lunedì 21 aprile 2014

Taranto, danno collaterale

di Antonia Battaglia (MicroMega, 16 aprile 2014)

Ci sono due opere del filosofo Zygmunt Baumann, “Il mondo liquido” e “Danni Collaterali”, che sono, a mio avviso, fondamentali per capire le sfide portentose che la politica italiana ed europea sta affrontando in questo momento storico, che vede contrapporsi drammi sociali molto ampi e risposte governative molto deboli. Taranto,ancora una volta, ne è il banco di prova.

Quando si parla di società, se ne misura la qualità complessiva in base al livello medio delle parti che la compongono: si studiano reddito, standard di vita, longevità, condizioni sociali. Ma queste misurazioni prendono in considerazione molto difficilmente la differenza che intercorre tra le sue parti opposte, tra le parti più distanti tra di loro: la diseguaglianza, infatti, viene percepita in termini prettamente economici, senza considerare le conseguenze ed i rischi che le differenze sociali comportano su tutti gli aspetti della esistenza umana.

Il premio nobel per l’economia Amartya Sen scriveva, già nel 1998, che non è possibile basare sulla felicità (intesa in senso utilitaristico) una teoria etica (pensiamo a Bentham) che consacri come assoluta una visione ristretta del benessere umano, costruita su considerazioni e valutazioni esclusivamente individuali. Perché le valutazioni in merito alla felicità sono soggette a effetti di adattamento, aspettativa, a circostanze molto diverse che possono portare a trarre conclusioni politico-economiche e sociali distanti dalla realtà alla quale tali conclusioni devono applicarsi. Il tema che affronta Sen è noto come “la questione dello schiavo felice”: una persona molto svantaggiata dal punto di vista sociale potrà dirsi ad un certo momento della propria vita felice della propria sorte, meno drammatica di quella di altri, ma certamente non tanto positiva da essere presa a modello politico.

Gli indicatori dello stato di una società non possono basarsi esclusivamente sulla metrica utilitaristica, perché le grandi incertezze dei contesti sociali contemporanei rendono impossibile il successo di un modello che ponga al centro della vita collettiva un’ idea di continuo adeguamento per la sopravvivenza, attraverso il quale si possano giustificare distorsioni e politiche di deprivazione, che sacrifichino l’individuo al benessere generale.

La “vita buona” di Aristotele misurava l’esistenza umana in base alle sue qualità, anche etiche e morali, e non in base ad indicatori del benessere prettamente economico: la riduzione della valutazione di una società al solo aspetto del suo PIL non può, per forza di cose, che fallire. L’obiettivo primario di una collettività non dovrebbe essere indirizzato alla realizzazione della felicità del segmento più favorito dal punto di vista delle condizioni economico-sociali di partenza, piuttosto dovrebbe tendere a ridurre gli ostacoli sociali di fondo che impediscono la crescita omogenea. Il rilancio dell’economia dovrebbe essere basato su una azione di sviluppo di un benessere collettivo comprensivo dei valori della salute fisica, di quella mentale, della qualità della vita quotidiana, dell’ambiente, del grado di partecipazione dei cittadini alla vita politica.

Anche da questo punto di vista, Taranto è “all’avanguardia” perché rappresenta l’incarnazione estrema della deriva di una politica il cui solo obiettivo pare essere quello di voler piegare la realtà ad un modello di “promozione” delle disuguaglianze sociali.

L’abisso che separa Taranto dalla media italiana non è relativo esclusivamente ai dati del PIL e della distribuzione della ricchezza – dati, peraltro, negativi e testimoni di una profonda ed avanzata condizione di crisi – ma tocca anche quelle altre qualità che la vita dovrebbe avere, per essere definita,come la definisce Sen, vivibile e felice.

Taranto è un esperimento politico costituito da diverse fasi che tendono ad un unico obiettivo: l’oblio. La prima è costituita dall’azione di rimozione: l’operazione di cancellazione della questione ILVA e del conseguente dramma di una città depredata dalla politica nazionale, ansiosa di proteggere la produzione dell’acciaio e il profitto di un singolo. Il programma va avanti lasciando la città fuori da azioni politiche concrete e risolutive.

Il filosofo Baumann parla della creazione di una “sottoclasse”, nella quale la politica aggressiva dell’utilitarismo relega quella parte della società non riconosciuta come centrale. I diritti di questa sottoclasse, se non esistessero, sarebbe meglio per tutti, perché solo fonte di fastidi.
Taranto è trattata dai governi regionale e nazionale come terra di nessuno, espressione della sottoclasse baumiana, corpo estraneo e per il quale non vale la pena di elaborare soluzioni.

