sabato 29 novembre 2014

Aumentano le tariffe e si rilancia la privatizzazione dell'acqua, due facce della stessa medaglia

Comunicato stampa

In questi giorni sta facendo notizia l'aumento delle tariffe idriche, annunciato dal Presidente dell'AEEGSI Bortoni nel corso della III Conferenza Nazionale sulla Regolazione dei Servizi Idrici.

Tali aumenti, ha dichiarato Bortoni, "sono ritenuti necessari a favorire gli investimenti prioritari per il settore, tesi a raggiungere e mantenere obiettivi di qualità ambientale e della risorsa".
Purtroppo fin qui nessuna novità: le tariffe idriche stanno aumentando in modo costante ormai da anni (+ 85,2% negli ultimi 10 anni sulla base di uno studio della CGIA di Mestre), sempre con la promessa di un'aumento degli investimenti. Investimenti che però non sono mai decollati: ad esempio tra il 2006 e il 2009 solo il 56% di quelli previsti dai piani d'ambito viene realizzato (fonte: Co.Vi.Ri.).

Dunque, si giunge al paradosso che i cittadini pagheranno una seconda volta, anche attraverso i nuovi aumenti in bolletta, investimenti che hanno già pagato e mai realizzati.

Dove vanno a finire, dunque, i soldi in più che i cittadini ogni anno si trovano in tariffa? Difficile saperlo, perchè la trasparenza non è certo una qualità dell'attuale gestione: i piani industriali vengono decisi dai CdA delle aziende, sui quali il controllo concreto da parte dei comuni è sempre più un percorso a ostacoli. Senza dubbio però aumentano i profitti, soprattutto per le grandi multiutilities quotate in borsa. Il nuovo metodo tariffario, formulato proprio dall'AEEGSI, prevede infatti la copertura degli "oneri finanziari", consentendo in sostanza ai gestori di continuare a fare profitti sull'acqua, nonostante i referendum del 2011.
La vera notizia è invece il rilancio della privatizzazione dei servizi pubblici locali, compreso quello idrico. Bortoni auspica, infatti, un "processo di aggregazione e di rafforzamento della gestione dei servizi pubblici locali a rete", anche questo ovviamente a "beneficio prima di tutto dei consumatori" (ci mancherebbe). Ma cosa vuol dire parlare di fusioni e aggregazioni quando ad essere in ballo sono i servizi essenziali?
Il combinato disposto delle norme contenute nello Sblocca Italia e nella Legge di Stabilità sottende un disegno piuttosto chiaro: la gestione dell'acqua affidata ai quattro colossi multiutility attuali - A2A, Iren, Hera e Acea - già collocati in Borsa, con un ruolo degli enti locali sempre più marginale.

Difficile infatti immaginare che i futuri colossi dell'acqua possano preoccuparsi degli interessi dei cittadini (non a caso ribattezzati "consumatori" da Bortoni), soprattutto quando questi rischiano di confliggere con quelli degli azionisti. Ne abbiamo la prova in questi giorni in moltissime città di italia: per garantire agli azionisti lauti dividendi a fine anno i gestori praticano il recupero crediti attraverso migliaia di distacchi idrici.

Con buona pace dell'ONU che ha dichiarato l'accesso all'acqua un diritto umano universale.
Ci teniamo anche evidenziare la contraddizione dovuta al fatto che l'AEEGSI è finanziata dagli stessi gestori attraverso un contributo annuale definito dall'Authority stessa e come ciò renda poco indipendente e autonoma la sua azione rispetto agli interessi dei gestori. (si veda al riguardo la delibera 235/2014/A del 29/05/14)

Per tutte queste ragioni, a nostra avviso, nessuno può rimanere a guardare mentre viene condotto un nuovo tentativo di privatizzazione e mercificazione dell'acqua: non possono farlo i cittadini e non possono farlo gli enti locali.
Roma, 28 Novembre 2014.
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

domenica 16 novembre 2014

Burkina Faso, rivive l’utopia del presidente-eroe amato dal popolo


Un tempo si tradiva con coraggio. Si diventava un rinnegato candidamente e decisamente. Si stringeva la mano all’amico, al compagno di fede e poi, senza indugio, lo si andava a vendere come se si trattasse di un atto di onestà. Insomma si diventava Giuda con franchezza.

Uno degli orrori del ventesimo secolo è stato che la canaglia barbarica tradisce con viltà, celandosi dietro le scelte ideologiche, il bene del Popolo, le necessità storiche. Ventisette anni vi sembrano troppi per rendere giustizia per un tradimento consumato in un Paese che si chiama Burkina Faso? Chissà: forse non sono niente. E il guaio è semplicemente che noi uomini non abbiamo pazienza. Bisogna leggere questa storia come un copione shakespeariano, rappresentarla in uno spazio chiuso, un palcoscenico quasi nudo, mobili sgualciti, quelli delle amministrazioni coloniali dopo il ritiro dei padroni bianchi: residuati di prefetture del Poitou o municipi dell’Auvergne finite a morire nei deserti dell’Empire. Poveri «evolué» compilano inutili moduli con bella calligrafia. Si vive con 190 dollari all’anno, quando non si muore di carestia e siccità nell’Alto Volta. Mettete una colonna sonora discreta: un brusio, la folla del mercato di Ouagadougou, affaccendata nei suoi traffici fatti di niente, qualche rumore di auto che hanno già mille volte esalato l’ultimo respiro e che vengono rianimate dalla mani di meccanici con il genio di Leonardo. E campi di cotone, immensi campi di cotone: i padroni francesi hanno detto che quello era il ruolo che dio aveva dato a quella piccola scheggia del loro impero: produrre cotone.

L’eroe rivoluzionario
Entra il primo personaggio. La capacità di dedizione, la forza del sacrificio è, lo ammetto, il mio termine di misura per giudicare gli uomini. Chi lo possiede al più alto livello è più vicino all’eroismo. Per questo ho amato la figura di Thomas Sankara, eroe di una piccola rivoluzione che negli Anni 80 del secolo appena finito, con slancio cieco del cuore che non prevede cosa gli potrà costare, cambiò il destino del Paese, a cui diede persino un nuovo nome: Burkina Faso, terra degli uomini integri. Esempio di devozione permanente, del sacrificio infaticabile che spesso gli africani forniscono, devozione che non si esaurisce nemmeno dell’immolazione della propria vita ma si perpetua di vita in vita, per diverse generazioni: il tesoro dell’eterna giovinezza Sankara è un soldato, un giovane capitano. Il Paese degli uomini integri è indipendente da venti anni, ma senza gloria, senza epopee: giusto un regalo furbo dei dominatori che sono rimasti lì come prima, a scegliere i presidenti. La Francia mangia con le sue gengive consumate di vecchia cocotte il cotone e la poca ricchezza che il Paese produce.

I troppi nemici
Sankara è un golpista di 34 anni, prende il potere con un gruppo di altri giovani ufficiali. I suoi nemici non sono invasori stranieri: sono la carestia, la desertificazione, il morbillo, la meningite, la febbre gialla. Che cosa vuole mai questo ragazzo che suona la chitarra, non si nomina generale, inveisce contro i Grandi dalla tribuna del palazzo di vetro? Semplicemente cambiare il mondo, rimettere il popolo al lavoro, insegnargli a contare solo su se stesso e ridargli la dignità. In tre settimane fa vaccinare il 60 per cento dei bambini, costruisce scuole nelle campagne, ordina a tutti di piantare alberi per fermare il deserto.
Ha nemici potenti, Sankara, il Fondo monetario per esempio: «Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato, dopo essere stati schiavi, ora siamo schiavi finanziari. Se non paghiamo, i creditori non moriranno. Ma se paghiamo, moriremo noi». Sankara rifiuta regali, un aereo per esempio da un ricco Paese arabo, viaggia su una scassata Renault 5 o in bicicletta. Abolisce le mercedes ministeriali. Licenzia insegnanti e funzionari fannulloni. Veste con una divisa verde tessuta di cotone locale, quello che non si riesce a vendere se non sottocosto: perché sono i ricchi che impongono i prezzi. Mangia pane di miglio perché il grano bisogna importarlo, lotta contro la corruzione, le bustarelle, i capi tradizionali e il loro potere senza tempo. Si sentiva felice come un contadino che vede al sole il frutto tanto curato.

Ha nemici potenti Sankara, la Francia e gli Stati Uniti per esempio. E amici discutibili: regimi radicali come Ghana e Benin e, soprattutto, Gheddafi che deluso dai fratelli arabi comincia a cercare un grottesco «impero» nell’Africa dei miserabili. Commette errori Sankara, e tanti. Spedisce i notabili e i ministri a zappare il deserto e costruire una inutile ferrovia, squinterna, licenzia, reprime quando non è obbedito subito, vuole una Africa che si liberi da sola; ma i tempi sono logori, i padri della patria in Africa sono già diventati despoti, il terzomondismo ha le vele sgonfie. Radicale, populista, impertinente, impaziente, utopico, anche demagogo, ha creduto di potere tutto, anche di sopprimere il tempo con la grandezza della sua volontà. Ma qui non è come in guerra: il tempo non si lascia sopprimere, pesa, la lotta è dura e si prolunga fra l’usura che il tempo accumula e la forza dell’uomo che declina. Ebbe tutti contro di sé, necessariamente, tutte le cose del passato. Dovettero precipitarsi naturalmente contro di lui e sopra di lui, come innumerevoli torrenti attratti da un unico abisso. Le cose gli obbedirono meno degli uomini. Ebbe il disinteresse del vero soldato che esegue una consegna pericolosa. Ma tutte le forze vecchie e nuove stavano contro di lui. Come i criminali contro il giustiziere delle loro opere. Non fatevi ingannare: quando parla gli scherani, sempre più affezionati, gli fanno corona e protezione in un vocio e accapigliamento che ricorda qualche rivoluzione napoletana. Ma Sankara lo immagino solo, terribilmente solo e la sua solitudine ha un aspetto di eternità. Senza compagni che lo capissero, o lo assistessero, senza angeli visibili e forse anche senza Dio. Ma questo chi può saperlo?

