mercoledì 22 ottobre 2014

Per una alleanza sull’acqua

A tre anni dal referendum, l'obiettivo della ripubblicizzazione pare arenato in un vicolo cieco. Da Emilio Molinari, storico fondatore del Comitato italiano per un contratto mondiale sull'acqua, una riflessione e un invito a ripartire, a partire dalla sottoscrizione di una "Carta dell'acqua" e del superamento di alcuni steccati "ideali", come quello dell'azienda speciale
L’obbiettivo della ripubblicizzazione dei servizi idrici si è arenato in un vicolo cieco.
A tre anni dal referendum solo Napoli ha trasformato il servizio da società per azioni (SPA) in house ad azienda speciale.
I successi del movimento stanno nell’aver fermato la Multiutility del Nord, respinto a Cremona il tentativo di far entrare i privati nella gestione in house, impedito al Comune di Roma di vendere altre quote di ACEA, nello scorporo dell’acqua a Trento e -si spera- a Reggio Emilia, e nell'aver aperto in Toscana la discussione sullo scorporo dell'acqua dalle aziende partecipate da ACEA.

L’ostilità dei governi e l’attacco allo stesso referendum erano scontati.
Ma ciò non spiega il vicolo cieco in cui si è arenato il movimento. Credo sia tempo di rivedere criticamente non il contenuto della ripubblicizzazione in sé, ma la strategia con la quale è stato perseguito, improntata al rigido spartiacque della coerenza al vincolo quasi ideologico dell’eliminazione delle SPA in house. Prescindendo dalla lettura della realtà, dai rapporti di forza, dalla capacità di farsi capire dalla gente, dai limiti stessi presenti nel risultato referendario che, al di la della volontà degli elettori, di certo fermava l’obbligatorietà all’ingresso dei privati.
Non c’è stato un percorso, dove accumulare forze, con tappe e obbiettivi intermedi da cui ripartire con le alleanze possibili.
Anzi, alla rigidità è stata aggiunta una campagna sulla “obbedienza civile” con relativa autoriduzione delle tariffe, che non poteva che arenarsi.
Ma in questa visione, oggettivamente, tutti i Comuni, tutti i sindaci e tutte le aziende in house non potevano che diventare avversari da attaccare. E il movimento si è connotato come parte di un fronte di giuste “resistenze” ( No Tav, No Mose, No Expo, No Dal Molin, No al gassificatore, No alla precarietà, No agli sgomberi delle case, etc) tenuto assieme dall’involucro politico/ideologico “del fronte antagonista dei beni comuni”.
Uno stretto recinto, nel quale le ragioni dell’acqua, la novità della sua cultura inclusiva, si sono perse assieme all’anima universale, il linguaggio popolare, la capacità di dare passione a tanti e costruire ampie adesioni e alleanze.
Da qui l’impantanamento tra estremismi e interpretazioni giuridiche, localismi, attività sindacali sulla tariffa, ricorsi ai tribunali.

Facciamo una pausa di riflessione per ripartire.
Proviamo a pensare a quei Comuni e (perché no) anche a quelle aziende in house, che resistono all’ingresso dei privati o quelle che vorrebbero disfarsi dei privati,  come a nostri interlocutori e possibili alleati.
Perché c’è una relazione profonda tra la volontà di privatizzare i servizi pubblici locali e quella di svuotare d’ogni ruolo e  credibilità i Comuni. Una consapevolezza, dovrebbe perciò rafforza l’altra e l’alleanza non è solo una opportunità, ma una strategia politica da perseguire.
Oggi tutte le istituzioni sono sotto attacco e i Comuni sono la prima linea. Vincoli economici, soppressione/privatizzazione, Sblocca-Italia, ne sono l’espressione.
E in prima linea lo sono nel reggere l’urto della reazione dei cittadini per la decadenza dei servizi, del territorio, etc.
Ma ormai la sottrazione di sovranità alle istituzioni ad ogni livello è la politica del nostro tempo. Dalla troika al trattato USA-UE, si va prefigurando un nuovo ordine mondiale che privatizza la politica e la trasferisce alle sedi finanziarie e ai tribunali arbitrari delle Multinazionali.
Un esempio sono gli organismi extra-istituzionali sull'acqua.
Le multinazionali sono diventate soggetti decisionali e attori ufficiali della “governance”, termine che oggi sostituisce i “Governi politici e rappresentativi.”
Il Consiglio mondiale dell'acqua, partecipato dall'ONU, è presieduto da SUEZ e VEOLIA (a loro volta controllate da Goldman Sachs).
Il CEO Water Mandate, delegato dall'ONU, con più di 100 aziende multinazionali di tutti i comparti produttivi, protese ad assicurare acqua alle loro produzioni.
Da una parte lo svuotamento delle istituzioni e dall’altra la mercificazione di tutta l’acqua, il suo prezzo, il full recovery cost, la Borsa dell’acqua e la compra vendita dei diritti allo sfruttamento.
Negli USA-Canada-Cile-Australia, la compravendita dei diritti allo sfruttamento dell’acqua è già operante e per darne una idea il magnate texano Boone Pickens ha comprato un lago in Alaska e lo rivende all'Arabia Saudita e alla Cina.
In Cile, l'acqua dei fiumi è lottizzata e venduta all'asta e la concessione ha la priorità sui bisogni essenziali degli abitanti del luogo. Il “Water Grabbing” è la realtà di tutta l’Africa.
Nella Detroit della crisi dell'auto, 90mila persone sono private dall'accesso all'acqua perché indigenti.
Nell'ambito di EXPO, è la multinazionale Barilla a lanciare un Protocollo mondiale sull'alimentazione, ed è la politica e l’associazionismo ad aderire, mentre a Nestlé viene delegata la piazza tematica dell’acqua, escludendo l’acqua pubblica di Milano.

Tutto il contesto ci vede correre verso il suicidio idrico.
15 milioni di persone all’anno si devono spostare nel mondo solo per effetto di scelte tecnologiche inerenti all’acqua.
Alla domanda di acqua del 2030, verrà a mancare il 40% della risorsa.
Il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città e la metà degli abitanti dei grandi centri urbani vivrà in baraccopoli, con problemi d'acqua potabile, servizi igienici, smaltimento dei rifiuti e reti energetiche.
Una realtà che scarica su Comuni e aree metropolitane i drammatici problemi di questo secolo, al contempo privandoli di ruolo, di poteri e di risorse.
La corruzione e l’impotenza screditano la politica e le istituzioni, dall’ONU in giù, fino ai Comuni, e cresce nei movimenti l’idea di combatterle, di metterle tutte tra i “nemici”. Ma il nostro compito è altro. È quello di riconquistarle, in quanto istituzioni, alla politica, al bene pubblico, alla fiscalità generale per le opere e i servizi di interesse generale. Difendendone il ruolo con la stessa volontà con la quale difendiamo la Costituzione.
Ripartire dall’acqua con i Comuni che vogliono ritrovare l’orgoglio del loro ruolo, la volontà di “disobbedire” e non solo sui diritti civili.
Per mettere in sicurezza l’acqua potabile e i servizi pubblici come la raccolta dei rifiuti.
 

Per affermare il diritto all’acqua potabile e ai servizi sanitari.
Per costruire una rete di Città dell’acqua (water policy), ma anche di imprese pubbliche e in house, che si muovano con in testa la visione di quale città progettare. Non con l’anarchia dei costruttori, ma con i cittadini, il territorio agricolo e l’acqua circostante. Con i contadini veri con i loro prodotti (food policy). Una rete che in Italia e in Europa sia in grado di fare politica (non vincere sul mercato delle utilities). Soggetti, capaci di conquistare ai governi leggi e direttive.
Per rimuovere assieme gli ostacoli alla riappropriazione delle quote delle grandi società per azioni -A2A, ACEA, IREN, HERA- in mano ai privati.
Per promuovere incontri tra sindaci di tutto il mondo, affinché l’ONU concretizzi quella che è stata una grande vittoria del movimento: la risoluzione del 2010 con la quale l’acqua potabile e i servizi igienici, sono diventati un diritto umano imprescrittibile.
Per costituzionalizzare il diritto all’acqua.
Per Protocolli, Trattati e organismi internazionali garanti del diritto all’acqua e non del suo commercio, che fissino regole, principi, quantità e ne sanzionino le violazioni.
Per impedire la formazione di grandi multi-utility nazionali e quotate in Borsa.
Per dotarsi di una Carta dell’acqua, nella quale gli aderenti si impegnano a:
- promuovere l’acqua pubblica del proprio acquedotto;
- promuovere nelle scuole la cultura dell’acqua;
- fuoriuscire dalla logica della tariffa, garantendo il diritto ai 50 litri al giorno per ogni persona e il risparmio con una tariffa progressiva;
- non togliere l’acqua a nessun cittadino o immigrato, Rom o baraccato;
- dare vita a un fondo con le imprese, per progetti nel Sud del mondo attraverso partenariati pubblico/pubblico.