Esistevano dei limiti naturali alla disuguaglianza che “Il capitale” di Marx poteva tollerare, perché si doveva evitare che le disuguaglianze diventassero troppo estreme: a Taranto, invece, nella disuguaglianza, si è andati oltre.

Nella seconda fase si cercar di far passare il problema come una questione di mero ordine pubblico. Ovvero,il gruppo vittima della disuguaglianza viene dipinto come un manipolo di ribelli, polemici, facinorosi, adepti della criminalità e dell’uso diffamatorio delle immagini di fumi e polveri in fuoriuscita dall’industria del padrone. Siamo alla reiscrizione della realtà, ovvero al tentativo di far passare il cittadino attivo e cosciente come un delinquente propenso alla ribellione sociale.

L’ultima fase dell’operazione consiste nel ridurre il ribelle ad un semplice criminale di borgata, ad un attore sociale che si muove in una realtà locale oscura e poco attraente, agitato da ripicche tra clans e contento di perdere tempo in vane azioni diffamatorie.

Una volta sminuita la portata della lotta sociale intrapresa da questa terra di nessuno, che la filosofia moderna definisce come vittima della “modernità liquida” nascente dalla globalizzazione, si passa alla fase della distruzione finale, al danno collaterale.

Nel lessico militare si parla di “perdite o danni collaterali” allorché si vogliono descrivere gli effetti di incidenti inaspettati, tuttavia molto prevedibili, delle azioni militari. Definire “collaterali” gli esiti devastanti delle operazioni belliche lascia supporre che questi danni fossero stati tuttavia presi in considerazione al momento dell’inizio delle campagne, e che quindi fossero considerati come possibili e non evitabili.

I danni collaterali in una società moderna non sono prerogativa esclusiva delle guerre, ma rappresentano tutte le emarginazioni e le disuguaglianze che caratterizzano la società stessa. Taranto è il danno collaterale dell’Italia, insieme alla Terra dei Fuochi, a Brindisi, a Vado Ligure, alla Val di Susa.

L’invisibilità endemica delle vittime collaterali è la conseguenza di una strategia ben precisa, messa a punto dai poteri dominanti per impedire modelli sociali nuovi, inclusivi delle sottoclassi e delle disuguaglianze.
Taranto è un “ danno collaterale”: il dramma sanitario, ambientale, occupazionale dei tarantini è cosa marginale, opinabile, non rientrante in nessuna ,o quasi, agenda politica.

 

venerdì 4 aprile 2014

Per una teoria dei beni comuni



La logica con la quale pensiamo al rapporto tra proprietà privata e proprietà collettiva va completamente rovesciata: non è il pubblico che limita il privato nel suo uso esclusivo di un bene, ma è il privato che sottrae alla collettività la possibilità di utilizzarlo per il benessere comune. È scritto nero su bianco nella nostra Costituzione.

di Paolo Maddalena, da MicroMega 9/2013

 
Il punto di partenza

Chi guarda all’attuale stato ambientale del nostro pianeta e, nello stesso tempo, allo stato economico e finanziario dei popoli che lo abitano resta amaramente colpito, per un verso, dalla devastazione ambientale, dagli insopportabili inquinamenti della terra, delle acque e dell’aria, che hanno prodotto un profondo e forse non più reversibile cambiamento del clima, con le catastrofiche conseguenze che esso comporta, e, per altro verso, dalla smisurata differenza delle condizioni di vita dei ricchi, che diventano sempre più pochi e sempre più ricchi, e dei poveri, che rappresentano la stragrande maggioranza degli abitanti di questo mondo e che sono sempre più numerosi e sempre più poveri. Riviste specializzate affermano che il 50 per cento delle risorse è consumato dal 10 per cento degli abitanti della terra, mentre l’altro 50 per cento è destinato al 90 per cento degli abitanti di questo stesso nostro pianeta.

La prospettiva, già solo in base a questi dati, è dunque disastrosa. Ci troviamo di fronte a uno «squilibrio» planetario e umano di immense proporzioni, che, se non immediatamente corretto, può solo far prevedere un’irreparabile catastrofe.

Per quanto in particolare riguarda l’Italia, si tratta di una situazione per la quale, come subito si vedrà, si è resa necessaria una riconsiderazione generale degli assetti proprietari, che ponga in evidenza le norme inattuate della Costituzione vigente (soprattutto gli artt. 41, 42 e 43 Cost.), in relazione alle quali Piero Calamandrei ebbe a osservare che «per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa» 1. Ora, di fronte a una crisi (che poi propriamente una crisi non è, ma è piuttosto uno stato di subordinazione degli Stati del Sud Europa alla Germania) di così vaste proporzioni, questa «rivoluzione promessa» è diventata «una rivoluzione da attuare» senza ulteriori indugi. Ne va della stessa sopravvivenza del nostro paese e degli altri Stati del Sud Europa; della loro indipendenza economica e politica.