Il golpe
Lo ammazzarono il 15 ottobre del 1987, nella presidenza, un golpe di vecchi compagni, camerati, fratelli: Giuda stavolta si chiamava Blaise Compaoré, capitano pure lui, un mediocre, grigio come sono sempre gli assassini. Parlò alla radio banalmente, copiature di altri tradimenti: «Sankara era un rinnegato che ha sviato la rivoluzione dell’83 … lavorava incessantemente al ripristino dell’ordine borghese reazionario ... la rivoluzione continua». Non trascina, non dimostra, insinua e il suo metodo scialbo e incolore non può riuscire che con uomini della sua risma, intriganti, accessibili alle ragioni, politici. Ho fatto a tempo a incontrare alcuni anni fa uno degli assassini, un militare dal dolce nome di Hyachinte. Faceva parte del commando che doveva arrestarlo (o ucciderlo subito). Gli amici di Sankara lo indicavano come l’uomo che gli aveva sparato in testa. Nel 1996, accusato di un tentato golpe da Campaoré, era fuggito nelle Filippine: tornò nel 2001 con il «perdono», era diventato deputato: non perdeva tempo a rievocare «la rivoluzione», non cambiava tono, ed era già molto se si sorprendeva tra le sue ciglia l’estremo orlo delle pupille grige.

La nascita del mito
Il 18 ottobre venne proclamata festa nazionale, il corpo di Sankara fu gettato in una fossa comune nel cimitero della capitale, solo un pezzo di carta scritto a mano: «Capitano Sankara». Qui cominciò, subito, la sua immortalità. E la punizione dell’assassino. La gente si mise in fila davanti alla tomba: il suo silenzio parlava. Sankara non è mai morto: nei mercati d’Africa, 27 anni dopo, trovi le magliette con il suo nome, ragazzi che lo conoscono solo sui libri di storia o nei racconti dei padri piangono se ne evochi il sacrificio. C’è una generazione Sankara che come per Mandela o il Che ne celebra gli anniversari su Internet. È questa vita di semplicità quasi di infanzia, di bontà e di santità in cui tutti cercheranno, sempre, una specie di rigenerazione morale. La sua biografia resterà il tesoro del mondo e l’eterna festa del cuore. Campaoré è rimasto al potere 27 anni, si è fatto rieleggere con i brogli per due, tre volte. Tutto cambiava intorno, il deserto si animava di nuovi fanatismi, ma il Burkina Faso restava uno dei Paesi più poveri del mondo e lui presidente. In due giorni lo hanno spazzato via con clamore giacobino decine di migliaia di giovani della generazione Sankara, indignati dalle trame per una ennesima rielezione. Campaoré è fuggito in Costa d’avorio, ora la transizione è confusa, ma emerge tra i pescecani del continuismo, generali obbedienti per trent’anni, un giovane colonnello, Isaac Zida: lo appoggiano i rivoltosi di Ouagadougou. Assomiglia, per molti, a Sankara. Nella capitale ronde festose puliscono le strade. 

domenica 9 novembre 2014

Le vere domande di fronte a un suicidio


di Vladimiro Zagrebelsky,
da LaStampa del 5 novembre 2014

Ancora una volta un suicidio è stato accompagnato da un forte richiamo mediatico, preparato dalla stessa persona che ha deciso di togliersi la vita. Altri casi, anche in Italia, hanno avuto, per scelta espressa, grande risonanza mediatica. E questo aspetto, accanto a quello dell’atto in sé di abbandonare la vita, è stato oggetto di critica o almeno fonte di disagio; quasi che si trattasse di impudicizia o addirittura di esibizionismo, mentre un simile comportamento, quandanche inevitabile, richiederebbe almeno discrezione. Credo invece che debba riconoscersi che la gestione pubblica della propria scelta, in questo come in altri casi, ci costringe a pensare a ciò che si cerca di rimuovere, a pensare cioè agli altri e a noi stessi alla fine della vita. E cercare una risposta alla domanda giusta. Non chiedersi, cioè, perché consentire, ma domandare se sia lecito vietare. E in più considerare se consentire o vietare appartenga, non alla legge morale che ciascuno riconosce, ma alla legge dello Stato; alla maggioranza cioè in Parlamento, la quale come si sa non esprime la «volontà generale», ma più o meno quella di una parte degli elettori.

Perché vietare e con quale legittimità dovrebbero essere sempre le domande prioritarie. Se, come è in una società libera e rispettosa dell’autonomia delle persone, tutto ciò che non è vietato è lecito, occorrono buoni motivi per proibire. Esporli tocca a chi vuole imporre un divieto, non è chi rivendica una sua libertà che deve giustificarne il fondamento. Il fondamento dell’autonomia sta nella dignità della persona, la quale non ha da esser «gestita» da altri. Né la maggioranza (spesso pretesa, anagrafica) ha uno speciale diritto d’intervento. Ove un diritto o una libertà fondamentale sono in discussione, entra in gioco non il principio di maggioranza, ma quello contro-maggioritario. Non nel senso evidentemente che comandi la minoranza, ma in quello ovvio che la maggioranza deve inchinarsi davanti alla libertà di chi, se anche fosse solo, la rivendica. L’individuo deve essere protetto dalle pretese della dittatura della maggioranza. Si tratta di elementari principi di libertà e rispetto di ciascuna persona.

Il suicidio in questa parte del mondo non è più un delitto. Qui da qualche secolo ormai, chi tenta di uccidersi non è punito, né, se vi riesce, il suo cadavere è oggetto degli oltraggi usuali in tempi andati. E’ dunque accettato che l’individuo possa suicidarsi. Ed anzi, la compassione rispetto a un suicida e alla sua famiglia è maggiore di quella che accompagna una morte naturale. Si pensa a quanto debba aver sofferto chi decide di morire, quanto deve essergli stata insopportabile la prospettiva di continuare a vivere.

Tuttavia in paesi come l’Italia si ha compassione per chi si getta dalla finestra, ma si contrasta chi vorrebbe morire degnamente, nel suo letto, addormentandosi senza risveglio. Cosa di più crudele? Si dice che occorre proteggere le persone da azioni impulsive non meditate e questo sarebbe un motivo che giustifica il divieto nell’interesse pubblico generale. Certo la vigilanza rispetto alla reale e libera formazione della volontà della persona è non solo legittima, ma necessaria. Essa rappresenta il vero problema, come nel caso diverso, anche se confinante, del rifiuto di trattamenti medici o della loro continuazione. Vi sono però soluzioni, che – queste sì – dovrebbero essere imposte dalla legge e che invece un generale divieto lascia assenti e nascoste nella pratica reale della vita e della morte. Un esame medico collegiale, un tempo di riflessione in una procedura garantita, potrebbero proteggere la vera autonomia della volontà espressa dalla persona. Il Parlamento però continua a evitare di considerare gli aspetti di questi problemi che richiedono una disciplina.

Si tratta in ogni caso di argomento che riguarda il suicidio di chi, disperato, si getta nel vuoto, che infatti, se possibile, ne viene fisicamente impedito. Non vale per chi, esaminata la propria malattia, la penosità delle possibili terapie e la prognosi ineluttabile e atroce, sceglie di abbreviare la propria vita. Così, legalmente e attorniata dalla sua famiglia, ha fatto ora l’americana Brittany Maynard dopo aver dato una lezione di amore per la vita nella bellezza di questo mondo. Prima, tra mille difficoltà e battaglie legali l’avevano fatto altri anche in Italia. Altri ancora avevano dovuto passare il confine. Incapaci costoro di decidere? Persone da tutelare? Al contrario, persone lucide e consapevoli della propria libertà.

E’ difficilmente accettabile l’argomento secondo il quale occorre vietare a tutti, perché qualcuno potrebbe non essere pienamente consapevole e quindi libero. Annullando la individualità della sua condizione, l’argomento fa della persona singola lo strumento di una esigenza collettiva. E’ quanto ha ammesso la Corte europea dei diritti umani, affermando che la liceità o la punibilità dell’aiuto al suicidio, che pur interferisce nella vita privata della persona, rientra nell’ambito della valutazione discrezionale dell’interesse pubblico da parte dello Stato. Vero è che, decidendo il ricorso di una malata in gravissimo stato, che chiedeva di morire e il cui marito era disposto ad aiutare, lo ha detto sottolineando il fatto che nel sistema legale britannico, cui il caso si riferiva, prevedeva la ragionevole discrezionalità della decisione di accusare il responsabile dell’aiuto dato. Ma la tragedia di quella donna le è stata imposta fino alla fine, supponendo che l’interesse pubblico non fosse altrimenti tutelabile.