Il movimento dell’acqua ha indicato a tutti un qualcosa di straordinariamente nuovo.
Qualcosa da cui partire non solo per realizzare gli obiettivi in sé, ma per riprendere a ragionare sul nostro tempo, sulla necessità di una nuova visione della politica e dei movimenti con al centro i diritti universali.
L’abbozzo per trovare la strada perduta da una politica agonizzante e per chiamarla a salvarsi e a salvare la democrazia.


sabato 11 ottobre 2014

Naomi Klein: Salvare il pianeta o salvare il neoliberismo




Da poco uscito in Canada e negli Stati Uniti, This Changes Everything, ultima fatica della giornalista canadese, pone in termini radicali il problema del rapporto fra emergenza climatica e capitalismo neoliberista, aprendo anche la discussione sulle strade possibili per arrivare al superamento tanto della prima quanto del secondo.

intervista a Naomi Klein di Micah Uetricht, da In These Times

Che le lancette dell'orologio del cambiamento climatico siano in movimento – e sempre più speditamente col passare dei giorni – non è certo una novità. Al pari di molti altri la giornalista Naomi Klein ha passato diversi anni sentendosi sopraffatta dalle dichiarazioni sempre più apocalittiche degli scienziati sull'incombere di un destino tragico per il nostro pianeta, decidendo per lo più di ignorarle. Del resto, per molto tempo Klein è stata totalmente impegnata a rivelare i tanti abusi commessi da multinazionali come Microsoft e Nike nel suo primo libro, No Logo (1999), e l'imposizione, a diversi popoli recalcitranti in giro per il mondo, di politiche economiche liberiste e diseguaglianze sociali crescenti nel volume uscito nel 2007, Shock Economy.

Col passare degli anni, tuttavia, Klein ha cominciato a rendersi conto non solo del fatto che i mutamenti climatici sono così onnicomprensivi e urgenti da non poter essere ignorati ma anche di come essi rappresentino un'opportunità unica. Il cambiamento climatico "potrebbe essere la migliore risorsa argomentativa che i progressisti abbiano mai avuto a disposizione", sostiene la giornalista, per dar vita a quei movimenti dal basso a carattere di massa in grado non solo di imporre adeguate misure per la protezione dell'ambiente ma anche di ingaggiare una battaglia contro le diseguaglianze economiche, creare società più democratiche, ricostruire un forte settore pubblico, venire alle prese con ingiustizie di genere e razziali che datano da lunghissimo tempo e con un'infinità di altre questioni.

Fare tutto ciò, ad ogni modo, richiederà ben altri sforzi rispetto a quello di cambiare qualche lampadina. "Ciò che era necessario fare per diminuire le emissioni non è stato sinora fatto" scrive Klein, "perché fondamentalmente entra in conflitto con il capitalismo della deregolamentazione". Nel suo nuovo libro, This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate (pubblicato di recente da Simon & Schuster ma ancora non disponibile in italiano, n.d.t.), l'autrice analizza il fallimento delle grandi organizzazioni ambientaliste (un universo da lei ribattezzato "Big Green") e di quegli amministratori delegati che si ritiene siano animati da intenti filantropici, la posizione dei negazionisti di destra che mostrano in realtà di comprendere la posta in gioco del cambiamento climatico molto meglio di tanti progressisti e la realtà dei movimenti di base che si uniscono per combattere il riscaldamento globale.

Il suo libro prende le mosse da un esame critico delle tesi della destra e di quanti negano la realtà dei mutamenti climatici. Ciò è comprensibile, sia perché la destra ha intrapreso una campagna molto efficace finalizzata a sostenere che il riscaldamento globale non è reale, in modo da sbarrare la strada a nuove leggi potenzialmente utili, sia perché, come lei stessa sostiene, i negazionisti di destra comprendono in realtà molto meglio della maggior parte dei progressisti ciò che è in gioco nel tentativo di dare una soluzione al problema del cambiamento climatico: la rimessa in discussione, da cima a fondo, del capitalismo di libero mercato per come lo abbiamo conosciuto. Per quale motivo la destra capisce il cambiamento climatico meglio della sinistra?

Innanzitutto è importante avere ben chiaro che il movimento negazionista è non di rado interamente il prodotto del pensiero liberale e liberista. Think tank di destra come Cato, l'American Enterprise Institute e l'Heartland Institute hanno un ruolo predominante nell'organizzazione di raduni annuali come l'Heartland Conference o nelle pubblicazioni del movimento.

Heartland, ad esempio, è attualmente conosciuta soprattutto come un'istituzione di negazionisti del riscaldamento globale e molte persone credo ne abbiano sentito parlare solo in riferimento alla conferenza sul cambiamento climatico che organizza annualmente. Tuttavia, Heartland è in realtà prima di tutto un think tank che sponsorizza l'ideologia del libero mercato. Esiste da molto tempo, ed esiste per promuovere il programma neoliberista duro e puro fatto di deregulation, politiche di austerità e politiche antisindacali. Un pacchetto di misure politiche che conosciamo bene.

Quando, alla conferenza di un paio di anni fa, ho intervistato Joe Bast, il capo di Heartland, l'ho trovato piuttosto schietto in proposito. Mi disse di aver cominciato ad interessarsi al cambiamento climatico non perché avesse riscontrato dei problemi dal punto di vista scientifico ma perché aveva capito che se i dati scientifici erano veri e non sottoposti a confutazione ciò avrebbe significato che, dal punto di vista della regolamentazione statale, "tutto fa brodo". L'intervento dello Stato in economia si sarebbe così dimostrato necessario. Si sarebbero dimostrati necessari investimenti nel settore pubblico. In buona sostanza, tutto il loro programma ideologico sarebbe stato condannato a rimanere al palo.

È per questo, mi ha spiegato, che lui e i suoi colleghi hanno scelto di difendere le posizioni acquisite, riuscendo alla fine a rinvenire quelle che ritengono essere delle imprecisioni scientifiche. Se lei dà un'occhiata a chi sono realmente i negazionisti, risulta chiaro che ciò che li muove è il desiderio di mettere al sicuro l'agenda neoliberista.

Costoro hanno assolutamente ragione quando affermano che una crisi di queste proporzioni implica una risposta collettiva, investimenti nel settore pubblico e una forte regolamentazione. Ciò non equivale a dire che implichi il socialismo. All'interno del campo della regolamentazione statale si dà un'ampia gamma di risposte possibili, alcune delle quali sono a mio avviso ben poco auspicabili, mentre altre decisamente di più. Ma l'idea che possa esserci una risposta ai mutamenti climatici interna a un'ottica di laissez faire è piuttosto assurda.

La ragione per cui tutto ciò ha una sua importanza risiede nel fatto che quest'ultima idea coincide con quella che i principali gruppi ambientalisti ci hanno propinato: è possibile affidare al mercato la risoluzione del problema. In realtà, i precedenti ci dicono che l'essersi affidati al mercato ha comportato un aumento delle emissioni pari al 61 per cento a partire dal momento in cui avremmo presumibilmente cominciato ad affrontare il problema del cambiamento climatico.