Le soluzioni, ovviamente, sono da ricercare sul piano politico, sia a livello interno, sia a livello europeo e internazionale. Ciò non esclude, tuttavia, che importanti correttivi si possano trovare anche sul piano del diritto.

Ponendoci su questo piano, diciamo subito che per noi italiani è indispensabile rivolgersi a due grandi fari che illuminano il diritto del nostro paese: il diritto romano e la Costituzione della Repubblica italiana. Gli insegnamenti dei giureconsulti romani e le disposizioni della nostra Costituzione saranno perciò il filo conduttore di tutto il nostro discorso.

Pochi hanno notato che l’espressione del giureconsulto Marciano, vissuto nel terzo secolo dopo Cristo, «res communes» va tradotta in italiano con l’espressione «beni comuni» 2, quei beni che sono venuti alla ribalta e sono stati oggetto di studio, allorché ci si è accorti che, di privatizzazione in privatizzazione, si era arrivati fino a «privatizzare» l’acqua 3 (come già avvenuto in altre parti del mondo, ad esempio in Bolivia 4), un bene che appartiene a tutti e serve all’uso gratuito di tutti. Il referendum del giugno 2011 per abrogare le disposizioni di legge che imponevano la «privatizzazione delle reti di distribuzione dell’acqua» è stato un grande successo popolare: 27 milioni di italiani hanno detto no alla privatizzazione, dimostrando che oramai è entrato nell’immaginario collettivo l’importante concetto che i «privati», e cioè i «proprietari privati», non possono occupare campi che, per essere strettamente connessi alle esigenze primarie della vita umana, devono restare nella proprietà di tutti, quella che più propriamente è detta «proprietà collettiva» del popolo.

Attraverso il referendum sull’acqua gli italiani hanno dimostrato di essersi accorti che ridurre tutto a «proprietà privata» può portare a conseguenze nefaste e che occorre, invece, rifarsi alla nostra Costituzione, la quale da un lato «riconosce», per così dire, cittadinanza giuridica a questo tipo di proprietà soltanto entro ben determinati limiti, e comunque subordinatamente al rispetto degli interessi generali e prevalenti di tutti, e d’altro canto pone il principio fondamentale «dell’eguaglianza economica» (art. 3, comma 2, Cost.), secondo il quale si deve evitare l’«accentramento» della ricchezza, che rende impossibile una vita «libera e dignitosa» (art. 36, comma 1, Cost.), e occorre favorire la «redistribuzione» della ricchezza stessa, che, sola, consente la produzione di beni reali e un reale «sviluppo economico». Sviluppo economico che è necessario per raggiungere i fini della Costituzione, e cioè «il pieno sviluppo della persona umana» (art. 3, comma 2, Cost.) e «il progresso materiale e spirituale della società» (art. 4, comma 2, Cost.).

Ne consegue che l’unica forma di Stato idonea a perseguire i suddetti fini è quello introdotto dalla nostra Costituzione, e cioè lo Stato sociale di diritto, che assume come compito proprio il benessere di tutti, utilizzando sia la proprietà pubblica, sia la proprietà privata 5.

In sostanza, si tratta di rendere attuale un pensiero già presente nella Costituzione di Weimar del 1919, che Roosevelt, all’indomani della grande crisi del 1929, riassunse in due «verità», che espose davanti al Congresso degli Stati Uniti, il 29 aprile 1938: «La prima verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il popolo tollera la crescita di un potere privato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico. […] La seconda verità è che la libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non fornisce occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile».

Precedenza storica della proprietà collettiva su quella privata

Si capisce agevolmente, già da queste prime osservazioni, che il discorso sulla situazione attuale deve «ampliare i suoi confini», deve scoprire le «radici» del problema, se proprio si vuole trovare una soluzione. E andando, per così dire, in profondità, si nota agevolmente che il primo dato da porre in evidenza è che non si può parlare dei diritti di ogni uomo, se non si tiene presente che l’uomo non può vivere «isolatamente», ma nella «comunità». È, come ripeteva Aristotele, un essere che vive nella polis, che vive in città. Ne consegue che il primo concetto chiave da mettere a fuoco è proprio quello del rapporto tra «la parte e il tutto», «tra individuo e comunità», tra «individuo e ambiente».