E’ arduo distinguere la liceità del suicidio dalla criminosità dell’aiuto al suicidio: come è stato nel caso americano o è nella pratica in uso in alcuni Paesi a noi vicini, si tratta dell’aiuto dato dal medico che fornisce o somministra il composto letale. Vi sono situazioni in cui il malato non è in grado di togliersi la vita, perché non può più muoversi o perché non gli è possibile da solo procurarsi le sostanze letali. Fermo il rispetto dell’obiezione di coscienza di chi fosse richiesto di aiutarlo a realizzare il suo proposito, non è ragionevole impedire a chi vuole, ma non può morire, di raggiungere lo scopo che potrebbe ottenere se le sue condizioni gli permettessero di agire da solo.

Questo non è un inno al suicidio. Se vivere a qualunque costo non è un dovere che possa essere imposto a chi non lo faccia derivare dalle proprie convinzioni morali, vi sono però situazioni in cui restare in vita è comunque di aiuto o conforto per altri, famigliari o estranei o la stessa collettività. Non si vive soli e spesso non si muore per sé soli. Ma chi avrebbe il coraggio o la presunzione di sostituire il proprio al giudizio di chi in quelle situazioni è immerso?

giovedì 6 novembre 2014

Le origini di Rifiuti Zero

di Marta FERRI,
Antropologa del Centro di Ricerca Rifiuti Zero di Capannori

“La maggior parte delle persone a Torino non sa che c’è un inceneritore, perchè non lo vede”, mi dice Valeria, studentessa al Politecnico e attivista del Coordinamento. “Anche in passato, abbiamo faticato per farci ascoltare, persino nelle zone vicino il sito di costruzione. La gente ha iniziato a seguirci quando ha visto ultimato il camino, ed ha iniziato a chiedersi, ‘cosa uscirà da lì’?”. In questo articolo gli attivisti del Coordinamento No inceneritore Rifiuti Zero di Torino si raccontano, tramite le loro azioni di protesta, ricerca scientifica, informazione e formazione che stanno contribuendo alla creazione di una consapevolezza diffusa riguardo le diverse tematiche ambientali legate all’accensione di un impianto in una comunità.

Le origini

Nel 1995 il Comune di Torino decretò la costruzione di un inceneritore per rifiuti ospedalieri al Gerbido, per far fronte la chiusura del più vecchio impianto di Molinette. La zona è ritenuta tattica poichè, ancora sotto l’amministrazione di Torino, si estende come una penisola – “il ramo secco della città” – in mezzo ai primi comuni periferici, lontana dagli occhi dei torinesi. Si creò così un comitato spontaneo di cittadini, soprattutto delle zone limitrofe, che raccogliendosi nei locali parrocchiali del Gerbido iniziò a studiare il da farsi. “Ci chiamammo Salvambiente Gerbido”, mi racconta Francesco, vigile urbano e attivista della prima ora, “grazie alla collaborazione con l’amministrazione di Grugliasco – che all’epoca aveva un sindaco dei Verdi -, riuscimmo a far valere le nostre ragioni”. Le azioni di protesta furono circoscritte, ma bastarono a far capire all’amministrazione che costruire un inceneritore in una zona che i cittadini stessi consideravano già martoriata – erano già presenti grandi impianti ritenuti altamente inquinanti come la FIAT -, non era cosa da farsi. Chi protestò all’epoca, ha trovato “buffo” il fatto che invece, nel 2002, la Provincia considerasse fattibile costruire nella stessa zona un inceneritore di rifiuti urbani. “Forse perchè ci vedemmo lungo, Salvambiente non si sciolse mai effettivamente”, continua Francesco, e poteva adesso contare anche su forze nuove come Pier Claudio, attivista di grande esperienza ed esperto in materia, e Gian, informatico e curioso, che cercando notizie più “reali” di quelle date in televisione si trovò ad approfondire la questione dell’incenerimento grazie alle prime connessioni internet, ritrovandosi poi attivista. Con l’avvio del nuovo progetto gli attivisti intuirono che il vento era cambiato in politica: se tradizionalmente, in Piemonte, il partito “incenitorista” era rappresentato dalla Destra, con la costituzione di quello che poi sarebbe diventato il PD si cambiarono le carte in tavola. Intanto, mentre Pier Claudio se la vedeva con la politica locale, Gian, che era in contatto con alcuni gruppi No Inceneritore di Alessadria, fu messo in contatto con degli attivisti liguri che, a loro volta, gli diedero il numero di un comitato in Toscana, ritrovandosi così a telefonare a Rossano Ercolini di Capannori. Il gruppo di Torino appena formato, andò così a creare un nodo nevralgico nella prima Rete nazionale No Inc (vedi articolo Capannori). Sin da subito la lotta locale nel torinese ha avuto risvolti reticolari, definendosi come lontana dal comportamento NIMBY – Not In My BackYard – e come facente parte di una struttura aperta, dinamica e dialogante. “La lotta non era ancora sotto l’egida di Rifiuti Zero, perchè ancora non esisteva come terminologia, ma solo come concetto”, mi dice Gian, “ma è grazie al nostro continuo studiare, incontrarci faccia a faccia, parlare, informarci l’un l’altro che la strategia ha poi preso piede in Italia”. In quei primi anni, nonostante il percorso formativo e teorico iniziato con la rete No Inc, fu difficile raggiungere la gente, il “cittadino medio”. “In piena emergenza rifiuti a Napoli”, mi spiega Pier Claudio, “i media non facevano altro che bombardarci sulla pericolosità di un accumulo di rifiuti, con immagini terrorizzanti dalla Campania. Fu in quel contesto che l’amministrazione motivò la costruzione dell’inceneritore e la gente ne fu pure sollevata”. “Tanto è vero che la leadership politica che promise di costruire l’inceneritore fu eletta al primo turno alle elezioni provinciali dell’epoca”, ricorda Francesco.
Eppure qualcosa cambiò. E fu con l’ultimazione dell’alto camino del Gerbido. La gente forse iniziò a farsi domande e, se prima ai banchetti informativi fatti dagli attivisti non si fermava nessuno, col passare del tempo sempre più cittadini iniziarono a volere approfondire la questione “inceneritore”. In quegli anni si costituì la Rete Nazionale Rifiuti Zero, e nacque così a tutti gli effetti il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino.
Il Coordinamento
Superfluo dire che l’obiettivo primario del Coordinamento è far chiudere l’inceneritore, mettendo in rete la sua lotta e “globalizzandola” in una battaglia comune con tutti quei movimenti che stanno dicendo No ad inceneritori e altri impianti dannosi ambientalmente ed economicamente ad una comunità. Torino, definita una delle tre Stalingrado d’Italia dallo stesso Ercolini, ha contatti con diversi altri gruppi nell’alessandrino, in Liguria, le stesse Parma e Firenze, gruppi e associazioni del torinese che lavorano nel sociale, nonché altri due movimenti che portano avanti Rifiuti Zero come alternativa ad un impianto: il recente NoPiro e l’aostana ValleVirtuosa (di entrambi parlerò nei prossimi due articoli).
Expertise
Come gli stessi attivisti mi dicono, nonostante nessuno abbia un ruolo predefinito all’interno del gruppo, è anche vero che certi compiti se li prendono persone in base alle proprie conoscenze personali – expertise – e tendenze caratteriali. “Chi è bravo a parlare ed è coinvolgente sta ai banchetti, chi è bravo a spiegare ed ha pazienza va a parlare nelle scuole, chi è medico segue le questioni legate alla salute, chi è un tecnico quelle tecniche…e così via”, mi spiega Leo, attivista con particolare predisposizione alla sensibilizzazione e a far banchetti. Ci sono poi figure, come Pier Claudio che hanno maturato un’esperienza nel settore dell’attivismo e della politica, nonché nella lotta agli inceneritori che sono preziose; altre come Gian che, grazie sia al proprio lavoro che la propensione ad approfondire le questioni, hanno intrecciato un rete vasta e si occupano quindi di tenere i contatti con la sfera nazionale ed internazionale. Oltre alle competenze private, è anche globalmente riconosciuto nel gruppo l’estrema importanza dei continui studio, aggiornamenti e scambio di informazioni anche con altri gruppi, non solo in materia di “immondizia”. Come sempre Leo mi spiega, “chi sta ai banchetti deve saper rispondere a domande anche mirate e approfondite su questioni mediche, chimiche e tecniche che riguardano l’inceneritore e non solo. Una volta mi trovai a fermare per caso un pezzo grosso della ARPA, e lì dovetti sfoderare tutte le mie conoscenze!”.
Questo tema sottolinea l’importanza della conoscenza condivisa presente su più livelli, che si dispiegano dal locale dei singoli comitati in rete, al globale dei network internazionali. Questo caratterizza la struttura in “evoluzione” costante del sapere scientifico e socioculturale relativo a Rifiuti Zero. Lo stesso, Luisa – medico del pronto soccorso e affiliata di ISDE – dice che è importante non solo portare la propria expertise all’interno del gruppo e usarla per la causa, ma anche continuare ad ampliarla, approfondendo questo e quel tema. Come medico ISDE partecipa a conferenze, si tiene aggiornata e si scambia informazioni con i colleghi – è in contatto sia con Manrico, medico del GCR di Parma che con Gianluca, medico del Coordinamento di Firenze, per citarne due -, tanto che nel 2012 ha creato un gruppo ISDE a Torino. L’expertise è quindi vista come un insieme di competenze personali che possono essere condivise con il gruppo, creando una conoscenza di base condivisa, che però deve aggiornarsi ed essere approfondita in continuazione, così come le expertise maturano sul campo e approfondiscono tematiche utili nella lotta.
Le azioni principali
Il Coordinamento si è fatto sentire sin da subito con un serie di manifestazioni – che contavano le migliaia di partecipanti -, eventi informativi in piazza come banchetti, serate di assemblee pubbliche e, si vocifera, anche azioni “alla Greenpeace” come l’arrampicarsi sul camino dell’impianto, ormai costruito, stendendo uno striscione con scritto “NO INCENERITORE”. L’informazione è sempre stata ritenuta il chiodo su cui battere costantemente, poiché i cittadini sono visti come la forza sociale della protesta. A livello di azioni legali, sono stati presentati numerosi ricorsi all’opera dell’impianto, sempre respinti “fatto non strano, visto che i giudici amministrativi sono nominati dalla forza politica in carica”, mi fa notare Luisa. Un’altra azione, certosina oso dire, è quello di controllo dei dati delle emissioni giornaliere dell’inceneritore, lavoro di cui si occupa principalmente Valeria. È grazie a questi controlli che spesso gli attivisti riescono a denunciare emissioni fuori norma e possibili incidenti all’interno dell’impianto, conosciuto, già in partenza, come difettoso. Questo stato di difetto può trovare origine nella sua costruzione: sembra che l’intero edificio sia stato eretto non seguendo le norme di sicurezza sul lavoro, in fretta e furia, per stare nei tempi e non pagare la penale di mancato compimento. Ciò ha avuto come principale effetto la mancata messa in sicurezza dell’intero cantiere, fatto che sembra essere all’origine di numerosi infortuni fra gli operai e, con forti probabilità, la morte di quattro di questi. Sono stati alcuni lavoratori stessi, anonimi, che hanno contattato il Coordinamento denunciando condizioni di lavoro ben lontane da quelle previste dalla legge: esposti ad esalazioni provenienti dai rifiuti immagazzinati previa l’accensione, lavoravano in un cantiere a cielo aperto senza alcun riparo. In seguito ad un allagamento di una zona delle fondamenta, ci fu un cortocircuito che danneggiò diverse parti dell’edificio, compresa una turbina che tuttora sembra essere la causa dei numerosi incidenti accaduti a pochi mesi dall’accensione.
Da un anno a questa parte è stata condotta un’analisi epidemiologica sulle unghie dei bambini residenti le zone limitrofe l’inceneritore. Lavorando in un laboratorio tenuto ‘segreto’ “per evitare che i ricercatori abbiano pressioni dall’alto, come probabilmente è accaduto in passato”, dice Luisa, i primi risultati mostrano i livelli di metalli pesanti nei bambini prima dell’accensione dell’impianto, per avere un dato di paragone iniziale. I secondi prelievi sono stati fatti a giugno scorso e la ricerca procederà per i prossimi anni. “E’ un’iniziativa che mira a prevenire gli effetti peggiori delle diossine, monitorandone i livelli in soggetti in crescita e quindi più esposti. Così facendo dovremmo essere in grado di portare dati certi sugli effetti dell’incenerimento sulla salute dei cittadini”.
A proposito di giovani generazioni, il Coordinamento da anni si impegna nella sensibilizzazione e formazione di una coscienza ambientale nelle scuole. Sulla città di Torino, Luisa e Pier Claudio hanno portato avanti per diverso tempo lezioni e assemblee nelle scuole secondarie, molto partecipate e con un pubblico incredibilmente attento. Nel comune di Colegno, uno dei limitrofi il Gerbido, l’anno scorso Leo, Silvia – un’altra attivista del gruppo torinese -, Valeria e Paolo – il curatore della comunicazione della grafica degli eventi organizzati – si sono occupati di un progetto di formazione ambientale per 20 classi elementari. Il progetto, ideato da Enrico – un attivista che si è inoltre occupato della creazione del sito web del Coordinamento – aveva come obiettivo il fornire una conoscenza globale dei temi ambientali – acqua, terra, energia, rifiuti – con gli strumenti e i termini adatti ai più piccoli.
Da sempre il Coordinamento ha cercato di replicare alla mala informazione e alle conflittualità con la leadership politica non solo con comunicati stampa e articoli, ma anche tramite brevi video ed interviste che approfondiscono alcune delle tematiche di lotta più critiche da diffondere. Questi video, di cui si sono occupati Paolo, Silvio ed Elisabetta – altri due attivisti che si occupano dei media -, sono poi stati postati sul canale YouTube del Coordinamento (Rifiuti Zero Tv). “E’ un’azione importante”, dice Paolo, “perchè l’articolo sul sito non tutti lo leggono, mentre un video arriva diretto, non è pesante perchè breve e, essendo una serie di immagini, può essere più incisivo che di parole scritte”. Sempre in linea con queste sue parole, Paolo si è inoltre occupato anche della divulgazione del film documentario Trashed – e del relativo dibattito che di solito segue alla proiezione – in diversi circoli del torinese.
L’empowerment culturale passa per diverse vie di comunicazione: oltre alle verbali dirette tipiche delle azioni informative e quelle scritte dei comunicati e dei volantini, le visive sono spesso molto incisive, poiché riescono a creare legami cognitivi con una realtà vissuta o relativa a circostanze non troppo lontane dal quotidiano di ogni cittadino.