Leggendo il capitolo del libro intitolato "Big Green", dedicato alle principali organizzazioni ambientaliste che lei sottopone ad una stroncatura piuttosto minuziosa, sono rimasto colpito da quanto le risposte di destra e quelle di sinistra al problema del cambiamento climatico rispecchino i mutamenti politici che hanno caratterizzato in generale destra e sinistra nell'epoca dell'egemonia neoliberista. Da un lato abbiamo infatti una destra che ha in realtà ben chiara la posta in gioco e ha pertanto assunto la linea dura al fine di impedire qualsiasi tipo di soluzione anche solo moderatamente progressista; dall'altro, ci sono dei progressisti sempre più in balia di una deriva destrorsa e per lo più arrendevoli di fronte all'agenda della destra. Può parlarci un po' di Big Green?

L'universo del Big Green è fatto di semplici progressisti, si tratta di un movimento molto liberal. La sinistra in quanto tale ha infatti pressoché rinunciato a confrontarsi con il tema del cambiamento climatico. Salvo rare eccezioni, a sinistra la questione climatica non ha mai preso vero slancio come problematica a sé stante e si è sempre configurata piuttosto come un'appendice di qualcos'altro. È significativo il fatto che, quando il movimento di Occupy si è costituito, il primo manifesto programmatico che elencava tutti i mali del capitalismo non facesse parola del cambiamento climatico. Si tratta a mio avviso di una svista rivelatrice.

Penso che il cambiamento climatico sia il miglior argomento che abbiamo mai avuto a disposizione contro la tendenza alla destabilizzazione della vita sul nostro pianeta insita nel capitalismo. Eppure, la sinistra si è come chiamata fuori. Parte di tutto ciò è anche l'idea che il movimento contro il cambiamento climatico abbia a che fare con Al Gore – per l'amor di Dio! – con le star di Hollywood e con un generico progressismo. Noi gente di sinistra non volevamo avere nulla a che spartire con costoro, per cui abbiamo di buon grado abbandonato il cambiamento climatico nelle mani dei Big Green.

Credo abbia giocato un ruolo anche una sorta di stanchezza che pesa sulle spalle degli attivisti di sinistra, dal momento che ci si chiede di occuparci di così tante questioni e questa qui, nello specifico, dava l'impressione di essere seguita da altri. In questo senso, non è che le persone di sinistra abbiano mai pensato che il cambiamento climatico non fosse in atto, semplicemente lo hanno trattato dicendo: "Ok, questa me la risparmio, perché ho una sacco di altre cose da fare e in fin dei conti non mi sembra una questione così urgente".

Penso infine che sia difficile tenere adeguatamente in considerazione le conseguenze della paura di fare errori che caratterizza molte persone. Le politiche climatiche sono il regno dell'incertezza. I Big Green sono riusciti a trasformare una problematica che è in realtà piuttosto semplice in qualcosa di sorpredentemente inaccessibile e misterioso.

Ci si confronta qui con due universi che sono entrambi problematici. Uno è quello della scienza e l'altro quello della politica. Ambedue sono in apparenza molto complicati. Si tratta di un ambiente che può risultare tutt'altro che accogliente, se uno non ne fa parte. Un ambiente fatto di persone che si sventolano vicendevolmente in faccia grafici e tabelle. E va detto che i negazionsiti, col loro gridare costantemente "Ecco, vi abbiamo beccato!", hanno in qualche modo esercitato un condizionamento. Molti si sono sentiti obbligati ad essere estremamente circospetti, a non dare nulla per scontato; si sono sentiti impossibilitati a stabilire un collegamento fra le condizioni metereologiche estreme e la questione climatica, perché le due cose non sono sovrapponibili. Per un bel po' di tempo si è fatta una certa fatica a parlar chiaro.

Quando il linguaggio si fa così circospetto, complesso e specializzato, il messaggio che arriva alle persone comuni è che hanno a che fare con un club esclusivo, di cui non sono parte. Penso che tutto ciò valga anche per le persone di sinistra.

Lei sottolinea che il sistema capitalista è responsabile della difficile situazione in cui ci troviamo dal punto di vista climatico, poi però fa anche riferimento, per lo più en passant, alla necessità di un cambiamento di stile di vita da parte di tutti coloro che abitano in paesi come gli Stati Uniti e il Canada. A un certo punto menziona l'abbandono di alcuni dei valori dell'Illuminismo che ritiene connessi con l'estrattivismo. Devo dire che mi innervosisco parecchio, talvolta, quando sento gente di sinistra che parla di voltare le spalle ad alcune parti dell'Illuminismo e della modernità.

Penso che vada chiarito in maniera molto netta che affrontare la questione del cambiamento climatico non significa essere contrari alla tecnologia. Il punto è il bisogno che abbiamo di trasformare la tecnologia in un potere diffuso e non centralizzato. La tecnologia può svolgere un ruolo centrale praticamente in ogni tipo di trasformazione, ma questo non significa che tutte le tecnologie vadano bene ed abbiano effetti positivi.

Dobbiamo fare molta attenzione al culto feticistico e totalmente reazionario di un qualche idilliaco passato. Allo stesso tempo, però, l'aver frequentato un po' i geoingegneri mi ha veramente messo addosso una paura boia. È evidente che più proseguiamo lungo questa strada, più l'idea baconiana di progresso finisce per coincidere con l'imbrigliamento e il controllo della natura, più prenderanno piede questo tipo di tecnologie che comportano rischi sempre più estesi e sempre maggiori.

Ritengo che dobbiamo effettivamente aprire un dibattito che abbia al centro la questione fondamentale del nostro ruolo su questo pianeta, se esso debba cioè consistere o meno nel dominare la natura e se noi esseri umani dobbiamo considerarci in guerra con quest'ultima. Non sono contro la scienza, ma andremo verso una moltiplicazione dei rischi veramente preoccupante se non cominciamo a domandarci, in maniera decisamente scomoda, fino a che punto si estende la nostra intelligenza. Non dobbiamo sguazzare nell'ignoranza, ma la sopravvalutazione della nostra intelligenza può essere foriera di enormi pericoli.

Verso la fine del libro lei parla della sua crescente insofferenza nei confronti di quei movimenti privi di strutture stabili che ha invece difeso in passato, primo fra tutti il movimento no global che animò diversi momenti di protesta all'inizio del nuovo millennio. Ciò è dovuto all'urgenza della questione climatica o ci sono altre motivazioni?

Non penso di essere la sola a provare quest'insofferenza. Ritengo che si sia trattato di un'evoluzione e che la mia generazione – la generazione degli attivisti no global, la generazione di Seattle – si sia lasciata trasportare un po' troppo nella sua avversione per le strutture. Tutto ciò che puzzava di politica e di istituzioni era visto in maniera sospettosa. Nella generazione di Occupy e nei movimenti europei anti-austerità osservo invece il desiderio di trovare una via che sappia raggiungere un equilibrio fra la convinzione della necessità del decentramento e la legittima diffidenza nei confronti del potere statale centralizzato da un lato e un serio impegno politico e di prassi politica dall'altro.

È per questo che dedico una parte abbastanza significativa del libro ai successi, per quanto imperfetti, della transizione energetica tedesca. Questa è un'importante vittoria dei movimenti sociali: Angela Merkel non ha fatto quello che ha fatto a causa del suo buon cuore, ma perché la Germania ha il più forte movimento antinuclearista del mondo e, più in generale, un movimento ambientalista molto agguerrito.

La rapidità della transizione tedesca lascia sbalorditi. Stiamo parlando di un paese che, nell'arco di dieci anni e mezzo, è arrivato a produrre il 25 per cento della propria energia da fonti rinnovabili, in buona parte ricorrendo a cooperative decentrate e controllate dalle comunità locali. Tuttavia, la cosa non si è svolta all'insegna del "Ehi, facciamolo, io e i miei amici vogliamo metter su una cooperativa energetica"... Si è trattato piuttosto di una politica nazionale generalizzata che ha creato un contesto nel quale si sono potute moltiplicare una serie di alternative che, sommate fra di loro, hanno dato vita al più significativo processo di transizione energetica del mondo, almeno per come la vedo io.

Conosco personalmente alcuni attivisti del movimento ambientalista tedesco. Anche loro affondano le proprie radici politiche nel movimento no global, e un tempo erano molto più propensi a respingere in maniera sdegnata l'idea di impegnarsi in politica. Oggi, tuttavia, le persone si sporcano le mani. Lo si vede a Seattle, con la lotta per il salario minimo. Lo si vede a Chicago con il movimento degli insegnanti. Lo si vede in Islanda, con il movimento anti-austerità che dà vita ad una sua propria creatura politica. Lo si vede in Spagna con Podemos. Sempre più spesso nascono nuove organizzazioni tramite le quali le persone cercano di trasformare l'essenza stessa della politica.