L’essenza di questo concetto sta nel concepire la «parte» come «elemento strutturale» del «tutto». Lo chiarirono, nel terzo secolo avanti Cristo, Pitagora di Siracusa ed Empedocle di Agrigento 6, i quali concepirono «l’uomo» come «parte costitutiva» del «cosmo». In sostanza, come ha affermato di recente papa Francesco, occorre partire dal concetto dell’«armonia» universale e ritenere che l’uomo è parte essenziale dell’universo, ha un «suo posto» nell’universo, per i fini che questo deve raggiungere.

Si scopre così che la vita dell’uomo fa parte di un’unica immensa vita, quella dell’universo intero. Ed è su questa idea che l’ecologismo contemporaneo ha potuto porre le basi per superare gli errori prodotti dalla filosofia razionalista, che ha staccato l’uomo dalla natura, là dove uomo e natura sono entità tra loro inscindibili. Nessuno nega più, oggi, che «l’uomo è parte della natura», o, se si preferisce, è «parte dell’ambiente», e che per difendere la vita dell’uomo, occorre salvaguardare la natura e l’ambiente.

Le res communes omnium di Marciano si collocano in questo quadro universale, non per niente esse sono considerate nell’ambito dello ius naturale, di quel diritto, cioè, che la stessa natura insegnò a tutti gli esseri viventi, «quod natura omnia animalia docuit». Si tratta, come è noto, dell’aria, dell’acqua corrente, del mare e dei lidi del mare: una sintesi ante litteram dell’odierno concetto di ambiente.

Sennonché per il giurista odierno, che opera in un mondo del diritto nel quale il giusnaturalismo è oppresso dal positivismo, e quest’ultimo, per giunta, è divenuto nichilismo, il concetto chiave della «parte e del tutto» va più opportunamente utilizzato, non in ambito universale, ma nell’ambito in cui domina un dato ordinamento giuridico, e, quindi, nell’ambito proprio della «comunità politica», o Stato che dir si voglia.

Limitato così il campo dell’indagine, appare evidente, innanzitutto, che il diritto, come diceva Carl Schmitt, «è terrestre», riguarda il rapporto tra l’uomo e la terra, la iustissima tellus 7. In altri termini il «diritto» nasce quando il «mondo delle persone si relaziona al mondo delle cose» 8. E, per definire in cosa si sostanzi questa «relazione», bisogna ricorrere a un altro concetto chiave, quello di «confine» 9. Si pensi, ad esempio, alla fondazione di Roma. Quando Romolo, o chi per lui, tracciò il solco di Roma, distinse il terreno sul quale doveva sorgere l’urbs dai terreni circostanti e con questa «confinazione», con il fines regere, egli fece sorgere congiuntamente e istantaneamente tre entità: il «popolo», cioè l’aggregato umano che si stanziava su quei terreni confinati, il «territorio» (da terrae torus, letto di terra), cioè la porzione di terra sulla quale si stanziava il popolo, e la «sovranità», cioè la somma dei poteri conferiti al popolo, sui quali fondare il diritto e cioè l’ordinamento giuridico.

Fondamentale fu il concetto di Populus Romanus Quirites 10, poiché fu nel popolo che i giureconsulti romani videro avverarsi quel rapporto, ereditato dalla filosofia greca, «della parte e del tutto». Ciascun cittadino fu e si considerò «parte strutturale» del tutto, cioè della collettività, e, come poi dimostrò Marco Tullio Cicerone, furono proprio questo senso di «partecipazione», questo «sentirsi parte integrante» di un’articolata comunità, questo «sentimento di solidarietà», che fecero grande Roma.

E questo sentirsi parte di una comunità, si badi bene, non si limitò agli esseri umani, ma investì lo stesso «suolo di Roma», il «territorio romano», elevato a elemento distintivo della stessa «romanità». E si capisce agevolmente che questo rapporto tra popolo e territorio non fu mai concepito come un rapporto di «dominio» e di sfruttamento, ma come un rapporto di natura quasi «personale», poiché il territorio, come si è accennato, fu visto come qualcosa di strettamente legato alle persone, addirittura, come si è accennato, un terrae torus, un letto di terra.

Dunque, fin dalle origini, e nel senso su esposto, si parlò del «rapporto di appartenenza» del territorio al popolo, e cioè di una «proprietà collettiva», che è insita nella «somma dei poteri sovrani» spettanti al popolo. Né si può tacere che questo tipo di appartenenza ebbe per i romani qualcosa di sacro, se è vero come è vero che si giunse ad affermare che «pulcrum est pro patria mori», è bello morire per la patria.

E fu in questa atmosfera di amor di patria, in questo connubio tra popolo e territorio, in questo riconoscimento in capo al popolo del potere sovrano, che sorse la «comunità politica», la «Civitas Quiritium».