Trashed a Grugliasco
Trashed è l’ultimo film di Candida Brady, interpretato da uno scosso e conciso Jeremy Irons, ed ha la capacità di suscitare un miriade di reazioni che si risolvono spesso con una presa di coscienza da parte del pubblico su diverse tematiche ambientali attuali. La platea di Grugliasco – comune nei pressi di Torino i cui cittadini hanno potuto seguire l’evolversi dei lavori dell’inceneritore dalle finestre di casa propria – non ha fatto probabilmente eccezione. La proiezione è stata l’evento lancio di Rifiuti Zero Grugliasco, comitato satellite del Coordinamento di Torino, creato da attivisti del Coordinamento stesso che vivono nel comune. Following up che denota bene l’azione non solo di sensibilizzazione sul territorio del gruppo di Torino, ma anche la sua incisività nell’aver creato un contesto di empowerment sociale ed educativo, tanto da aver portato attivisti del proprio gruppo ad occuparsi della proprio località, pur continuando l’impegno con il Coordinamento. Parlando con Federico – giovane attivista ed uno degli iniziatori del gruppo di Grugliasco – riguardo il concetto di Rifiuti Zero, lui mi fa notare che “il bello di Rifiuti Zero è che non sono tutti scienziati. Anzi, per dire, lo stesso Cavallari nasce dalla politica, però studiando, è riuscito a portare avanti le questioni anche più tecniche. Siamo un insieme di persone che, mettendo insieme le proprie conoscenze, crea quello che è Rifiuti Zero. È splendido, è una comunità!”.

La situazione attuale
Con l’inceneritore acceso da un anno, il cui funzionamento è soggetto a continui interventi tecnici, dovuti in gran parte dallo sforamento dei limiti legali di alcune sostanze nelle emissioni dell’impinato, il Coordinamento tiene testa e continua con le azioni di informazione e protesta sui diversi fronti fin ora descritti. Una delle ultime manifestazioni del gruppo torinese al completo, è stata una “veglia funebre” alle porte dell’inceneritore la sera prima dell’inaugurazione (19 giugno) – cui avrebbero partecipato numerosi politici locali -, “per altro a distanza di un anno dalla sua accensione”, sottolinea Valeria nel raccontarmelo. “Eravamo circa 200 persone davanti agli ingressi.”, continua “Abbiamo fatto volare lanterne e acceso candele. Ad un microfono ognuno poteva esprimere un proprio pensiero, una frase, leggere una parte di un libro…”. Il giorno dopo, anche se i manifestanti presenti erano meno rispetto alla sera prima, perchè giorno lavorativo, il Coordinamento ha invece organizzato un’azione di boicottaggio dei politici che entravano per il buffet di inaugurazione dell’impianto. “Con noi c’era anche il sindaco di Rivalta, che ha preferito stare dalla nostra parte purchè entrare con tutti gli altri”, conclude Valeria. Rivalta, infatti, da quasi tre anni a questa parte si è sempre schierata contro l’inceneritore, sostenendo anche in modo fisico e tangibile – come può essere una presenza istituzionale fra le fila degli attivisti – il lavoro del Coordinamento.
Concludendo, il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino, nella sua decennale lotta per l’attuazione di un’alternativa sostenibile all’inceneritore del Gerbido, è stato in grado non solo di creare un certo livello di consapevolezza e formazione sulle tematiche ambientali e di gestione dei rifiuti fra la popolazione – grazie anche ad azioni di empowerment educativo, come i cicli di lezioni nella scuole –, ma sta costruendo una conoscenza condivisa di base grazie all’apporto delle expertise maturate ed acquisite nella lotta. Il Coordinamento sta inoltre contribuendo a livello nazionale a creare una conoscenza medico-scientifico sul tema delle conseguenze delle diossine nella crescita di soggetti, grazie all’inizio dell’indagine epidemiologica: i dati riportati da queste analisi saranno probabilmente preziosi in futuro per l’argomentazione “no inceneritore” nel dibattito pubblico.
 

