venerdì 27 giugno 2014

Caro Alex Zanotelli...

Caro Alex,
ci uniamo al coro degli auguri per i tuoi 50 anni di vita sacerdotale missionaria. 50 anni. Una vita al servizio. Del Vangelo, dei poveri, dei diseredati della terra. Dai fumi della baraccopoli di Nairobi ai vicoli di Napoli. 50 anni di testimonianza, di solidarietà. Di denuncia. Perché essere al di là della barriera ha voluto dire disvelare i meccanismi sottaciuti dell’economia perversa che arricchisce pochi e affama tanti. Hai fatto, per anni, dalle baracche di Korogocho, da cassa di risononza, da amplificatore perché il grido dei poveri giunga alle nostre orecchie e ci dia la passione e la forza per rompere l’ingranaggio dell’ingiustizia sociale e della sperequazione sulla pelle della gente.
Ti siamo grati, caro direttore, per questi anni di verità pronunciate senza timore, per la speranza che ti accompagna che il cambiamento di rotta è ancora possibile.
L’amicizia che ci lega parte da lontano. Parte dal legame profondo tra te e don Tonino. “Quando questo libro uscirà – scriveva don Tonino Bello nella prefazione di a La morte promessa (Publiprint, 1987, a cura da Antonio Del Giudice) – forse Zanotelli avrà già lasciato l’Italia. Ma non per ritirarsi nel deserto a espiare colpe che non ha commesso. Non parte in esilio per fuggire l’ira dei potenti. I quali, peraltro, saranno ben felici che egli non possa più recare disturbi al manovratore. Ma parte per obbedienza. Un’obbedienza che ci edifica più di quanto il suo coraggio profetico non ci abbia fatto vibrare. (…) E un giorno non lontano possa tornare a raccontarci che, ancora oggi, la Pasqua è in agguato sulle strade dei poveri”.
È lui, don Tonino, che ti ha invitato a dirigere Mosaico di pace. È lui che ha voluto che raccontassi a tutti, anche tramite le pagine di Mosaico di pace, ciò che accade oltre il muro del benessere. Con la sapienza di chi vive le pene dei poveri accanto ai poveri. Con la forza di chi sa cosa producono le armi. Perché si vendono.
Così racconti, di tuo pugno, in un articolo di Nigrizia.it del 12 aprile 2013: “…ricevo a Korogocho da don Tonino una lettera in cui mi chiede di fare il direttore di Mosaico di Pace, la nuova rivista di Pax Christi. Lo ringrazio della fiducia, ma gli rispondo anche che non saprei come dirigere quel giornale dal Kenya. Risposta senza tentennamenti: ‘Tu sei diventato un simbolo della lotta contro le armi e quindi devi accettare’. L’ho fatto e continuo a farlo”.
Auguri, Alex. Per ancora tanti, tantissimi anni di lotta. Contro le armi. Contro tutti i sistemi di morte e, come tu ami dire, perché vinca la Vita.