Dalle origini, dunque, il territorio appartenne al popolo e, a quanto pare, fu Numa Pompilio a operare una prima «divisio», una prima divisione, del territorio, tra «ager compascuus», in proprietà e in uso comune e collettivo, e una piccola parte del territorio stesso «ceduto» ai patres familiarum a titolo di mancipium, concetto che, molto alla lontana, fa pensare a una sorta di «proprietà privata», ma che fu ben diverso da questa, consistendo, non in un rapporto astratto, in un diritto reale del soggetto sull’oggetto, ma nella sottoposizione di piccole porzioni del territorio, con quanto serviva alla loro coltivazione (la domus, l’heredium circostante, gli animalia quae collo dorsove domantur, gli instrumenta fundi), al «potere generico e indifferenziato» degli stessi patres. Si trattò di «due iugeri» a testa, cioè di mezzo ettaro, appena sufficienti per garantire le strette necessità di vita familiare. D’altro canto, come agevolmente si nota, il concetto di «proprietà privata» non fu affatto originario, come comunemente si crede, ma si maturò, per effetto di una lunga e tormentata riflessione giurisprudenziale, soltanto agli inizi del primo secolo avanti Cristo, e cioè ben sette secoli dopo la nascita della proprietà collettiva, quando si cominciò a parlare di «dominium ex iure Quiritium» 11.

Non è dubbio, quindi, che la prima forma di appartenenza, come del resto ha dimostrato il Niebuhr, sin dal 1811 12, fu la «proprietà collettiva», mentre è assolutamente errato parlare di «proprietà privata» come sinonimo della «proprietà romana». Peraltro distinguere tra i due tipi di appartenenza è di somma importanza. Infatti, la «proprietà collettiva» implica non il potere di disporre del bene, ma solo la facoltà di un suo «uso» corretto e condiviso in modo pari con tutti gli altri consociati, al fine di «conservare» il bene stesso per la presente e le future generazioni. Al contrario, la «proprietà privata» comporta la sottrazione a tutti di una parte del territorio per cederlo a un singolo con la facoltà di «alienarlo» ad altri o di «goderne» in modo «pieno» (fino alla distruzione della cosa) ed «esclusivo», cioè escludendo da questo godimento tutti gli altri consociati. Come si nota, un diritto che, oltre certi limiti, come meglio vedremo in seguito, diventa lesivo dei diritti collettivi di tutti i consociati alla conservazione del «territorio», e quindi del paesaggio, dei beni artistici e storici, dei beni naturali eccetera, loro appartenenti a titolo di «sovranità».

Purtroppo la cultura borghese, confermata oggi dall’ideologia neoliberista, ha tentato in tutti modi di far scomparire il concetto stesso di «proprietà collettiva», producendo, come presto vedremo, danni rilevantissimi in ordine al soddisfacimento dei bisogni primari della collettività.

La proprietà collettiva, tuttavia, ha mantenuto intatta la sua presenza nell’ordinamento giuridico, come ha brillantemente dimostrato Paolo Grossi 13, con un lavoro pubblicato nel 1977, dal titolo Un altro modo di possedere, tratto da una definizione di Carlo Catteneo, il quale, a proposito delle «proprietà collettive», affermò: «Non sono abusi, non sono privilegi, non sono usurpazioni: è un altro modo di possedere, un’altra legislazione, un altro ordine sociale, che, inosservato, discese da remotissimi secoli sino a noi» 14.

Né si possono dimenticare i lavori di Vincenzo Cerulli Irelli 15, il quale ha opportunamente utilizzato il concetto di proprietà collettiva per fondare giuridicamente i diritti collettivi.

Il riferimento al diritto romano è, a questo proposito, molto importante, poiché dimostra che la «proprietà collettiva» non sorse nel medioevo, come comunemente si crede, ma con la stessa fondazione di Roma, essendo, di conseguenza, le proprietà collettive medievali soltanto una propaggine storica dell’originaria «proprietà collettiva romana».

Altro dato estremamente rilevante che si ricava dalla storia di Roma è che i giureconsulti romani, per salvaguardare il soddisfacimento dei bisogni primari della collettività, esclusero dal commercio i beni idonei a questo scopo, operando una fondamentale distinzione tra «res in commercio» e «res extra commercium», oppure, come preferisce Gaio 16, tra «res in patrimonio» e «res extra patrimonium». Infatti, è fin troppo evidente che non esiste alcun altro strumento giuridico per tutelare le parti del territorio destinate permanentemente a soddisfare i bisogni primari della collettività, se non quello di sottoporre questi beni al regime dell’«incommerciabilità» 17. Oggi l’esigenza di utilizzare questo strumento è proposto da più parti, ma, come è noto, essa è osteggiata dalla cultura dominante tutta fondata sulla prevalenza della proprietà privata, e, sul piano giuridico, è sopraffatta dall’assurda privatizzazione persino dei «beni demaniali». Eppure nessuno può negare che esiste nel nostro ordinamento giuridico l’essenziale categoria, perfettamente coerente con i vigenti princìpi fondamentali della Costituzione, della «proprietà collettiva demaniale», cioè di quei beni che appartengono al popolo e sono pertanto «inalienabili, inusucapibili e inespropriabili».