Inceneritore, le bugie hanno le gambe corte (e le tasche vuote)

Sulle pagine locali di un quotidiano nazionale è apparso nei giorni scorsi un articolo interessante dal quale apprendevamo che una parte dei fondi necessari per lo studio di biomonitoraggio ambientale  denominato SPoTT sulle popolazioni residenti intorno all'inceneritore del Gerbido, sarà pagato dagli introiti ottenuti con lo smaltimento dei rifiuti provenienti dalla Liguria. Già questa estate erano state evidenziate difficoltà nel reperire i fondi (più di 800.000 euro per quest'anno e circa 2,3 milioni di euro in totale) per questo studio, che invece nel 2013 e nel 2014 era stato sbandierato da tutti gli amministratori favorevoli all'incenerimento come una garanzia ulteriore per i cittadini.
Passate le elezioni, come sempre accade in Italia, i nodi sono venuti al pettine ed ora nel silenzio generale si fa un’ulteriore deroga all’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) dato che questa prevedeva il biomonitoraggio al di là di un’eventuale importazione di rifiuti, (tra l’altro sempre esclusa in tutte le sedi dalle autorità provinciali).Tra l’altro resta concreta la minaccia che i rifiuti non torinesi siano smaltiti in eccedenza rispetto alle 421.000 tonnellate annue previste. E' un'operazione che lo Stato fa già con il gioco d'azzardo dato che da una parte prende i soldi dalle concessionarie e dall'altra è costretto a spenderne una quantità spaventosa per le nuove patologie che stanno ormai dilagando a causa dell'aumento indiscriminato di lotterie, casino on line etc.
Il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino non accetta questa logica. Ci troviamo di fronte all'ennesima bugia che resta totalmente ignorata dalla maggior parte dei mezzi di informazione e delle amministrazioni. Pecunia non olet, il denaro non ha odore, è questo ormai il motto di molti di quelli che ci governano a tutti i livelli, dal Governo di Roma che vuole approvare l'osceno Sblocca Italia, ovvero sblocca cemento-petrolio-inceneritori, fino all'ormai tragicomico Comitato Locale di Controllo che tanto aveva decantato lo SPoTT.
Per quanto ci riguarda continuiamo, tra mille difficoltà, il nostro studio indipendente sull'accumulo di metalli pesanti nelle unghie dei bimbi che vivono intorno al camino di TRM, a tal proposito ricordiamo che chiunque può fare una donazione al seguente conto corrente: IT 80 X 05390 14100 000000033178 oppure tramite bollettino postale sul c/c n° 14313522 intestato a Associazione medici per l'Ambiente causale (OBBLIGATORIA) “5 Euro per difenderci dall'inceneritore di Torino”.
Come cittadini responsabili continuiamo anche a monitorare i dati di emissione dell'inceneritore ed a promuovere ovunque le politiche di buona gestione dei rifiuti.
A tal proposito non possiamo non rallegrarci del fatto che finalmente sul territorio della provincia di Torino si stiano organizzando delle iniziative importanti per la nascita di un agglomerato di comuni che gestirà i propri rifiuti non differenziati totalmente a freddo senza bruciare nemmeno un grammo di preziosa materia. Ad Almese il 30 ottobre scorso è stato finalmente ufficializzato che 4 Consorzi della Provincia di Torino (Acsel Val Susa, Ivrea, Cirie' e Pinerolo) stanno pianificando un accorpamento e studiando la realizzazione di una fabbrica dei materiali, un impianto per il recupero di materia dal rifiuto indifferenziato.
E' un'ottima notizia per la nostra salute e per le nostre finanze e ci da ancora più coraggio ad andare avanti nella lotta contro la miopia e l'ignoranza di chi ha gestito i rifiuti a Torino negli ultimi 20 anni.

 Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero
Torino 04-11-2014

Ufficio Stampa
Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino
Tel: 335.6722544

Burkina Faso, la faticosa transizione

Tre presidenti africani sono in viaggio verso Ouagadougou con un messaggio chiaro da consegnare al nuovo ‘uomo forte’ del Burkina Faso, il luogotenente colonnello Yacouba Isaac Zida: consegnare il potere ai civili entro 15 giorni per evitare sanzioni da parte dell’Unione Africana. Previsto per oggi l’incontro tra Zida e il capo di Stato del Ghana, John Dramani Mahama, in qualità di presidente di turno della Comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas), accompagnato dal suo omologo nigeriano Goodluck Jonathan e dal senegalese Macky Sall. Una visita già preparata dagli emissari della ‘troika’ Unione Africana, Onu e Cedeao, finalizzata anche alla preparazione del vertice dell’organizzazione dell’Africa occidentale in agenda per domani ad Accra, al centro del quale ci sarà la crisi in Burkina Faso.
Una minaccia di sanzioni presa sul serio a Ouagadougou per il potenziale rischio di isolamento sulla scena continentale ed internazionale e per le possibili ripercussioni negativi in termini economici e di aiuti allo sviluppo da parte dei “donors”, il cui contributo è cruciale a sostegno di uno dei paesi meno sviluppati del pianeta. Ieri sera il Canada ha annunciato la sospensione della cooperazione umanitaria con il Burkina Faso. “Alla luce della situazione attuale, non è più possibile fornire assistenza allo sviluppo versando direttamente i fondi al governo burkinabe in quanto non abbiamo alcuna garanzia che verranno spesi in conformità con gli impegni presi” ha detto il ministro canadese per lo Sviluppo internazionale, Christian Paradis. Tra il 2012 e il 2013 il Canada ha versato aiuti al paese africano per circa 35,6 milioni di dollari. “I fondi saranno nuovamente versati quando il governo di Ottawa sarà sicuro che il potere verrà restituito ad un’autorità civile e legittima” ha aggiunto Paradis. In base alla Costituzione del Burkina Faso, in caso di dimissioni del capo dello Stato è la seconda carica istituzionale, cioè il presidente dell’Assemblea nazionale (parlamento), a dover assumere la guida del paese.
A poche ore dall’arrivo dei tre presidenti africani e dopo due giorni di consultazioni con tutte le ‘forze vive’ della nazione – partiti politici di maggioranza e opposizione, società civile, capi tradizionali e sindacati – il luogotenente colonnello Zida si sarebbe impegnato a “consegnare il potere ai civili entro due settimane”. Una garanzia data durante i colloqui avuti col capo dei Mossi, la principale comunità del paese, ma anche col presidente della confederazione dei sindacati, Joseph Tiendrebeogo. Dopo l’incontro con Zida, il re dei Mossi ha dichiarato di aver chiesto ai militari di “fare tutto il possibile per avviare un processo di pace nel paese poiché tutti vogliono la pace”.
Il nuovo ‘uomo forte’ ha anche ricevuto l’imam Sana Aboubacar, capo della comunità musulmana, e l’arcivescovo di Ouagadougou, il cardinale Philippe Ouédraogo, che ha già indetto una novena di preghiera “per la pace, la riconciliazione e la giustizia in Burkina Faso” fino al 9 novembre. In una speciale preghiera il cardinale chiede a Dio di “accordare al nostro paese delle istituzioni che garantiscano il benessere, la libertà e la pace”. Dalle dimissioni del presidente Blaise Compaoré, rimasto al potere per 27 anni, nessun leader religioso si era finora espresso pubblicamente. Già nel 2013, con una lunga lettera pastorale indirizzata a Compaoré, i vescovi del Burkina Faso criticavano un “governo sempre più sconnesso dalla realtà e dall’etica sociale”. Lo scorso gennaio, dopo essere stato creato cardinale, in un’intervista alla MISNA monsignor Ouédraogo aveva auspicato che in Burkina Faso “come già avvenuto in Senegal, possa essere avviato un processo di alternanza politica nella pace e senza spargimento di sangue”.

MISNA -
Missionary International Service News Agency

domenica 2 novembre 2014

Il 16 Ottobre Taranto volta pagina

Una giornata storica per Taranto, il 16 ottobre 2014. Una spaccatura netta tra passato e presente.
Un passato che sarà giudicato dal processo “Ambiente Svenduto”, del quale l’udienza preliminare di questo 16 ottobre è appunto l’inizio. Un presente che è quello del non rispetto delle norme, come attesta oggi la Commissione Europea che porta la procedura d’infrazione lanciata a due riprese (settembre 2013 e aprile 2014) contro l’Italia per lo stabilimento Ilva alla sua seconda fase, quella del “parere motivato”. Siamo ad un passo dal deferimento alla Corte di Giustizia.
Ma andiamo per ordine.

Il processo al passato. Esso vede 53 imputati, di cui 50 persone fisiche e tre società, appartenenti al Gruppo Riva, ancora proprietario dell’ILVA, fino a quando non ci sarà l’annuncio formale della vendita ventilata, ma non confermata, che vedrebbe l’Ilva in mano al Gruppo Marcegaglia e al colosso franco-indiano Arcelor Mittal.

Nell’udienza preliminare il Gup Gilli dovrà deliberare sulla richiesta di rinvio a giudizio per l’ex Presidente dell’Ilva (ed ex prefetto di Milano) Bruno Ferrante; per due ex direttori dello stabilimento, Luigi Capogrosso ed Adolfo Buffo; per l'ex addetto alle relazioni istituzionali dell'Ilva, Girolamo Archiná; per il direttore dell'Agenzia regionale per la protezione ambientale della Puglia (Arpa), Giorgio Assennato; per l’assessore all'Ambiente della Regione Puglia, Lorenzo Nicastro (IdV); per l'ex consigliere regionale della Puglia, oggi deputato di Sel, Nicola Fratoianni; per l'attuale consigliere regionale Donato Pentassuglia (Pd); e per l’ex assessore provinciale all’Ambiente Michele Conserva (Pd); per l’ex Presidente della Provincia Gianni Florido (Pd); e per il sindaco di Taranto (Sel) Ippazio Stefàno. Ma soprattutto, per il Presidente della Regione Puglia e Presidente di Sel, Nichi Vendola.

