocrità politica, dalle ambizioni smisurate dei leader o presunti tali e dalla confusione mentale che colpisce in uguale maniera ciò che resta del “chavismo” senza Chávez (Maduro e i suoi, forti solo perché sostenuti dalla maggioranza delle Forze armate) e ciò che viene chiamato opposizione ma che in realtà è un raggruppamento di 4 o 5 pretendenti alla poltrona di Maduro con la propria parvenza di partito politico.
Questo antagonismo dei protagonisti, non particolarmente sinceri e lineari, maestri del gioco tattico, meschini, senza visione lungimirante sul futuro del Paese e, in realtà, senza particolare interesse vero per il popolo, ormai allo stremo, non ha mai permesso il decollo di un dialogo e tutti coloro, e sono tanti, che hanno provato a mediare e/o facilitare l’incontro tra le parti sono stati impallinati dall’una e dall’altra parte. E’ accaduto con la buona volontà di Papa Francesco e della diplomazia vaticana, con l’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur) guidata dall’ex Presidente colombiano Ernesto Samper, con l’autorevole assistenza di tre politici di primo ordine: l’ex Premier spagnolo Rodríguez Zapatero, gli ex governanti Leonel Fernández (Repubblica Dominicana) e Martín Torrijos (Panamà). Non solo. Le parti, in particolare Maduro e gli uomini forti del “chavismo”, hanno fatto, tra bugie e acrobazie verbose, orecchie da mercante di fronte ai consigli saggi e tempestivi dei governi di Cuba, del Cile, della Bolivia, del Nicaragua e di tanti altri come le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la stessa Russia di Putin così come della Cina e dell’Algeria.
L’una e l’altra parte è convinta che può schiacciare l’avversario e quindi non sono mai stati sinceramente disposte al dialogo e per dare una parvenza di giustificazione al proprio settarismo si sono arrampicate su mille tralicci ideologici, a volte farneticanti. Ora sembrerebbe che tutti e due hanno imboccato la strada dello scontro e della violenza, prove di guerra civile. Il penultimo errore prima della catastrofe.
A questo c’è una sola via che può evitare il peggio: la mobilitazione dei governi dell’America Latina, ma non solo, dell’ONU e dell’Unione Europea per costringere le parti ad andare al voto per rinnovare le più alte cariche dello Stato e i governatori degli stati ma anche l’Assemblea Nazionale dando garanzie su un processo elettorale breve, pulito e sotto osservazione internazionale, ma anche garanzie sul rispetto dei risultati.
La stampa riferisce che, Papa Francesco avrebbe espresso al Ministro degli Affari esteri dell’Argentina, signora Susana Malcorra, la sua angoscia e preoccupazione per la situazione in Venezuela e il suo desiderio di mantenere fermo l’impegno in favore del dialogo tra le parti. Simile concetto avrebbe ribadito alla Ministro argentina il Segretario di Stato, card. Pietro Parolin. E’ l’unica via sensata e possibile per fermare la violenza ormai senza freni. Occorre però che, in particolare, i governi latinoamericani esercitino pressioni per indurre le parti alla ragionevolezza, e cioè alle elezioni. A questo punto, seppure con ritardo, è urgente restituire al popolo venezuelano il suo diritto a decidere e quanto sarà eventualmente deciso nelle urne deve essere rispettato da tutti.
La Chiesa cattolica in Venezuela, trascinata spesso alla propria causa da parte delle opposizioni, violentamene attaccata e contestata dal governo, può avere un ruolo decisivo se riesce a far passare i veri contenuti della sua posizione altrimenti, come accade già oggi, sarà immischiata in un conflitto gravissimo. Deve essere chiarissimo che la Chiesa non è patrimonio politico di nessuno e che non è sua missione deporre o insediare governi. Spetta alla Chiesa la difesa del bene comune dei venezuelani e oggi questo bene comune si chiama “soluzione politica del conflitto”. Occorre dunque chiarire ogni ambiguità e i vescovi dovrebbero agire in modo più compatto evitando di moltiplicare commenti e analisi in una situazione tanto ingarbugliata che a volte basta una sola parola poco felice per trarre conseguenze fuorvianti. Occorre più compattezza dietro alle esortazioni di Papa Francesco e dietro a quanto ormai dice dal giorno della sua elezione.

giovedì 20 aprile 2017

Saviano: Gabriele Del Grande e la libertà di tutti

C'è sempre un complotto pronto per giustificare gli arresti: le centinaia di giornalisti, scrittori, oppositori incarcerati da Ankara ne stanno pagando il prezzo
L'ARRESTO di un reporter potrebbe sembrare a qualcuno un atto di barbarie distante compiuto da un regime autocratico, un atto che non riguarda la nostra democrazia. Ma non è così. La detenzione di Gabriele Del Grande rientra in un percorso strategico preciso del governo di Erdogan: il leader di Ankara vuole dimostrare che chiunque racconti liberamente cosa accade in Turchia delegittima il Paese, alimenta quel clima di diffamazione agitato dai media neo-ottomani.

Nell'immaginazione di Erdogan la stampa non controllata da lui è sempre una stampa pagata e corrotta da qualcuno: controllarla e censurarla diventa — per il regime — un atto legittimo di un governo sovrano che tutela la sua immagine. È un'argomentazione molto simile a quella che si ascolta nei dibattiti gonfi di veleno che si svolgono sui social, sono argomentazioni in grado di accalappiare — come si fa con un animale preso alla gola — il consenso.

Gabriele non ha commesso alcun reato, non voleva fare altro che raccontare quello che vedeva e di cui veniva a conoscenza. Raccogliere testimonianze dirette è diritto e dovere di qualsiasi giornalista: diritto che dovrebbe essere tutelato in qualsiasi democrazia. Ma il suo arresto riguarda tutti non solo perché Gabriele è innocente.

La Turchia non si allontana semplicemente dall'Europa dei diritti, ma dimostra che sta iniziando un nuovo percorso autoritario che rischia di suggestionare tutte le forze populiste del mondo: quello di affermare che qualsiasi racconto diretto, libero e non negoziato con l'autorità sia un attacco compiuto per conto di gruppi di potere che possono essere di volta in volta gli occidentali, gli ebrei, i massoni e qualsiasi nemico immaginario il regime abbia bisogno di inventare all'occasione. C'è sempre un complotto pronto per giustificare gli arresti: le centinaia di giornalisti, scrittori, oppositori incarcerati da Ankara ne stanno pagando il prezzo.

Per Erdogan i diritti più elementari, come quello della libertà d'espressione, sono semplicemente dettagli e chi li rivendica è un nemico dello sviluppo del Paese. Queste tesi potrebbero essere messe nella bocca di tutti quei leader del mondo che invece di rispondere alle critiche politiche delegittimano chi le pronuncia.

Ecco perché la vita di Gabriele riguarda la nostra vita e i ritardi inspiegabili con cui la Farnesina è intervenuta mostrano quanto non ci si renda conto dell'importanza internazionale di questo caso. Difendere Gabriele equivale a difendere nel mondo la libertà d'espressione.






"MOBILITATEVI PER ME", le iniziative