Il concetto di territorio

Ma è venuto il momento di stabilire cosa si intende con la parola «territorio». Come si è visto, per i romani, e da un punto di vista puramente materiale, il territorio è una «porzione di terra», confinata dai terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca moderna, sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come «ambiente», meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come «biosfera» 18, in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo e il sottosuolo, tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le stesse opere e attività dell’uomo.

Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il territorio è un «bene comune unitario», formato da «più beni comuni», in «appartenenza» comune e collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo, ed essendo il popolo un’entità in continuo mutamento per l’alternarsi della vita e della morte dei singoli individui, anche il «territorio», come il popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè tenendo conto dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto del fatto che esso deve necessariamente appartenere non solo alla presente, ma anche alle future generazioni. Del resto, come poco sopra si è ripetuto, popolo e territorio, insieme con la sovranità, sono «parti costitutive» della medesima «comunità politica».

D’altro canto, occorre tener presente che il concetto di territorio, oggi, non si esaurisce nelle entità materiali sopra ricordate, e cioè il suolo, il sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compresi i beni artistici e storici creati dall’uomo, ma comprende anche entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono. In ultima analisi, tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere e il tenore di vita del popolo che quel territorio abita.

Si pensi alle opere dell’ingegno: alle invenzioni, tutelate dai brevetti, o alle opere letterarie, tutelate dal diritto di autore; o alle conoscenze e ai saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in estrema sintesi, alla «cultura» 19, non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare 20, e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle nazioni nella vita di tutti i giorni.

E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul territorio le istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato e al relativo «ordinamento giuridico», nonché alla forza spesso sconvolgente che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.

Il «territorio», in altri termini, appare come uno «spazio di libertà» entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità e i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura e in ciò che da questa deriva.

Ne consegue che l’odierna cosiddetta globalizzazione non può e non deve prescindere dalla distinzione dell’intera superficie terrestre in vari «territori», intesi come luoghi nei quali si esplicano le specifiche caratteristiche dei diversi «popoli». La globalizzazione implica la «transitabilità» dei confini, non la soppressione dei singoli territori in vista di un unico territorio costituito da tutta la terra. A parte la considerazione che una cosa del genere è solo immaginabile, ma, almeno al momento, assolutamente irrealizzabile, resta il fatto che la perdita delle caratteristiche proprie dei vari territori e, quindi, dei vari popoli, sarebbe solo una perdita immensa di ricchezze naturali e culturali. Occorre, dunque, «difendere i territori», poiché, è bene ripeterlo, essi costituiscono «spazi di libertà» per il pieno sviluppo delle singole persone e per il progresso materiale e spirituale della società.

Il necessario riequilibrio tra proprietà privata e collettiva

E, nel descritto quadro, esiste un solo modo per difendere il territorio: assicurare la sua «destinazione» alla soddisfazione «dell’interesse generale» di tutti i cittadini, limitando, in base a princìpi di equità, la sua «destinazione» a soddisfare soltanto l’interesse individuale. Occorre, cioè, sul piano strettamente giuridico, effettuare un «bilanciamento» tra «proprietà collettiva» e «proprietà privata», sulla base del diverso peso dei corrispettivi interessi oggetto di tutela.

Infatti, un morbo terribile attanaglia tutti i popoli dopo l’affermazione delle «teorie neoliberiste»: l’esasperato «individualismo» e la perdita quasi assoluta del senso della «solidarietà», solidarietà all’interno di un popolo e solidarietà tra i popoli. Il fatto che «il mercato» sia l’unica società capace di sopravvivere senza solidarietà, a differenza di tutte le altre società, ha prodotto un egoismo esasperato, che sta portando tutti alla disgregazione e all’impoverimento generale.