Si, perché il processo al passato e al presente dell’Ilva é un processo alla sinistra tutta, avviluppata nella gestione dell’Ilva-gate e pronta, come sostiene l’accusa, a cedere alle richieste del padrone Riva. Sembra quasi un gioco del destino che la Commissione Europea e la Magistratura, nello stesso giorno, prendano ancora una volta in mano una il passato e l’altra il presente di una città che é stata abbandonata da tutte le istituzioni, che avrebbero dovuto proteggerla e tirarla fuori dai miasmi asfissianti emessi dalla fabbrica e dalla politica ad essa amica.

Il coraggio della svolta Taranto lo ha trovato nelle sue associazioni, che sono state la chiave di volta per uscire dall’oppressione silenziosa nella quale essa é stata relegata. L'inchiesta Ambiente Svenduto è nata nel 2009, a seguito delle numerose denunce delle associazioni ambientaliste. Nel 2007 Peacelink, sulla base del registro europeo Eper, denunciava che oltre il 90% della diossina nazionale veniva prodotto a Taranto. Nel febbraio del 2008 la stessa associazione faceva realizzare delle analisi sul pecorino prodotto da aziende locali i cui capi di bestiame (abbattuti) pascolavano vicino allo stabilimento: la diossina e gli altri inquinanti presenti nel formaggio erano allarmanti.

Ma perché si è dovuta far carico una associazione di commissionare le analisi che hanno portato la Magistratura ad indagare sulla questione ambientale? Perché si é dovuta attivare la stessa associazione per andare a Bruxelles a chiedere che la Commissione intervenisse a difesa della città? Perché il muro di omertà era spaventosamente ampio e talmente potente da sembrare impossibile da scalfire.

Da una parte la Magistratura, dall’altra la Commissione Europea. In mezzo il governo silente, ieri e oggi, che ha sempre minimizzato, che ha cercato di occultare, che ha omesso e finto che a Taranto non accadesse nulla di diverso dalla norma.

La magistratura, per bocca del Gip Patrizia Todisco, ha descritto come “disegno criminoso” ciò che avvenne dentro l’Ilva e dentro i palazzi tarantini, baresi e romani. La politica ha permesso che l’Ilva godesse di una impunità senza precedenti, permettendo così che i profitti dei Riva arrivassero nelle banche estere e disegnando leggi ad hoc per consentire allo stabilimento di produrre senza rispettare le leggi, che venivano di volta in volta cambiate secondo le esigenze dettate dall’Ilva stessa.

La politica ha inoltre fatto e disfatto leggi e decreti nel tentativo di fermare la magistratura.

L’accusa per il Presidente della Regione Puglia Vendola è di concussione con i vertici dell’azienda: la Procura di Taranto gli imputa di aver esercitato pressioni sui vertici dell'Arpa Puglia e in particolare sul suo direttore Giorgio Assennato, affinché ammorbidisse l'azione di controllo verso l'Ilva. Il Sindaco di Taranto, Stefàno, deve invece rispondere di omissione di atti d’ufficio e di non aver dato corso, in qualità di prima autorità sanitaria della città, alle denunce in merito all'inquinamento causato dall'Ilva.

Negli anni, sono stati numerosi gli interventi istituzionali per salvare l’Ilva e metterla in regola con provvedimenti ope legis contestati dalla popolazione. E la Commissione Europea ne prende nota e lo scrive nel testo del parere motivato annunciato stamane. Sei provvedimenti ad hoc per l’Ilva, AIA (autorizzazione integrate ambientale) scritta nel 2011 e poi cambiata diverse volte senza mai essere applicata.

Il processo al presente é ancora più eclatante, perché é molto raro che la Commissione Europea intervenga contro uno Stato Membro quando si tratta di questioni legate all’economia e a gruppi di potere economico. Ma il Commissario all’Ambiente Potocnik ha applicato il diritto europeo in tutta la sua pienezza e ha saputo andare avanti con coraggio e determinazione ammirevoli, in barba a tutte le pressioni che sono state esercitate a Bruxelles.

La Commissione Europea ha annunciato stamane di aver preso nuove misure contro l’Italia a causa dell’impatto generato dall’Ilva. L’Italia, scrive la Commissione, non ha assicurato che l’Ilva operasse in conformità alla legislazione europea sulle emissioni industriali, con conseguenze potenzialmente pericolose per la salute e l’ambiente, così come sanciscono la Direttiva sulle Emissioni Industriali e tutta la legislazione europea in materia ambientale.

La Commissione ha affermato stamane di aver riscontrato una serie d’infrazioni alla legge europea perpetrate dall’Italia (la quale ha il compito di garantire che sul territorio nazionale ci sia una corretta applicazione del diritto europeo). Nel testo si parla del mancato rispetto delle condizioni stabilite dall’AIA, di un’inadeguata gestione di diversi aspetti fondamentali per la protezione della salute e dell’ambiente, e si sottolinea che molti dei problemi riscontrati derivano dalla mancata riduzione dell’alto livello delle emissioni e delle polveri che fuoriescono dalla fabbrica e che mettono in pericolo i cittadini di Taranto.

La Commissione affonda ancora e scrive che gli esami condotti hanno evidenziato un pesante inquinamento dell’aria, del suolo, della superficie e delle acque di falda, sia sul sito Ilva che nella città di Taranto, e che la contaminazione del quartiere Tamburi, adiacente all’Ilva, può essere attribuita alle emissioni che fuoriescono dallo stabilimento.

I permessi per la produzione, scrive la Commissione, possono essere concessi solo se alcune condizioni ambientali sono rispettate. Essi devono garantire che misure di prevenzione adeguate vengano messe in atto perché, si evince, senza applicazione delle legge e dei protocolli previsti non é possibile autorizzare la produzione.

L’Ilva, dice in sostanza la Commissione Europea, opera ancora fuori legge. La politica e la dirigenza dell’Ilva, dice la Magistratura, hanno operato fuori legge.

Il futuro della nostra città non é più nelle mani della politica che tutto ha visto, taciuto e nascosto. Il 16 Ottobre Taranto volta pagina.

Antonia Battaglia
(16 ottobre 2014)

sabato 1 novembre 2014

Brasile, Tunisia, Ucraina, Uruguay...

Domenica 26 ottobre si è votato per le elezioni presidenziali in Brasile e in Uruguay, per rinnovare il Parlamento della Tunisia e per eleggere i parlamentari in Ucraina. Anche se in alcuni casi il conteggio dei voti è ancora in corso e i dati sono parziali, è possibile già farsi un’idea di chi abbia vinto dove e come. (Il Post)

Brasile
La presidente uscente Dilma Rousseff, del Partito dei Lavoratori, ha vinto il ballottaggio contro il rivale del Partito Socialdemocratico Aecio Neves: ha ottenuto il 51,6 per cento dei voti, mentre Neves si è fermato al 48,4 per cento. Durante il suo discorso della vittoria, Rousseff ha detto di voler essere “un presidente migliore rispetto a ciò che sono stata finora” e ha poi invitato tutti i brasiliani a unirsi “per un migliore futuro del Brasile”, annunciando di essere aperta al dialogo e che questo sarà uno dei tratti essenziali del suo nuovo mandato. Grazie alla sua vittoria, il Partito dei Lavoratori ha ormai un proprio esponente alla presidenza dal 2002: il primo mandato di Rousseff era iniziato nel 2010 ed era stato preceduto da due mandati di Luiz Inacio Lula da Silva.

A Belo Horizonte, Aecio Neves ha riconosciuto la sconfitta e ha ringraziato “gli oltre 50 milioni di elettori” che hanno comunque votato per lui. Anche Neves ha parlato della necessità di mantenere unito il Brasile, il cui elettorato ha dimostrato di essere equamente diviso tra i due principali partiti del paese.




Ucraina
I partiti filo-europei sono in ampio vantaggio alle elezioni parlamentari: a oltre un quarto dei voti scrutinati, il Fronte Popolare dell’attuale primo ministro, Arseny Yatseniuk, è al 21,7 per cento, seguito di poco dall’alleato Blocco di Poroshenko al 21,6 per cento, costituito dal gruppo di partiti e movimenti che sostengono il presidente Petro Poroshenko. Nella notte Poroshenko ha ringraziato gli elettori per avere reso possibile la formazione di una “maggioranza democratica, riformista, filo-ucraina e filo-europea”. La netta affermazione dei due partiti dovrebbe portare a una nuova stretta collaborazione tra Yatseniuk e Poroshenko, entrambi impegnati a fare avvicinare l’Ucraina alle politiche economiche, e non solo, dell’Unione Europea, allontanando il paese dall’influenza del governo russo. Gli incontri per formare una nuova coalizione di maggioranza dovrebbero iniziare già lunedì.
Stando ai dati, ancora parziali, il Blocco delle opposizioni che sostiene l’ex presidente filo-russo Viktor Yanukovich ha ottenuto circa il 9,6 per cento dei voti, più di quanto si aspettassero molti analisti. Si tratta di una percentuale sufficiente per essere rappresentati all’interno del Parlamento. L’Unione Pan-Ucraina “Patria” guidata dall’ex primo ministro Yulia Timoshenko è andata meno bene del previsto, fermandosi al 6 per cento, una quantità di voti sufficiente per avere comunque qualche seggio all’interno del nuovo Parlamento. Ventisette seggi rimarranno vacanti perché rappresentano collegi che si trovano nella Crimea – occupata e annessa dalla Russia – o nelle zone orientali controllate dai ribelli filo-russi in cui non è stato possibile organizzare il voto. Per i dati definitivi occorrerà attendere il prossimo 30 ottobre, salvo ritardi.