Non è solo la scienza del clima a rendermi insofferente. Quando difendevo l'assenza di strutture del movimento no global lo facevo soprattutto per cercare di respingere i tentativi di cooptarlo posti in essere da altre realtà, che comparivano improvvisamente dicendo: "Ecco qui, ho per voi un programma in dieci punti". Io rispondevo: "Dateci tempo, saremo noi stessi a produrre un programma, prima o poi". Però non lo abbiamo fatto.

Non ho mai sostenuto che non dovessimo avere un programma, ero solo alla ricerca di un catalizzatore e di un quadro adatto nel quale inserirlo. Credo che il cambiamento climatico, col suo fondare la necessità della trasformazione su basi scientifiche, il suo darci un termine temporale e la sua capacità di fare da collettore di tanti movimenti diversi, possa oggi essere sia quel quadro che quel catalizzatore.

Vorrei farle una domanda sul sindacato. In alcuni punti del libro lei fa infatti riferimento ai sindacati, ad esempio a proposito della Blue-Green Alliance.[1] D'altro lato, però, è abbastanza evidente che tanto i sindacati Usa quanto quelli canadesi sono ben lontani dall'avere realmente compreso la portata della questione climatica. In che modo, secondo lei, la nuova generazione di ambientalisti – "Blockadia", come la chiama nel suo libro – dovrebbe guardare al sindacato e relazionarsi ad esso?

Penso si sia ormai molto diffusa all'interno del movimento contro l'oleodotto Keystone [2] un'autocritica (che anch'io faccio mia) secondo la quale sarebbe stato meglio coinvolgere sin dall'inizio anche una componente sindacale. Quando erano ormai due anni che lottavamo contro quel progetto è saltato fuori un rapporto molto accurato che spiegava come gli investimenti dirottati verso di esso sarebbero potuti servire a creare una quantità nettamente superiore di posti di lavoro ecologicamente puliti, come farlo e come coinvolgere a questo scopo tutta una serie di realtà sindacali.

Non penso che i giovani ambientalisti di oggi ce l'abbiano con i sindacati. Vedo al contrario una spinta molto forte a lavorare insieme e a proporre modelli che contengano soluzioni corrette. Molte tensioni si concentrano sicuramente attorno ai progetti di nuovi oleodotti. Credo che a New York (alla People's Climate March, tenutasi lo scorso 21 settembre, n.d.t.) vedremo una forte presenza sindacale, ed è questo uno degli aspetti più inediti e interessanti di questo appuntamento unitario.

Le opportunità mancate, da entrambe le parti, ormai non si contano più. È evidente che ci sono settori del movimento operaio statunitense che continuano a sprecare grandi energie nella difesa di un numero molto esiguo di posti di lavoro pessimi, soprattuto se li si confronta con l'opportunità che abbiamo di creare un numero veramente elevato di posti di lavoro di qualità. Tuttavia, penso che dovremmo andare un po' oltre il semplice parlare di posti di lavoro: la questione vera è l'attività lavorativa in quanto tale.

Il libro si confronta da vicino col fatto per cui le risposte keynesiane, prese singolarmente, non ci portano al raggiungimento dell'obiettivo. È necessario cominciare a discutere della necessità di ridurre alcune parti della nostra economia per espanderne invece altre. Ciò significa ad esempio ampliare la fetta destinata al lavoro di cura. Significa riconoscere il lavoro che non è considerato tale, come è appunto nel caso della cura dei figli o degli anziani. Significa cominciare a parlare di reddito minimo garantito. Dobbiamo andare oltre la semplice discussione sui posti di lavoro.

Da un certo punto di vista, per il sindacato tradizionale si tratta di una sfida ancora più impegnativa, non appena smettiamo di parlare solo di posti di lavoro e cominciamo invece a discutere di come valorizzare l'attività lavorativa in generale. Sono convinta che una battaglia per il reddito minimo garantito, un dibattito reale e vivo su questa questione, potrebbero portare alla costituzione di un blocco elettorale di un certo peso. E ciò potrebbe avere degli effetti positivi sul sindacato.

Nel libro viene sottolineata tutta una serie di possibili connessioni fra le questioni di genere, la lotta delle lavoratrici domestiche, il reddito minimo universale, la questione dei risarcimenti, tutti temi che cominciano ad imporsi sempre di più ma che sono completamente isolati l'uno dall'altro.

Una cosa che trovo emozionante è che il mio libro può servire ad incoraggiare altri a dire: "Ehi, anche questa questione ha a che fare con il clima. Devo scriverne in qualche modo, Klein l'ha menzionata solo di sfuggita". E devo dire che sto già avendo un ritorno di questo tipo, ad esempio di gente che mi scrive: "Dovresti dire qualcosa in più sull'esercito e sulle guerre, sul finanziamento della ricerca di base e sull'istruzione pubblica...". E, veramente si tratta di una lista infinita.

Mi auguro che siano tante le persone di sinistra che, leggendo il libro, si sentano stimolate a scrivere a loro volta. Che si tratti di critiche, di cose tipo "hai dimenticato questo", "ecco un'altra cosa" o in qualunque altro modo ciò si esprima. Abbiamo assolutamente bisogno di un dibattito di questo tipo.

Molte delle notizie riguardanti i disastri climatici che si profilano all'orizzonte rischiano di portare ad una paralisi dei sensi e al nichilismo. Lei scrive in modo molto commovente di come è riuscita a lasciarsi alle spalle un po' di questo senso di paralisi, circostanza che l'ha portata a decidere di avere un figlio. Tuttavia, oltre a preoccuparci del fatto che le persone vengano alle prese con la devastazione cui porteranno i cambiamenti climatici, non dovremmo anche essere in apprensione per il fatto che esse dovranno confrontarsi con l'enorme portata delle contromisure da intraprendere – ad esempio, privare le grandi multinazionali dei combustibili fossili di profitti miliardari – e che potrebbero alzare le mani in segno di resa di fronte a compiti così gravosi?

Non penso sia nulla di più spaventoso di quanto si è cercato di fare con Occupy Wall Street. Nulla di più preoccupante dello sfidare le banche. C'è una forza, che ci spinge a combattere collettivamente questa crisi esistenziale, che è allo stesso tempo fonte di timore e una potenziale spinta ad agire. Non sto dicendo che tutto ciò non faccia paura. Tuttavia, i movimenti progressisti assumono sempre su di sé grandi sfide. Tutti siamo consapevoli, credo, del fatto che dobbiamo venire alle prese con ricchezze consolidate, con diseguaglianze mostruose presenti nei nostri rispettivi paesi e con il controllo che le grandi aziende esercitano sulla politica. Il punto non è se dobbiamo farlo o meno: sappiamo tutti che dobbiamo farlo. Sappiamo tutti che non possiamo sottrarci a questa battaglia.

(traduzione di Marco Zerbino)

NOTE

[1] Realtà associativa Usa che riunisce in un unico organismo alcuni fra i più grandi sindacati di categoria statunitensi (ad esempio il sindacato dei metalmeccanici, quello dei lavoratori dell'industria automobilistica e quello del settore sanitario) e diverse importanti associazioni ambientaliste. Scopo dell'associazione è quello di costruire "un'economia americana più pulita, più giusta e più competitiva" (n.d.t.).

[2] Il progetto Keystone XL riguarda la costruzione di un megaoleodotto che dovrebbe servire a trasportare il petrolio delle sabbie bituminose canadesi fino alle coste texane del golfo del Messico. (n.d.t.).

