domenica 9 novembre 2014

Le vere domande di fronte a un suicidio


di Vladimiro Zagrebelsky,
da LaStampa del 5 novembre 2014

Ancora una volta un suicidio è stato accompagnato da un forte richiamo mediatico, preparato dalla stessa persona che ha deciso di togliersi la vita. Altri casi, anche in Italia, hanno avuto, per scelta espressa, grande risonanza mediatica. E questo aspetto, accanto a quello dell’atto in sé di abbandonare la vita, è stato oggetto di critica o almeno fonte di disagio; quasi che si trattasse di impudicizia o addirittura di esibizionismo, mentre un simile comportamento, quandanche inevitabile, richiederebbe almeno discrezione. Credo invece che debba riconoscersi che la gestione pubblica della propria scelta, in questo come in altri casi, ci costringe a pensare a ciò che si cerca di rimuovere, a pensare cioè agli altri e a noi stessi alla fine della vita. E cercare una risposta alla domanda giusta. Non chiedersi, cioè, perché consentire, ma domandare se sia lecito vietare. E in più considerare se consentire o vietare appartenga, non alla legge morale che ciascuno riconosce, ma alla legge dello Stato; alla maggioranza cioè in Parlamento, la quale come si sa non esprime la «volontà generale», ma più o meno quella di una parte degli elettori.

Perché vietare e con quale legittimità dovrebbero essere sempre le domande prioritarie. Se, come è in una società libera e rispettosa dell’autonomia delle persone, tutto ciò che non è vietato è lecito, occorrono buoni motivi per proibire. Esporli tocca a chi vuole imporre un divieto, non è chi rivendica una sua libertà che deve giustificarne il fondamento. Il fondamento dell’autonomia sta nella dignità della persona, la quale non ha da esser «gestita» da altri. Né la maggioranza (spesso pretesa, anagrafica) ha uno speciale diritto d’intervento. Ove un diritto o una libertà fondamentale sono in discussione, entra in gioco non il principio di maggioranza, ma quello contro-maggioritario. Non nel senso evidentemente che comandi la minoranza, ma in quello ovvio che la maggioranza deve inchinarsi davanti alla libertà di chi, se anche fosse solo, la rivendica. L’individuo deve essere protetto dalle pretese della dittatura della maggioranza. Si tratta di elementari principi di libertà e rispetto di ciascuna persona.

Il suicidio in questa parte del mondo non è più un delitto. Qui da qualche secolo ormai, chi tenta di uccidersi non è punito, né, se vi riesce, il suo cadavere è oggetto degli oltraggi usuali in tempi andati. E’ dunque accettato che l’individuo possa suicidarsi. Ed anzi, la compassione rispetto a un suicida e alla sua famiglia è maggiore di quella che accompagna una morte naturale. Si pensa a quanto debba aver sofferto chi decide di morire, quanto deve essergli stata insopportabile la prospettiva di continuare a vivere.

Tuttavia in paesi come l’Italia si ha compassione per chi si getta dalla finestra, ma si contrasta chi vorrebbe morire degnamente, nel suo letto, addormentandosi senza risveglio. Cosa di più crudele? Si dice che occorre proteggere le persone da azioni impulsive non meditate e questo sarebbe un motivo che giustifica il divieto nell’interesse pubblico generale. Certo la vigilanza rispetto alla reale e libera formazione della volontà della persona è non solo legittima, ma necessaria. Essa rappresenta il vero problema, come nel caso diverso, anche se confinante, del rifiuto di trattamenti medici o della loro continuazione. Vi sono però soluzioni, che – queste sì – dovrebbero essere imposte dalla legge e che invece un generale divieto lascia assenti e nascoste nella pratica reale della vita e della morte. Un esame medico collegiale, un tempo di riflessione in una procedura garantita, potrebbero proteggere la vera autonomia della volontà espressa dalla persona. Il Parlamento però continua a evitare di considerare gli aspetti di questi problemi che richiedono una disciplina.

Si tratta in ogni caso di argomento che riguarda il suicidio di chi, disperato, si getta nel vuoto, che infatti, se possibile, ne viene fisicamente impedito. Non vale per chi, esaminata la propria malattia, la penosità delle possibili terapie e la prognosi ineluttabile e atroce, sceglie di abbreviare la propria vita. Così, legalmente e attorniata dalla sua famiglia, ha fatto ora l’americana Brittany Maynard dopo aver dato una lezione di amore per la vita nella bellezza di questo mondo. Prima, tra mille difficoltà e battaglie legali l’avevano fatto altri anche in Italia. Altri ancora avevano dovuto passare il confine. Incapaci costoro di decidere? Persone da tutelare? Al contrario, persone lucide e consapevoli della propria libertà.

E’ difficilmente accettabile l’argomento secondo il quale occorre vietare a tutti, perché qualcuno potrebbe non essere pienamente consapevole e quindi libero. Annullando la individualità della sua condizione, l’argomento fa della persona singola lo strumento di una esigenza collettiva. E’ quanto ha ammesso la Corte europea dei diritti umani, affermando che la liceità o la punibilità dell’aiuto al suicidio, che pur interferisce nella vita privata della persona, rientra nell’ambito della valutazione discrezionale dell’interesse pubblico da parte dello Stato. Vero è che, decidendo il ricorso di una malata in gravissimo stato, che chiedeva di morire e il cui marito era disposto ad aiutare, lo ha detto sottolineando il fatto che nel sistema legale britannico, cui il caso si riferiva, prevedeva la ragionevole discrezionalità della decisione di accusare il responsabile dell’aiuto dato. Ma la tragedia di quella donna le è stata imposta fino alla fine, supponendo che l’interesse pubblico non fosse altrimenti tutelabile.

E’ arduo distinguere la liceità del suicidio dalla criminosità dell’aiuto al suicidio: come è stato nel caso americano o è nella pratica in uso in alcuni Paesi a noi vicini, si tratta dell’aiuto dato dal medico che fornisce o somministra il composto letale. Vi sono situazioni in cui il malato non è in grado di togliersi la vita, perché non può più muoversi o perché non gli è possibile da solo procurarsi le sostanze letali. Fermo il rispetto dell’obiezione di coscienza di chi fosse richiesto di aiutarlo a realizzare il suo proposito, non è ragionevole impedire a chi vuole, ma non può morire, di raggiungere lo scopo che potrebbe ottenere se le sue condizioni gli permettessero di agire da solo.

Questo non è un inno al suicidio. Se vivere a qualunque costo non è un dovere che possa essere imposto a chi non lo faccia derivare dalle proprie convinzioni morali, vi sono però situazioni in cui restare in vita è comunque di aiuto o conforto per altri, famigliari o estranei o la stessa collettività. Non si vive soli e spesso non si muore per sé soli. Ma chi avrebbe il coraggio o la presunzione di sostituire il proprio al giudizio di chi in quelle situazioni è immerso?

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