Uruguay
Alle presidenziali, Tabaré Vazquez – il candidato di sinistra del Fronte Ampio, il partito del presidente uscente José Mujicaha ottenuto secondo i primi risultati circa il 46 per cento dei voti, superando di oltre dieci punti Luis Alberto Lacalle, del Partito Nazionale di centrodestra. Nessuno dei due ha però ottenuto più del 50 per cento dei voti, e per questo motivo nel paese si dovrà tenere un ballottaggio a novembre. Pedro Bordaberry, il candidato di centrodestra arrivato terzo con il 14 per cento, ha già detto che sosterrà Lacalle: secondo i media dell’Uruguay l’esito del ballottaggio sarà difficilmente prevedibile.
 
Vazquez è stato tra i protagonisti del successo del Fronte Ampio ed è già stato presidente, vincendo le elezioni del 2004 e diventando il primo presidente di sinistra dell’Uruguay. Le sue politiche – tese a maggiori aperture per il mercato e per una intensa riforma dello stato sociale – gli fecero ottenere molti consensi, ma alla fine del mandato non poté ricandidarsi perché in Uruguay non è possibile rimanere presidenti per due turni consecutivi. Mujica durante il proprio mandato ha seguito molte delle politiche avviate da Vazquez. Lacalle ha puntato invece tutta la campagna elettorale sulla necessità del cambiamento, dichiarandosi inoltre contrario alla discussa legge in fase di approvazione sulla liberalizzazione della marijuana.
In Uruguay si è votato anche per il rinnovo del Parlamento. Stando ai risultati non ancora definitivi, né il Fronte Ampio né il Partito Nazionale hanno ottenuto una maggioranza.



Tunisia
Sono state le prime elezioni organizzate dopo l’approvazione della nuova Costituzione a inizio anno. Il conteggio dei voti è ancora in corso e richiederà tempo prima di essere completato, ma Appello della Tunisia (Nidaa Tunes), un’alleanza di partiti laici, ha già detto di avere ottenuto più di 80 seggi nel nuovo Parlamento, che ne ha in tutto 217. Sempre secondo i dati dell’alleanza, il partito di ispirazione religiosa e considerato moderato Ennahda avrebbe ottenuto circa 67 seggi. Ennahda era la forza di maggioranza relativa nell’attuale Parlamento uscente. Secondo diversi osservatori i risultati ufficiali non dovrebbero differire molto e potrebbero quindi segnare una sensibile sconfitta per Ennahda.
Il prossimo 23 novembre sempre in Tunisia si terranno le elezioni presidenziali, le prime regolari dopo la rivoluzione del 2011 che portò alla deposizione dell’allora presidente Ben Ali.


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La Tunisia, chiamata alle urne domenica 26 ottobre dopo tre anni dalla cosiddetta “Rivoluzione della dignità”, ha dovuto scegliere i 217 membri che andranno a sedersi nel nuovo Parlamento per i prossimi cinque anni. È stato chiaro sin da subito che la sfida maggiore si sarebbe giocata tra il partito islamico Ennahda e il partito modernista Nidaa Tounes. Dai risultati dell’Isie (L’Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni), Nidaa Tunes è risultata in testa con 85 seggi contro i 69 di Ennahda e in terza posizione l’Upl, l’Unione patriottica libera, con 16 seggi davanti al Fronte Popolare di Hamma Hammami con 15 seggi. L’affluenza alle urne, rispetto ai cittadini registrati (l’iscrizione era obbligatoria, ndr) è stata del 61,8% nei confini nazionali e del 29% all’estero. Il tutto svoltosi in un clima tranquillo, nonostante non siano mancate le difficoltà, soprattutto per i tunisini all’estero: «Lì molte persone, registratesi volontariamente per le elezioni – riferisce Leila Chraibi Ayadi, membro dell’Atide, Associazione Tunisina per l’integrità e la Democrazia delle Elezioni, presente con 408 osservatori volontari all’estero e 2.693 nei confini nazionali – non hanno trovato il proprio nome sui registri e non hanno potuto esercitare il loro diritto di voto. In altri casi l’Isie ha cambiato la sede dei seggi senza informare gli elettori e aggiornare le informazioni sul suo sito internet».
Anche in Tunisia sono state rilevate diverse infrazioni: tra le altre, ritardi nell’apertura di diversi seggi, propaganda elettorale davanti ad alcuni seggi, la non neutralità politica di alcuni presidenti e nel 6% dei seggi, le urne non sono state aperte prima del voto davanti agli osservatori per dimostrare che fossero vuote. «Rispetto alle elezioni del 2011 – dice Marysa Impellizzeri – in cui il popolo aveva fiducia nel cosiddetto “partito di Dio”, si riscontra una certa disillusione e sfiducia nei suoi confronti, anche negli strati sociali più bassi della popolazione, dovuta alla propaganda strumentale, all’aumento delle violenze e all’abuso di potere.» Marysa si è stabilita a Tunisi da gennaio di quest’anno, ma il suo legame con il Paese è ben più profondo: fa parte dei cosiddetti “italiani di Tunisia”, la numerosa comunità emigrata in Tunisia che dopo l’indipendenza fu costretta a tornare in Italia. Genitori nati e cresciuti a Tunisi, Marysa ha lasciato la culla della primavera araba da piccola, vivendo tra Torino, Milano e Bergamo, per poi decidere di ritornarci. «Molti elementi hanno contribuito alla minore affluenza: tra questi, anche la quantità smisurata di partiti. Per un popolo che era abituato ad un solo partito, lontano dalla cultura del confronto e del dibattito, non è una scelta facile. Il guardiano del mio stabile mi ha detto: “Con tutti questi partiti, non so chi votare”. Per i problemi avuti all’estero, sicuramente c’è una parte di disorganizzazione, ma anche una parte di dolo. Agire sull’assenteismo è un fattore sicuro». E conclude: «Io come italiana di Tunisia spero che vinca la libertà, come l’ho sempre vissuta qui. La libertà di integrarsi, di mescolarsi e la laicità. I tunisini sono un popolo la cui cultura è venuta alla luce grazie a questo mescolarsi, senza che nessuno abbia perso la propria identità».
Cinzia Anelli abita a Sahline (Monastir) dal 1997, insieme al marito, tunisino, e i loro tre figli. Dal 1999 ha ottenuto la cittadinanza tunisina, ma ha deciso di non votare: «Non sono interessata alla politica – spiega -: mi sembra un minestrone di idee troppo pagate. Se fosse retribuita come un normale lavoro salariato si vedrebbero molte più persone oneste e veramente elette e supportate dal popolo. In attesa che succeda, niente voto». Sui risultati commenta: «Si sapeva già che non c’erano vincite nette. È più importante una collaborazione che un contrasto, altrimenti si creeranno le fazioni e il paese ripiomberà nel malcontento precedente. In queste elezioni nonostante la caterva di liste e di nomi sconosciuti i tunisini si sono trovati piuttosto ben organizzati: circa 3000 volontari hanno seguito e supervisionato seggi e svolgimento e vi erano pattuglie di polizia ovunque, per controlli e domande. Hanno fermato anche noi». E per quanto riguarda le priorità che il nuovo governo dovrà darsi aggiunge: «Incentivare l’occupazione creando nuovi posti di lavoro con compensi adeguati al costo della vita: un uomo occupato potrà mantenere la famiglia, mandare i bambini a scuola, vestirli, comprare il necessario senza fuggire su un canotto verso l’ignoto. Aumentare le specializzazioni dei giovani, incentivando con stage e corsi la possibilità di lavorare. Poi tutto il resto: problemi dei rifiuti, aule sovraffollate, potenziamenti della rete ferroviaria, e via dicendo, cose comuni a tutti i Paesi. Inoltre ricordarsi delle vittime della rivoluzione, non con medaglie o commemorazioni, ma con supporti tangibili alle famiglie. Cercare di sviluppare l’ entroterra, sempre dimenticato e magari, ciliegina sulla torta, paesi confinanti che si mantengono in pace senza rifilarci i loro problemi».
Al di là dei risultati, l’attenzione ora si concentra sulle alleanze, necessarie per governare il Paese: per governare sono difatti necessari 119 seggi. I tunisini dovranno ritornare alle urne il 23 novembre, per votare il presidente della Repubblica: dopo quella data Nidaa Tounes deciderà il da farsi. E per i cittadini tunisini non resta che attendere.

Giada Frana,
CorSera MI

Il veleno in tavola


IL VELENO E’ IN TAVOLA I  (2011 - doppiato in italiano)
Presentato a Rio de Janeiro il 25 luglio 2011, di fronte a più di 800 persone nel Teatro Casa Grande, il documentario realizzato da Silvio Tendler per la “Campagna contro i pesticidi e per la vita” mostra in 50 minuti gli enormi danni causati da un modello agricolo basato sull’agrobusiness.  Oltre alle aggressioni all’ambiente, i veleni sempre più utilizzati nelle piantagioni causano seri rischi per la salute tanto del consumatore finale quanto degli agricoltori esposti quotidianamente all’intossicazione. In questa storia, le uniche a guadagnarci sono le grandi imprese transnazionali come Monsanto, Syngenta, Bayer, Dow, DuPont, tra le altre. Il documentario racconta come la cosiddetta Rivoluzione Verde del dopo-guerra eliminò l’eredità dell’agricoltura tradizionale, impiantando un modello che minaccia la fertilità del suolo, le riserve d’acqua e la biodiversità, contaminando persone e aria. Il Brasile è il paese che consuma più veleni nel mondo.5,2 litri all’anno per abitante. I prodotti biologici sono difficilmente accessibili alla popolazione a causa dell’alto costo. Tra l’altro in Brasile ci sono incentivi fiscali per chi usa pesticidi in agricoltura generando una contraddizione tra la salute della popolazione e l’economia del paese e privilegiano la seconda.
 