(MicroMega, 10 ottobre 2014)

giovedì 9 ottobre 2014

Acqua è anche un problema di sovranità

Care/i,
segnalo un'interessante notizia.
Mons. Luis Infanti Della Mora, vescovo della regione dell'Aysen nella Patagonia cilena, ha ricevuto il “Premio Unesco per il Programma Idrologico Internazionale 2014” per il suo contributo alla protezione delle acque soprattutto quelle su cui insisteva il progetto di Enel di costruzione delle dighe sul fiume Pascua e Baker
(Paolo Corsetti)

Per l'occasione, nel complimentarsi per il tangibile riconoscimento dovuto agli sforzi pastorali e civili del vescovo, la redazione di [NSDT] ripropone la registrazione audio originale dell'incontro tenutosi a Pinerolo nel maggio del 2011, durante la campagna referendaria sui Beni Comuni.

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- Premiato il Vicario apostolico di Aysen: “l’acqua è anche un problema di sovranità”

Aysen (Agenzia Fides) – Il Vicario apostolico di Aysén, Sua Ecc. Mons. Luis Infanti Della Mora, ha ricevuto un importante riconoscimento per il suo contributo alla protezione delle acque da parte del Comitato Cileno per il Programma Idrologico Internazionale dell'UNESCO (CONAPHI Cile).
Secondo la nota inviata all’Agenzia Fides da una fonte locale, la motivazione del “Premio Unesco per il Programma Idrologico Internazionale 2014”, che è stato consegnato al Vescovo il 2 ottobre da Isabel Allende, rappresentante del Senato, nella sede del Congresso, trae origine dalla Lettera pastorale pubblicata da Mons. Infanti nel 2008 con il titolo “Dacci oggi la nostra acqua quotidiana”. Il Presule affermava: “siamo in un momento storico in cui ci viene data l'opportunità di un profondo cambiamento culturale, per far rivivere la vita del nostro pianeta”, ed invitava a riflettere sul valore dell'acqua come elemento vitale per l'umanità. Ieri, parlando a Radio Universidad de Chile, Mons. Infanti ha ricordato che ormai “è già passato un bel po’ di tempo da quell'epoca” e purtroppo non ci sono stati grandi cambiamenti, tranne l’annuncio di modificare il Codice dell'acqua e riconoscere l'acqua come un diritto fondamentale dell'uomo.
“Questo è stato un barlume di speranza, ma la luce è ancora molto nascosta” ha detto il Vescovo parlando alla radio, ed ha aggiunto: "Non vorrei che questo ritardo, già abbastanza significativo, sia il risultato di pressioni, di lobby, di coloro che hanno il potere dell'acqua e sono i proprietari dell'acqua in Cile, perché chi ha il potere dell'acqua, ha più potere di quelli che detengono il business del petrolio". Per Mons. Infanti la proprietà dell'acqua è anche una questione di sovranità, come ha ripetuto diverse volte, citando il caso di Aysén, dove il 96 per cento delle acque della zona è di proprietà della società italiana Enel.  (Agenzia Fides, 03/10/2014)


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domenica 5 ottobre 2014

Un'altra difesa è possibile (ma ci vuole una firma)

Il movimento italiano per la pace ha lanciato una nuova Campagna, iniziata il 2 ottobre, anniversario della nascita di Gandhi e giornata internazionale Onu per la nonviolenza.
'Un'altra difesa è possibile' è questo il titolo dell'iniziativa promossa da Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile, Forum Nazionale per il Servizio Civile, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci!, Tavolo Interventi Civili di Pace. Oltre trenta iniziative pubbliche, coordinate dal Movimento Nonviolento, hanno celebrato il 2 ottobre e disegnato una Mappa dell'Italia nonviolenta da Palermo a Bolzano.
Ma qual è l'obiettivo di questa Campagna? Perché i pacifisti, in un momento di semplificazione istituzionale, di tagli alla spesa, di riduzione dei costi della politica, propongono addirittura un nuovo Dipartimento statale? Perché un tema così apparentemente lontano dai bisogni reali dei cittadini? Le risposte sono più semplici e chiare di quanto possano apparire.
I nonviolenti vogliono l'istituzione ed il finanziamento di un Dipartimento per la difesa civile, non armata e nonviolenta. Lo strumento è una Legge di iniziativa popolare (il cui titolo è già stato registrato alla Corte di Cassazione e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale). La raccolta delle 50.000 firme necessarie per depositare la proposta alla Camera dei Deputati si concluderà tra 6 mesi. La prossima data di mobilitazione nazionale sarà il 4 novembre, anniversario dell'inutile strage della prima guerra mondiale, e la consegna firme alla Presidente della Camera, on.Boldrini, è prevista il 25 aprile 2015. Poi ci sarà la pressione per far discutere la Legge prima nelle competenti Commissioni e poi in Aula. I deputati dell'intergruppo parlamentare per la pace hanno già offerto il proprio sostengo.
Obiettivo della Campagna è quello di dare uno strumento in mano ai cittadini per far organizzare dallo Stato la difesa civile, non armata e nonviolenta - ossia la difesa della Costituzione e dei diritti civili e sociali che in essa sono affermati; la preparazione di mezzi e strumenti non armati di intervento nelle controversie internazionali; la difesa dell'integrità della vita, dei beni e dell'ambiente dai danni che derivano dalle calamità naturali, dal consumo di territorio e dalla cattiva gestione dei beni comuni - anziché finanziare cacciabombardieri, sommergibili, portaerei e missioni di guerra, che lasciano il Paese indifeso dalle vere minacce che lo colpiscono e lo rendono invece minaccioso agli occhi del mondo. Lo strumento politico della legge di iniziativa popolare vuole aprire un confronto pubblico per ridefinire i concetti di difesa, sicurezza, minaccia, dando centralità alla Costituzione che "ripudia la guerra" (art. 11), afferma la difesa dei diritti di cittadinanza ed affida ad ogni cittadino il "sacro dovere della difesa della patria" (art. 52).
È un principio che non è mai stato attuato davvero, perché per difesa si è sempre e solo intesa quella armata, affidata ai militari. Invece per i nonviolenti la difesa della patria è difesa della vita, dell'ambiente, del territorio, dei diritti, della dignità, della pace, del lavoro. Per difendere davvero questi beni comuni servono strumenti adeguati. La Difesa civile non armata e nonviolenta è la difesa della patria condotta con metodi non militari, alternativa alla difesa armata.
Nel concreto, la proposta di legge che i cittadini potranno sottoscrivere dice che il Dipartimento per la difesa civile comprenderà i Corpi civili di pace e l'Istituto di ricerche sulla Pace e il Disarmo e avrà forme di interazione e collaborazione con il Dipartimento della Protezione civile, il Dipartimento dei Vigili del Fuoco ed il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale. Si tratta di dare finalmente concretezza a ciò che prefiguravano i Costituenti con il ripudio della guerra, cioè la realizzazione di una difesa civile alternativa alla difesa militare. Il finanziamento della nuova difesa civile dovrà infatti avvenire grazie alla possibilità per i contribuenti di destinare la quota del sei per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche all'incremento della copertura delle spese di funzionamento del Dipartimento per la Difesa civile non armata e nonviolenta ed al finanziamento delle attività dei Corpi Civili di Pace e dell'Istituto di ricerca sulla Pace e il Disarmo. Non si tratta di spendere di più, ma di spendere meglio.
La Campagna vuole aprire nel paese una dibattito sul concetto stesso di 'difesa': un'idea che abbiamo lasciato per troppi anni in esclusiva ai militari, e di cui oggi ci dobbiamo riappropriare. Per difendere i nostri diritti, il nostro ambiente, il nostro lavoro, sono più utili i famigerati F35, o piuttosto un 'esercito di pace' che ci costerebbe anche molto meno? Sotto questa luce, la Campagna 'Un'altra difesa è possibile' è quanto mai concreta e vicina ai bisogni di chi sta soffrendo la crisi.