Si tratta, prima di ogni cosa, di ristabilire quel «riequilibrio» del quale si è poco sopra parlato. E questo riequilibrio, sia ben chiaro, è certamente possibile in base alla stragrande maggioranza dei vigenti ordinamenti giuridici moderni. Infatti, come acutamente osserva Rodotà 21, «una costante dei sistemi giuridici moderni è rappresentata dalla distribuzione dei beni in tre aree: privata, pubblica e collettiva […] ed è proprio con l’attribuzione dei beni a ciascuna di queste tre aree che finiscono con l’essere definiti i caratteri di un ordinamento.[…] Ed è chiaro che, da un canto, deve rimanere aperta la possibilità di spostare le frontiere tra le diverse aree; e dall’altro, che sono i rapporti qualitativi tra queste che connotano definitivamente un sistema». Inoltre, è da tener presente, ed è sempre Rodotà che parla 22, che non è assolutamente possibile ritenere che le «decisioni assunte dal titolare del diritto […] non sono vincolanti per i terzi, […] poiché […] un’analisi realistica della situazione presente» dimostra che «il crescere e il mutare di qualità dell’incidenza globale delle decisioni proprietarie possono variamente risultare vincolanti per altri, richiedendo quindi regole tendenti a qualificare in questo più largo quadro le modalità della decisione e, quindi, l’esercizio dei poteri proprietari», sicché non è più possibile «costruire la proprietà come sistema completamente autoreferenziale» ed è indispensabile «operare una relativizzazione non solo di un potere proprietario altrimenti visto come assoluto, ma dello stesso ruolo della proprietà, […] come vogliono tutte le tecniche costituzionali di bilanciamento degli interessi, e come vuole particolarmente la Costituzione italiana».

Il ristabilimento di questo equilibrio comporta l’assolvimento di un compito immane.

È divenuto, infatti, necessario e improrogabile «spostare dalla proprietà privata a quella collettiva» tutti quei «beni che sono indispensabili alla sopravvivenza» di tutti i cittadini. Si tratta dei beni naturali e culturali, che assicurano il soddisfacimento dei bisogni primari dell’uomo, delle più importanti industrie strategiche (quelle relative alla produzione dell’energia, alle comunicazioni, ai trasporti eccetera), e dei terreni e degli immobili, che, anche indipendentemente dalla loro classificazione come «beni demaniali» debbono necessariamente rientrare nella «proprietà collettiva» del popolo, come, ad esempio, il «paesaggio» e, in genere, i «beni culturali». E non si può sottacere a questo proposito la necessità del recupero al patrimonio del popolo dei «terreni e degli immobili abbandonati», che non perseguono più alcuna «funzione sociale». In altri termini, come sopra si diceva, è diventato urgente, sottrarre al mercato, e cioè alla logica del profitto, quei beni indispensabili per garantire a tutti una vita «libera e dignitosa».

In proposito, poi, è doveroso precisare che è necessario distinguere tra «titolarità» e «gestione», nel senso che lo Stato e gli enti territoriali ben possono essere «gestori pubblici» dei «beni in proprietà collettiva del popolo», poiché tale gestione, ovviamente, lascia inalterata l’appartenenza dei beni al popolo medesimo. L’importante è assicurare, con norme ferree, che i gestori si comportino secondo fedeltà e correttezza, e siano ritenuti fermamente responsabili dei loro comportamenti.

D’altro canto, nell’effettuare questa operazione, occorre tener presente che «l’originaria appartenenza del territorio al popolo» a titolo di «sovranità», non viene meno con la «cessione» a singoli o a un ente pubblico della «proprietà privata». In altri termini, la storia dimostra che sulla proprietà privata insiste quella che Carl Schmitt definisce la «superproprietà» del popolo, nel senso che il popolo come ha «ceduto» la proprietà privata così può riacquistarla.

Si tratta, in sostanza, della distinzione medievale tra «dominium eminens» e «dominium utile», la quale assicurava al re la «preminente» titolarità di tutto il territorio 23.

Quanto, infine, alla legittimità costituzionale di questa operazione, più di talune sentenze della Corte costituzionale, peraltro molto criticate sul piano dottrinale 24, valgono le seguenti affermazioni di Massimo Severo Giannini, che nessuno sinora è riuscito a smentire 25: «Le proprietà sono così come sono in quanto una legge le ha, nel modo come sono, configurate. Di qui l’ulteriore conseguenza, questa volta non più constatativa ma precettiva: che come la legge ne ha determinato la configurazione così la può modificare. Affinché si possa dire che la modificazione oltre una certa norma è espropriativa, occorrerebbe, nel sistema, una proposizione precettiva la quale garantisse ciò che è al di là di quella certa soglia. […] Il problema ritorna quindi, quasi fatalmente, al punto di partenza. Siccome dall’enunciazione costituzionale non è garantito alcun contenuto o ambito soliare della proprietà, ove trovare la norma di garanzia?».