• Il veleno è in tavola 1 - http://www.youtube.com/watch?v=2xm0HzjLxN4
• Il veleno è in tavola 2 - http://www.youtube.com/watch?v=avY7nT_qgmQ
• Il veleno è in tavola 3 - http://www.youtube.com/watch?v=i2EB5Qe4Vnw
• Il veleno è in tavola 4 - http://www.youtube.com/watch?v=napeFgNxFOk



IL VELENO E’ IN TAVOLA II (2014 - sottotitoli in italiano)
Dopo  "Il Veleno in tavola I”  a cui hanno assistito più di un milione di persone nel solo Brasile, il nuovo documentario sottolinea, come il primo,  gli effetti nocivi dell’uso dei veleni agricoli, ma si occupa soprattutto delle alternative esistenti, dell’agricoltura che non fa uso di pesticidi, concentrandosi in particolare sull’agricoltura familiare biologica. Tendler ha viaggiato per tutto il paese per conoscere e registrare pratiche agricole e stili di vita di uomini e donne che si dedicano alla cura del cibo che producono, vogliono produrre cibo sano e conservare la biodiversità. Ci sono - sostiene Tendler - con il suo lavoro, altri modelli possibili di agricoltura oltre quelli offerti dall’agrobusiness che abusa di pesticidi danneggiando salute di produttori e consumatori e ambiente. Silvio Tendler, registra da sempre impegnato a difesa della democrazia e per mantenere la memoria della storia del suo paese, ha dichiarato: “Ho cominciato a capire l’importanza del cibo nella vita delle persone quando ho saputo di avere il diabete. A partire da quel momento ho compreso come il cibo possa farci ammalare. Il Veleno I è stato un avvertimento, il documentario che esce ora propone alternative. Ti invita a scegliere in che mondo vuoi vivere. E’ ora o mai più”.
http://youtu.be/Ntzs-nxkaw0


SALVIAMO LA MADRE



“Tra i tanti processi di privatizzazione dei servizi pubblici in corso, quello dell’accesso all’acqua è il più criminale,” ha scritto l’attivista R. Lessio nel suo libro All’ombra dell’acqua. “Un progetto folle a cui possono credere solo persone profondamente malate , ammalate del nulla.”
E in questo paese sono tante le persone  ‘ammalate del nulla’, che spingono di nuovo l’Italia verso la privatizzazione dell’acqua. E questo nonostante il Referendum (11-12 giugno 2011), quando 26 milioni di italiani hanno sancito che l’acqua deve essere tolta dal mercato e che non si può fare profitto su un bene così fondamentale .
A tutt’oggi il Parlamento italiano è stato incapace di rispondere a questa decisione popolare con un’appropriata legislazione. Eppure lo scorso anno 200 deputati hanno preparato un disegno di legge che non si riesce a far discutere in Parlamento. La ragione è che il governo Renzi sta perseguendo una devastante politica di privatizzazioni. Con “Sblocca Italia” e la “Legge di Stabilità”, Renzi offrirà incentivi agli enti locali che privatizzano i servizi pubblici. E’ il tradimento del Referendum!
Il governatore della Campania Caldoro ha fiutato bene questo clima e il 31 luglio ha fatto votare al Consiglio Regionale la finanziaria con due maxi-emendamenti: uno, sul condono edilizio e l’altro sulla privatizzazione dell’acqua. La Regione Campania affida così alle società operanti sul territorio, soprattutto alla GORI, non solo la gestione e distribuzione dell’acqua, ma anche la captazione  e l’adduzione alla fonte. Per di più Caldoro ha deciso di costituire presso la giunta una Struttura di missione con grandi poteri sulla gestione dei servizi idrici, togliendoli agli enti locali.
Abbiamo reagito con forza come comitati acqua della Campania con una vivace campagna mediatica. Anche il governo ha impugnato il maxi-emendamento perché in contrasto con i principi fondamentali della legislazione statale in materia. “Troveremo un’intesa con il governo”, ha replicato Caldoro, che è deciso a procedere sulla via della privatizzazione.
 Tutto questo mette in pericolo l’ABC (Acqua Bene Comune) di Napoli , un comune che è passato da una gestione  SPA ad un’Azienda Speciale, uno strumento che non permette di fare profitti .
Napoli è l’unica grande città in Italia che ha obbedito al Referendum ed ha dimostrato che si possono gestire i servizi idrici con un’Azienda Speciale. Lo sbaglio del sindaco De Magistris è stato che, nonostante le pressioni dei comitati, non ha “ messo in sicurezza”l’ABC . Così anche l’acqua di Napoli potrebbe capitolare alla spinta privatizzatrice di Caldoro.
 A raccogliere i frutti di questa operazione di Caldoro sarà l’ACEA (Roma) di Caltagirone che si sta espandendo in Toscana e ora tenta di prendersi l’acqua del Meridione. L’ACEA detiene il 37% delle azioni della GORI , che ha una gestione molto contestata di 76 comuni dell’area vesuviana.  
Al Nord sono in atto  le stesse manovre di unificazione fra IREN (Torino-Genova) e A2a (Milano –Brescia) a cui guarda con interesse HERA (Emilia Romagna). Rischiamo così di avere  una grande multiutility, che gestirà l’acqua del Nord.
Quello che sta avvenendo sotto i nostri occhi è di una gravità estrema. E’ la negazione del Referendum. Davanti a questo scenario, mi viene spontaneo chiedermi:”Dov’è il grande movimento dell’acqua ? Dove sono i 26 milioni di italiani che tre anni fa hanno votato per la ripublicizzazione dell’acqua? Ma soprattutto dov’è la chiesa italiana, le chiese, le comunità cristiane su un tema così fondamentale come l’acqua, la Madre di tutta la vita sul pianeta Terra?” La chiesa si batte contro l’aborto, l’eutanasia e la pena di morte in nome del ‘Vangelo della Vita’, così deve oggi battersi per il diritto all’acqua come  ‘diritto alla vita’ come afferma la teologa americana Christiana Peppard nel suo volume Just Water.
E’ questo il tempo opportuno per credenti e non, per riprendere con forza l’impegno per proclamare l’acqua  diritto fondamentale umano.
Per questo chiedo a tutto il movimento per l’acqua pubblica di ricompattarsi e di rimettersi insieme sia a livello locale, regionale , nazionale ed europeo. Mettiamo da parte  rancori e scontri e continuiamo a camminare insieme!
A livello regionale dobbiamo contrastare la spinta alla privatizzazione dell’acqua e opporci alle multiutilities.
A livello nazionale, dobbiamo fare pressione sul  Parlamento italiano perché discuta subito la Legge sull’acqua , firmata da 200 parlamentari . E’ possibile che il movimento Acqua del Lazio si impegni a dei “sit-in” davanti a Montecitorio?Dobbiamo batterci contro le politiche del Governo Renzi contenute in  “Sblocca Italia” e nella “Legge di Stabilità”, che spingeranno i Comuni a privatizzare  i servizi pubblici .
A livello europeo, dobbiamo fare pressione sui parlamentari a Bruxelles, perché boccino il “Piano Acqua Europa 2027”, noto come “Water Blueprint” e contestino la Commissione Europea che si è rifiutata di prendere in considerazione l’iniziativa dell’ICE (Iniziativa dei cittadini europei ) sull’acqua ,che ha ottenuto oltre un milione e mezzo di firme in sette paesi.
A livello internazionale continuiamo a sostenere come movimento Acqua , il vasto movimento contro il T-TIP (Partenariato Transatlantico per gli Investimenti e il Commercio tra USA e UE ) e il TISA (Trattato sui servizi pubblici  sotto l’egida del WTO), che spingono verso la privatizzazione di tutti i servizi pubblici .
Infine, in un momento così grave, chiediamo alla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) di dichiarare che l’acqua è un diritto fondamentale, invitando tutte le comunità cristiane a impegnarsi a fianco del movimento per l’Acqua pubblica in Italia e a scrivere una lettera come quella del vescovo cileno  Luis Infanti della Mora:”Dacci oggi la nostra Acqua  Quotidiana “. ”La crescente politica di privatizzazione è moralmente inaccettabile –scrive il vescovo Luis Infanti (che con il suo popolo ha impedito che l’ENEL costruisse 5 dighe in Patagonia) - quando cerca di impadronirsi di elementi così vitali come l’acqua, creando una nuova categoria:gli esclusi! Alcune multinazionali che cercano di impadronirsi di alcuni beni della natura, e sopratutto dell’acqua, possono essere legalmente padrone di questi beni e dei relativi diritti, ma non sono eticamente proprietarie di un bene dal quale dipende la vita dell’umanità. E’ un’ingiustizia istituzionalizzata che crea ulteriore fame e povertà, facendo sì che la natura sia la più sacrificata e che la specie più minacciata sia quella umana, i più poveri in particolare.”
                                                                                     
                                                                                                   
Alex Zanotelli
Napoli, 27 ottobre 2014