Mao Valpiana
Presidente nazionale del Movimento Nonviolento

sabato 4 ottobre 2014

La sfida del clima. Da New York a Lima aspettando Parigi 2015

L'emergenza climatica non può più attendere. Eppure anche al Climate Summit di New York, passerella per governi e imprese, non si è andati oltre gli enunciati. E si guarda già alla Cop 2015 di Parigi, saltando Lima che invece è alle porte. Il punto della situazione, tra allarmi della comunità scientifica e false soluzioni.
La settimana scorsa ha visto catalizzata attorno a New York l'attenzione del mondo politico, dei media e delle organizzazioni sociali di tutto il pianeta. Oltre 120 leader di altrettanti paesi sono accorsi nella città statunitense per partecipare alla 69esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in programma dal 22 al 28 settembre. Al suo interno, per fortissimo volere del segretario generale Ban Ki Moon, si è celebrata, il 23 settembre, una edizione straordinaria del Climate Summit incaricato di gettare le basi, al di là delle usuali, vaghe dichiarazioni di principio, per l'accordo globale sul clima destinato a sostituire l'ormai sepolto protocollo di Kyoto.
Nonostante la preoccupazione generale emersa dai report della scienza e dalle parole degli intervenuti, e nonostante il prossimo appuntamento Onu sul clima sia, a breve, la 20esima Conferenza delle Parti che si terrà a Lima a fine 2014, la sigla dell'accordo - e le aspettative generali - sono rimandate di un altro anno e riversate sull'appuntamento successivo: la 21esima Cop che si terrà a Parigi nel dicembre 2015.
Dalla disamina seguente, che incrocia i dossier della comunità scientifica sui rischi dei cambiamenti climatici e i proclami e documenti elaborati da governi e organismi internazionali chiamati a rispondere all'allarme, è evidente l'inadeguatezza delle strategie sin qui messe in campo e la sostanziale inutilità delle buone intenzioni espresse a New York in assenza di una chiara ed immediata assunzione di responsabilità che si traduca in tempestive e concrete misure di riduzione delle emissioni.

Gli allarmi della scienza
L'ultimo documento dell'IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, diffuso nell'agosto scorso, confermava le grosse preoccupazione espresse dal Panel nei report precedenti, e stimolava ancora una volta i governi a prendere in tempi certi misure concrete. "Il cambiamento climatico è in atto. Le emissioni di gas serra causeranno un ulteriore riscaldamento, che comporterà cambiamenti a lungo termine in tutto il sistema-clima, accrescendo la probabilità di impatti severi e irreversibili per le persone e l'intero ecosistema. Continuare a far aumentare la temperatura globale avrà quasi certamente effetti catastrofici, tra cui l'estinzione di massa di specie vegetali e animali, insufficiente disponibilità di cibo, inondazione di ampie zone costiere e molti altri catastrofici problemi". (Fonte: Report IPCC Agosto 2014)
Dello stesso tenore il Bollettino annuale della WMO, l'Organizzazione Metereologica Mondiale dell'Onu, diffuso all'inizio di settembre, che certifica un ulteriore record negativo: nel 2013 le emissioni di gas serra hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi 30 anni. Nel rapporto 2014 sulle emissioni clima alteranti, la WMO lancia un allarme sullo stato dell'atmosfera e degli oceani, pesantemente compromessi dall'aumento delle emissioni. (Fonte: Bollettino Wmo 2014)
La concentrazione di Co2 in atmosfera è stata nel 2013 più alta del 142% rispetto al 1750, prima della rivoluzione industriale: le parti per milione (ppm) di anidride carbonica sono arrivate a 396. Dal 2012 al 2013 la CO2 è aumentata di ben 2,9 ppm, l'aumento annuale maggiore registrato nel periodo 1984-2013. Se si confermasse questo trend nel 2015-2016 la concentrazione globale supererà la soglia dei 400 ppm. Anche il metano atmosferico nel 2013 ha fatto registrare un nuovo record con concentrazioni di 1824 parti per miliardo (ppb), mentre il protossido di azoto ha raggiuntole 325,9 ppb, a causa soprattutto del massiccio uso di fertilizzanti e dell'implementazione selvaggia delle biomasse. Nel presentare il rapporto, Michel Jarraud, segretario generale della Wmo ha puntato il dito contro i combustibili fossili, tuonando: "Dobbiamo invertire subito questa tendenza, stiamo esaurendo il tempo disponibile."

I grandi assenti - Oltre 120 governi rappresentati al Summit è un numero importante che non si vedeva dai tempi di Copenaghen; alcune defezioni sono tuttavia di enorme rilievo. Grandi assenti della kermesse, i rappresentanti dei governi di Cina e India. Né il presidente Cinese Xi Jinping né il primo ministro indiano Narendra Modi hanno partecipato al Summit. Assenze problematiche considerato il contributo di questi paesi alle emissioni globali: la Cina, ad esempio, ha recentemente superato il livello di emissioni pro capite dell'UE, con una quota di 7,2 tonnellate ad abitante. In termini di emissioni assolute, il paese asiatico emette invece in atmosfera più di Stati Uniti e Europa messi assieme. L'assenza dei governi di India e Cina è di per sé elemento di forte preoccupazione circa l'efficacia di un nuovo accordo vincolante, cui si aggiungono le posizioni contraddittorie (tra dichiarazioni e politiche implementate a livello nazionale) di numerosi dei Paesi presenti al Summit.
Obama e il Fracking - Dopo l'exploit e il successivo fallimento del vertice di Copenaghen del 2009 che costituì la prima uscita pubblica di Obama dopo la sua elezione, e dopo 5 anni di buco, l'attenzione del presidente Usa sembra tornata almeno a parole sul cambiamento climatico. Obama aveva annunciato già nel giugno scorso l'intenzione di raggiungere il taglio del 30% delle emissioni entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005. Peccato che questa nuova politica ambientale sia basata essenzialmente su due pilastri: fornire alle centrali a carbone filtri più efficienti e aumentare il numero degli impianti alimentati a gas grazie all'implementazione selvaggia dello shale gas, estratto attraverso la devastante pratica del fracking o fratturazione idraulica. Tutt'altro che una svolta ambientalista.

L'Italia al Climate Summit - Anche Renzi ha rivendicato dinanzi alla platea del Climate Forum l'importante lavoro svolto dall'Ue con i target di riduzione per il 2020 e il 2030, affermando che l'accordo che verrà siglato a Parigi dovrà essere vincolante, visto che quella dei cambiamenti climatici "è la sfida del nostro tempo e la politica deve fare la sua parte."
Il suo Ministro dell'Ambiente, Gian Luca Galletti, non è stato da meno. A metà settembre ha auspicato un "accordo virtuoso di tutta l'Europa per la riduzione delle emissioni di CO2", annunciando che il tema è stato indicato come prioritario nell'agenda ambientale della presidenza italiana dell'Ue.
Al di là dell'inesistenza di concreti disincentivi alle energie fossili a livello europeo e degli innegabili limiti di efficacia della core strategy costituita dall'ETS - Emission Trading Scheme, il sistema di scambio di quote di emissioni, le posizioni espresse dall'Italia stridono assai con la politica energetica ingaggiata dal governo. (Per approfondire: Pacchetto UE 2030 e strategia europea sul clima. Alcune perplessità)
A livello nazionale infatti, confermando la linea indicata nella SEN - Strategia Energetica Nazionale 2012 di Passera e Clini, anche gli ultimi provvedimenti governativi, tra cui spicca il decreto Sblocca Italia, non vanno certo nella direzione del superamento delle fonti fossili. Ampliare i livelli estrattivi di idrocarburi; aprire nuovi fronti di estrazione soprattutto in mare vicino a zone di altissimo valore naturalistico e turistico; implementare tecniche estrattive non convenzionali; puntellare il paese da nord a sud di impattanti infrastrutture energetiche come oleodotti, gasdotti, elettrodotti spesso in aree ecologicamente preziose o altamente sismiche è il cuore della strategia energetica del bel paese. Altro elemento di critica all'operato di Renzi, lo spostamento al 2020 dell'ecobonus per la riqualificazione energetica degli edifici, che avrebbe permesso un serio investimento in efficienza.
Resta da chiarire come tali decisioni, unite alla chiara tendenza estrattivista del governo, possano convivere con i proclami di Renzi a New York.