La redazione di Mosaico di pace

venerdì 13 giugno 2014

E dissi no alla divisa

da “l'Unità” del 13 giugno 2014

Esce in questi giorni, per Edizioni dell’asino, la raccolta di scritti del primo obiettore di coscienza italiano, Beppe Gozzini. «Non complice. Storia di un obiettore», con prefazione di Goffredo Fofi.
Gozzini è una figura dimenticata del cattolicesimo di base italiano il cui rifiuto di arruolarsi nel ‘62, che lo portò a scontare il carcere, ispirò la celebre «Lettera a un cappellano militare» di Don Lorenzo Milani. Ripubblichiamo qui, dal libro, la prima lettera dal carcere dell’obiettore: un documento che contribuì a diffondere lo spirito di rinnovamento conciliare e il ’68 dei cattolici.
«Il giorno 12 novembre ho rifiutato di indossare la divisa militare perché il servizio militare contrasta con la mia coscienza di cattolico. Sono convinto poi che tradirei non solo la mia risposta personale al Cristo e la mia vocazione nella Chiesa, ma anche il mio impegno di uomo nella Società e il mio dovere di cittadino di fronte allo Stato. (...)
La qualifica di obiettore di coscienza è troppo generica per gettare un po’ di luce sulla mia posizione, pur essendo chiaro che l’obiezione di coscienza non si limita al servizio militare: ogni volta che un uomo rifiuta di divenire complice di una situazione ingiusta, di eseguire comandi e compiere azioni contrarie ai suoi principi, si ha obiezione di coscienza. (...)
La mia obiezione di coscienza presuppone tutta una concezione dell’uomo, figlio di Dio e dei rapporti tra gli uomini, tutti fratelli in Cristo, come traspare dalla rivelazione cristiana, di cui vorrei essere umile testimone. Ma presuppone anche una vocazione personalissima, maturata in me durante lunghi anni, a vivere il più integralmente possibile quella nonviolenza evangelica fondata sulla legge nuova che mi comanda di “amare il prossimo come me stesso” e che si realizza, come stile di azione e di presenza, nella resistenza attiva al male con la forza dell’amore, nel rifiuto della “violenza connaturale all’uomo”, come se la natura non potesse essere redenta dalla Grazia. (...)
Di fronte alla pace gaudente dei militaristi di tutte le razze, per me cattolico la pace porta il segno dei chiodi ed è il bene per cui devo soffrire di più sulla terra: si tratta per me di amare sempre il prossimo anche quando è il nemico militare o l’avversario politico, anche quando ha la pelle di colore diverso o appartiene a un’altra classe sociale, eccetera, perché il resto “lo sanno fare anche i pagani”. Di fronte alle scelte temporali, nel giuoco dei rapporti di forza, quando – come oggi – non è più necessario volere la guerra per farla ed è messo in pericolo il destino stesso dell’uomo, c’è il rischio che la mia “obiezione di coscienza” di fronte al servizio militare risulti anzitutto un sacrificio egoistico, come un “salvarsi la propria anima” e appaia inoltre agli occhi degli amici (anche i più vicini) come puro profetismo, pacifismo astratto, aristocratico individualismo o peggio.
Invece, quanto al mettere in pace la mia coscienza, devo dire che mai come in questi giorni la mia coscienza è un vulcano, perché capisco benissimo che rifiutare il male implicito per me nel servizio militare, non è ipso facto fare la pace. L’assenza o la quiete delle armi non è ancora la pace che deve essere un impegno di ogni uomo e deve essere costruita insieme giorno per giorno almeno con gli stessi sacrifici di mezzi e di ingegno, di sudore e di sangue impiegati per la guerra. Per me il male non è la guerra. Semmai è un male presente anche in quello che per eufemismo chiamiamo “tempo di pace”, perché mette le sue radici in altri mali: l’ingiustizia, la fame, lo sfruttamento, l’ignoranza, la malattia, eccetera; di fronte ai quali vorrei esercitare molto più positivamente la mia “obiezione di coscienza”. Inutile quindi aggiungere che sarei disposto a servire la patria in un servizio civile alternativo che mi offra questa possibilità.(...)
Ma il problema per me, non è quello, banale in fondo, il portare o no la divisa militare, ma quello di agire nel presente hic et nunc per sbarrare il cammino alla violenza istituzionalizzata. Se fosse sufficiente affermare il “Tu non uccidere”, farei il servizio militare, ma non voglio “lasciare uccidere”, non voglio che la violenza trionfi nelle varie forme con cui l’uomo, immagine di Dio, è calpestato. Questa decisione non mi isola dall’impegno nella storia degli uomini e dal rischio comune nella realtà di tutti, non è senza incidenza nella vita sociale di fronte alle esigenze del bene comune, perché – mentre mi appello ai valori umani distrutti da ogni struttura militare, chiedo la libertà di realizzarli, di renderli vivi, di attuarli nella mia esistenza concreta, nei rapporti tra gli uomini, nelle istituzioni della vita civile. (...) Ma appunto per questo la pace nella giustizia, non la pace armata, la riconciliazione universale degli uomini con Dio e tra di loro deve essere oggi l’impegno di ogni individuo, dei singoli stati, di tutte le alleanze internazionali. L’assurdo storico-politico cui siamo giunti è che gli stati non possono più farsi la guerra, ma il mondo può essere distrutto con una scelta che sfugge al giudizio e alla volontà dell’uomo. (...) A questo punto salta fuori il rospo: “Tu parli bene, però vai a sbattere la testa contro l’implacabilità della legge italiana che ti condanna fino a quarantacinque anni e finisci per trovarti in una situazione-limite, in un vicolo chiuso, finisci per non essere utile né a te stesso né agli altri”. Ma le leggi sono onera degli uomini e per cambiarle, basta volerlo in tanti(...). Certo noi tutti “obiettori”, resistiamo fin a quando abbiamo fiato e fin quando ce lo concedono le autorità militari. Ma al di là di questa scottante e terribile “impasse” , vorrei concludere queste mie parole con un passo della esortazione di Papa Giovanni XXIII proprio negli ultimi giorni della vigilia conciliare: “Siate uomini pacifici, siate costruttori di pace. Non attardatevi sui fatui giuochi di polemica amara e ingiusta, di avversioni preconcette e definitive, di rigide catalogazioni di uomini e di eventi. Siate sempre disponibili per i grandi disegni della Provvidenza. La Chiesa questo e non altro vuole con il suo Concilio” (...)».

Beppe Gozzini, CARCERE MILITARE GIUDIZIARIO
FIRENZE, 17 DICEMBRE 1962