Occasione ghiotta per le grandi imprese
Oltre alle delegazioni governative in pompa magna, l'incontro di New York è stato letteralmente occupato dalle multinazionali, come denunciato da oltre 300 movimenti e organizzazioni sociali prima dell'inizio del vertice. Evenienze che hanno reso l'atteso summit né più né meno che una passerella di buone intenzioni espresse dai governi ma ancor più ghiotta occasione di green washing e nuovi profitti per le grandi imprese.
Anche da parte dei colossi economici presenti al Summit non sono mancati gli annunci roboanti. Resta da vedere quante di queste intenzioni si tradurranno in impegno concreto: annunciare al mondo rosee intenzioni è molto meno impegnativo e costoso che metterle in pratica.
L'Enel, per bocca dell'Ad Starace, ha annunciato che entro il 2015 l'azienda sarà Carbon neutral. Annuncio che ha del miracoloso, se si considera che solo l'anno scorso l'allora presidente Colombo aveva affermato che appena il 42% della produzione totale del gruppo poteva considerarsi ad emissioni zero. Altri colossi, come Rockfeller Brothers, Nestlè, Kellogg's, Ikea, McDonald's, Unilevel, per citarne solo alcuni, hanno promesso maggiore attenzione alle catene di forniture, maggiori investimenti sulle rinnovabili e più impegno nella preservazione delle foreste.
Dietro a questa ritrovata coscienza ambientale ci sono chiaramente calcoli di convenienza economica. Per fare solo un esempio, come spiega Oxfam, il prezzo di produzione dei corn flakes Kellogg's potrebbe aumentare fino al 44% nei prossimi 15 anni a causa del riscaldamento globale.
Dato positivo resta comunque la sigla, da parte di 32 governi, decine di organizzazioni ecologiste e indigene e 40 grandi imprese, della Dichiarazione sulle Foreste, che prevede di dimezzare la deforestazione entro il 2020 e stopparla entro il 2030.
Greenpeace international ha annunciato che veglierà sulla realizzazione delle promesse fatte dalle imprese durante le giornate newyorkesi, pur chiarendo che senza un ambito istituzionale di impegni vincolanti da parte dei governi, l'azione privata, anche se di grosse aziende, è destinata all'inefficacia.
Nell'ottica della quantificazione economica degli impatti del cambiamento climatico va anche il lavoro della Global Commission on the Economy and Climate, presieduta da Nicholas Stern, economista britannico già capo economista della Banca Mondiale, autore del famoso Rapporto Stern che nel 2006 calcolò gli impatti economici del cambiamento climatico. "Se non si farà fronte alla sfida climatica - avvertiva il report - i danni per l'economia globale equivarranno a una perdita complessiva del 20% del Pil". Per invertire la rotta, il rapporto parlava di un investimento necessario pari almeno al 1% del Pil mondiale entro il 2015. (Fonte: Report Better Growth, better climate, Global Commission on the Economy and Climate)
Secondo le recenti stime diffuse dalla Global Commission, la sfida al clima si può vincere non rinunciando a profitti e crescita. Al di là dei limiti dell'impostazione di fondo, che utilizza parametri economici per argomentare la convenienza della lotta al cambiamento globale, il rapporto afferma che per una azione efficace occorrerebbe anzitutto azzerare i sussidi alle fonti fossili, pari a circa 600 miliardi di dollari l'anno, contro i 100 miliardi destinato allo sviluppo delle rinnovabili. Allo stesso modo, occorrerebbe pensare le infrastrutture previste nei prossimi 15 anni, per un totale stimato di 90.000 miliardi di dollari di investimenti, in un ottica low carbon. Questo comporterebbe una spesa di circa 270 miliardi di dollari in più l'anno, che sarebbero però compensate dalla minor dipendenza dai fossili oltre che dal risparmio in sanità pubblica. La percentuale di Pil che i 15 paesi che emettono più Co2 spendono per i danni sanitari causati all'inquinamento atmosferico è infatti pari a ben il 4%.

Road map per la decarbonizzazione
Il 19 settembre, alla vigilia del Climate Summit, è stato diffuso il Report 2014 del Deep Decarbonization Pathways Project (Ddpp), l'iniziativa di cooperazione globale contro il cambiamento climatico presentata per la prima volta nel luglio scorso. Il progetto è realizzato da 30 istituti di ricerca di 15 paesi. Tra essi, 13 sono nella lista delle 15 nazioni con più alto livello di emissioni a livello globale: ovvero Cina, Russia, India, Germania, Corea del Sud, Giappone, Usa, Indonesia, Messico, Canada, Sud Africa e Brasile (mancano alla task force gli altri tre paesi della lista Emirati Arabi, Arabia Saudita e Iran). Gli altri 3 partner sono Francia, Australia e Regno Unito. Lo sforzo del report è disegnare, paese per paese, un percorso concreto verso un'economia low-carbon.
Il report 2014, il primo del Ddpp, presentato a New York, afferma che le emissioni devono essere ridotte da 36 gigatoni, livello attuale, a 11 gigatoni entro il 2050 per poter sperare di contenere l'innalzamento della temperatura entro il prudenziale livello di 2°.
Secondo il Report, nonostante ogni paese stia adottando modalità di riduzione differenti, i sistemi energetici in giro per il mondo devono avere un "dna condiviso" in termini di soluzioni adottate per la riduzione. Le soluzioni condivise a cui si fa riferimento sarebbero l'efficientamento energetico ed il passaggio da fonti energetiche ad alta intensità di produzione di Co2 alle rinnovabili entro il 2050. Tuttavia una differenza il documento la pone: per i paesi in via di sviluppo come la Cina, l'uso del carbone potrà continuare ancora per pochi decenni per poi diminuire ed essere sostituito con il vento ed il sole. In altri paesi come gli USA, l'utilizzo del carbone deve invece iniziare a diminuire già in questo decennio. Lo sviluppo di sistemi in grado di ottimizzare l'accumulo dell'energia durante le ore di punta relativamente al sole ed al vento per poi trasmetterla alle smart grid giocherebbe un ruolo importante, ma occorre supplire alla diffusione e concentrazione di queste ultime solo in alcune zone del globo. (Fonte: Report Ddpp 2014)
Oltre a dossier periodici, nel 2015 il Ddpp produrrà poi una relazione completa sulla Francia, proprio in vista della 21esima Cop sul clima di Parigi. Per il momento, tra le indicazioni per singolo paese: la Gran Bretagna entro il 2050 dovrà produrre il 35% dell'energia elettrica da nucleare, l'Australia dovrà lavorare principalmente sui sistemi di trasporto pubblico per ridurre le emissioni, il Sud Africa dovrà investire principalmente in energia solare. Grande rilievo e importanza strategica vengono poi riservati in generale alle tecniche di Carbon Capture and Storage (Ccs), sulla cui efficacia e sostenibilità ecologica le critiche non mancano. Il Ccs prevede di catturare la Co2 emessa dei processi di combustione attraverso procedimenti chimici che, separando e fluidificando il carbonio, permetterebbero di stoccarlo nel sottosuolo. Tuttavia sulla sicurezza di questa tecnica in termini di stabilità geologica e sulla sua tenuta nel tempo persistono molti dubbi, senza contare i costi della ricerca e della sperimentazioni (sottratti allo studio di tecnologie e innovazioni per lo sviluppo e lo stoccaggio delle rinnovabili) e la quantità di energia necessaria ad iniettare Co2 in profondità.

Altre (false) soluzioni
Come sul Ccs, anche sulle altre soluzioni emerse dalle Cop precedenti, le riserve della comunità scientifica e della società civile sono numerose ed argomentate.
Come emerso a Cancun nel 2010 e confermato a Rio nel 2012 durante il vertice Rio+20, i partenariati tra pubblico e privato e i meccanismi di mercato come i crediti di carbonio continuano ad essere al centro delle politiche di riduzione delle emissioni.
Conferma di tale tendenza la concomitante celebrazione, nella settimana 22-28 settembre, della Climate Week 2014, la Settimana per il clima, organizzata dal Climate Group, organizzazione internazionale che da 10 anni si occupa proprio di lavorare, con multinazionali e partner governativi, allo sviluppo di "meccanismi finanziari per il clima e nuovi modelli di business" a supporto delle politiche di riduzione delle emissioni. Peccato che i meccanismi finanziari si siano fin qui rivelati inefficaci per una riduzione concreta delle emissioni, contribuendo invece efficacemente a creare nuove e ghiotte occasioni di speculazione finanziaria utilizzando, più che rispondendo, all'emergenza climatica.
Forti critiche continua a sollevare, nelle organizzazioni ecologiste e nei movimenti indigeni di tutto il pianeta, il programma di Riduzione delle Emissioni da Deforestazione e Degradazione REDD, utilizzato più che per tutelare le aree forestali per "costituire una nuova forma di diritti di proprietà commerciali su foreste e altri servizi ambientali, concretizzandosi in una possibilità offerta alle industrie contaminanti per compensare le proprie emissioni in maniera semplice ed economica, violando i diritti delle comunità rurali e indigene che sono vere protagoniste nella salvaguardia dei boschi, soprattutto quelli tropicali", come ha più volte denunciato la rete Carbon Trade Watch. Simile al meccanismo del Redd è la cosiddetta Blue Carbon Initiative, che è concentrata sul carbonio immagazzinato negli ecosistemi marini costieri, come quelli di mangrovie. (Per una lettura critica del meccanismo Redd+ si veda il Dossier No Redd+ in spagnolo, realizzato dall'osservatorio Carbon Trade Watch )
Diversi anche i punti controversi della cosiddetta Climate-Smart Agriculture o "Agricoltura climaticamente intelligente", che si traduce principalmente nella delega, a multinazionali delle sementi e dell'agrobusiness, di un ruolo di primo piano nel disegno delle politiche alimentari a livello globale. Tale indirizzo, secondo la rete internazionale La Via Campesina, viola la sovranità alimentare e disconosce il ruolo dell'agricoltura contadina nella protezione del territorio. Ѐ verosimile che l'implementazione di questo tipo di agricoltura provocherà una ancora maggiore concentrazione di terre, creerà dipendenza degli agricoltori da varietà di sementi resistenti alle modificazioni del clima, aumentando la vulnerabilità dei piccoli produttori. Senza contare che si tratta di un modello basato sull'utilizzo massiccio di composti chimici altamente tossici e di fonti fossili, contrario ad ogni logica di riduzione di emissioni.
Ulteriore programma varato dall'Onu è la SE4ALL - Sustainable Energy for All Initiative, lanciata dalla segreteria generale dell'Onu nel settembre 2011, con l'obiettivo di raddoppiare sia il livello di efficienza energetica che di energie rinnovabili entro il 2030 agendo su tre aspetti fondamentali: accesso all'energia, efficienza energetica, sviluppo di rinnovabili. Già nel 2012 Global Forest Coalition aveva denunciato che nel board direttivo dell'iniziativa erano presenti "membri provenienti dalle maggiori multinazionali energetiche, industriali e finanziarie oltre che importanti investitori nel settore dei combustibili fossili tra cui Eskom, Statoil, Siemens e Riverstore a fronte di cinque membri governativi e appena tre ong". Attualmente fanno parte dell'Advisory Board Members, tra gli altri, i Ceo di Royal Dutch Shell,MASDAR, Statoil, Bloomberg New Energy Finance, Acciona. (Composizione dell'attuale Advisory board member)
La maggiore criticità, nell'impostazione di una stretta cooperazione pubblico-privato in tema energetico è, in concreto, il rischio che politiche energetiche pubbliche elaborate in collaborazioni con i colossi dell'energia non possano prescindere dalla tutela degli interessi economici di questi ultimi. Oltre a ciò, la SE4ALL non esclude, dalla definizione adottata di energia sostenibile, alcun tipo di produzione industriale di energia, sia essa contaminante o meno, ne è esempio l'inserimento tra le tecnologie applicabili del processo di incenerimento dei rifiuti.
Ulteriore trovata discutibile è poi l'istituzione del BBOP, Business and Biodiversity Offsets Programme, nato dalla collaborazione di 75 soggetti tra cui imprese, istituzioni finanziarie, agenzie governative e rappresentanti delle ong con l'obiettivo di mettere a punto un sistema di compensazione per la biodiversità. Oltre alla discutibile monetarizzazione di ogni risorsa naturale, questo meccanismo legittima l'ottica per cui, in pratica, la degradazione o la contaminazione di una determinata area può essere compensata dalla creazione in qualunque angolo del pianeta, di un habitat con le stesse caratteristiche.
Infine, le altre misure previste, tra cui l'implementazione su larga scala di agrocarburanti (che significano principalmente estensione di grandi monocolture energetiche con la conseguente corsa all'accaparramento di terre, la perdita di biodiversità e l'erosione dei suoli), la geoingegneria, la produzione di energie da incenerimento, la diffusione di tecniche di estrazione non convenzionale come la fratturazione idraulica o fracking (che attraverso l'immissione ad alta pressione di quantità enormi di acqua mischiate a decine di composti tossici, estrae le particelle di gas immagazzinato nelle rocce) sembrano rispondere a criteri molto lontani da una reale azione di contrasto al cambiamento climatico.

Fondo verde per il clima, diamo i numeri
Un'altra delle questioni centrali in discussione riguarda il sostegno da parte dei governi al Green Climate Fund, Fondo Verde per il Clima, secondo quanto pattuito a Copenaghen nel 2009, per finanziare misure di mitigazione e adattamento soprattutto nei paesi più vulnerabili. Il Fondo mette assieme risorse pubbliche e private, che dovrebbero arrivare ad almeno 200 miliardi di dollari in assets finanziari entro la fine del 2015. L'Ue stanzierà in tutto, entro il 2020, 18 miliardi di dollari, di cui 2,5 nel biennio 2014-15. A 100 miliardi circa dovrebbe arrivare il contributo delle banche di sviluppo facenti parte dell'International Development Finance Group mentre circa 30 miliardi dovrebbe essere l'ammontare entro il 2015 del contributo delle banche commerciali. Occorre tuttavia sottolineare che è dal vertice di Copenaghen che continuano a succedersi dichiarazioni circa prossime iniezioni di liquidità nel fondo. Un dato certo è che, fino a prima del vertice, solo 55 milioni (non miliardi) facevano concretamente parte del gruzzolo. 

People for climate
Per ribadire l'importanza dell'emergenza climatica e la necessità di farvi seriamente fronte, movimenti e organizzazioni sociali hanno invece marciato il 21 settembre, nell'ambito della Giornata Globale di Azione. In decine di città di tutto il mondo 1 milione di persone è scesa in piazza per denunciare le conseguenze del cambiamento climatico: desertificazione, eventi metereologici estremi, flussi migratori sempre più numerosi di profughi ambientali e per chiedere che la lotta al riscaldamento del pianeta diventi punto prioritario nell'agenda dei governi.
Al di là dell'oceanica partecipazione alla mobilitazione, il documento diffuso indica 10 ricette concrete per far fronte all'emergenza clima, tra esse: il carattere vincolante e non volontario degli impegni; una strategia di transizione alle rinnovabili con maggior controllo pubblico e delle comunità locali; un forte impegno nella ri-territorializzazione delle produzioni e dei consumi per risparmiare i costi energetici del trasporto; il ritorno ad un modello agricolo sostenibile visto il carico emissivo del modello agroindustriale, investire in trasporto pubblico a basso impatto; implementare strategie rifiuti zero, partendo dalla riduzione a monte. (Leggi documento integrale e adesioni)
In definitiva, le "soluzioni" disegnate dalla governance in concerto con le imprese, ma tenendo fuori dai processi di elaborazione organizzazioni sociali e comunità, si sono dimostrati sin qui incapaci di contribuire in maniera concreta alla riduzione delle emissioni. Al contrario essi erodono biodiversità, concentrano profitti presso le grandi imprese, compromettono i sistemi idrici. Ciononostante, sono divenuti contenuti centrali nelle negoziazioni commerciali in corso, a partire dal TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership e dal TPP Trans-Pacific Partnership Agreement, cui impostazione di fondo è la privatizzazione dei servizi e la mercificazione della natura e di ogni aspetto della vita. (Visita la pagina della Campagna Stop-Ttip Italia)
Non vi è altro modo di rispondere alla sfida posta dalla modifica del clima se non il ripensamento del nostro modello economico e sociale. In tal senso, la crisi climatica può e deve essere occasione per immaginare e programmare una trasformazione profonda del nostro sistema produttivo e del modello energetico che lo alimenta, attraverso una serrata transizione che preveda, senza rimandarlo oltre, l'abbandono delle fonti fossili e la promozione di una generazione di energia distribuita e da fonti non impattanti.