Prevalenza giuridica della proprietà collettiva su quella privata

A questo punto, alla «precedenza storica» della proprietà collettiva sulla proprietà privata, della quale si è parlato nelle pagine precedenti, viene naturalmente ad affiancarsi una «prevalenza giuridica», della prima sulla seconda.

La Costituzione della Repubblica italiana, infatti, nel disciplinare la proprietà privata, segue perfettamente il concetto storico della «derivazione» di quest’ultima dalla proprietà collettiva del territorio. In parole povere, l’idea che sottende la disciplina costituzionale è «l’originaria appartenenza del territorio all’insieme dei cittadini» e la sua successiva «divisione», per volontà del popolo e ad opera di una legge, in una zona riservata all’uso diretto della comunità, detta «demanio», e una zona concessa in «proprietà privata».

La dimostrazione di quanto testé affermato è estremamente semplice. Infatti, la nostra Costituzione, agli articoli 42 e 41, contenenti norme immediatamente prescrittive, da qualificare come «norme di ordine pubblico economico», si occupa sia della proprietà pubblica, nella quale rientra ovviamente la «proprietà collettiva demaniale», sia della natura giuridica della proprietà privata, alla quale pone rilevanti limiti, condizionando la sua tutela giuridica allo «scopo di assicurarne la funzione sociale».

L’articolo 42 così prescrive: «La proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Risulta evidente che, a differenza della «proprietà collettiva demaniale», che ha fondamento nella «sovranità», ed è evidenziata, come si è accennato, dall’espressione «proprietà pubblica», il diritto di proprietà privata ha fondamento nella «legge», cioè in una manifestazione di volontà del popolo, ed è completamente sganciata dai diritti fondamentali di cui all’articolo 2 della Costituzione. Ed è opportuno ancora ribadire che, comunque, è soltanto il popolo, che, esprimendosi attraverso la legge, può decidere di «cedere» a singoli parti del territorio, per soddisfare interessi individuali ed esclusivi.

Inoltre è di decisivo rilievo il fatto che «la legge riconosce e garantisce la proprietà privata», soltanto se questa «assicura lo scopo della funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

La conclusione da trarre sul piano giuridico è di somma importanza. Infatti, escludendo soltanto quella che la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, nella sua formulazione originaria, definisce la «proprietà personale», e quindi la proprietà dei beni indispensabili per una vita «libera e dignitosa» (art. 36 Cost.), come la proprietà diretta coltivatrice e la proprietà della prima abitazione (art. 47 Cost.), la «grande proprietà privata» ha una tutela giuridica soltanto se e in quanto «assicuri» la «funzione sociale» e quindi l’«utilità sociale» della proprietà stessa. Affermazione, questa, che concorda pienamente con quella parte della dottrina 26, che ha posto in evidenza come il citato articolo 42 della Costituzione abbia modificato «il nucleo interno del diritto di proprietà», di modo che «la struttura stessa del diritto viene a esserne intaccata, e muta la natura di esso», mentre è da rilevare che «la funzione sociale si presenta come un elemento caratterizzante la situazione di proprietà, indipendentemente dall’esistenza attuale di un dato normativo in cui si concreti» 27.

E non è chi non veda come sia assolutamente da escludere che possa parlarsi di funzione sociale e di utilità sociale nei casi di chiusura e delocalizzazione di imprese a fini di maggior profitto e niente affatto giustificate da gravi difficoltà finanziarie. In questi casi, «i terreni e gli immobili abbandonati» dalle imprese che hanno chiuso o delocalizzato al solo fine di conseguire maggiori profitti, debbono intendersi (anche secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 838 del codice civile) «automaticamente privati della tutela giuridica» e rientrati, quindi, nella piena disponibilità del popolo, il quale, mediante i suoi enti esponenziali, dovrà di nuovo determinare la loro «destinazione economica».

Un illuminante precedente risalente al diritto romano è quello dell’ager desertus, che viene ricordato da due tarde costituzioni imperiali 28, secondo le quali «se un proprietario lascia incolto il suo fondo, e dopo una pubblica diffida dell’autorità locale non vi ritorna entro sei mesi, chiunque può immettersi nel possesso del terreno: e tale possesso si trasforma in proprietà, se entro i due anni il proprietario non rivendica»; in particolare, secondo quanto precisa la costituzione n. 11 contenuta nello stesso Codex Iustiniani Augusti, «la mancata presentazione dopo la diffida è in qualche modo considerata come rinuncia alla proprietà, e più ancora è caratteristico che in testi bizantini assai più tardi il regime della derelizione e quello dell’ager desertus sono considerati come tutt’uno» 29.

Il diritto romano (e poi quello bizantino), come si nota, considerava la questione sotto il profilo della proprietà privata. La nostra Costituzione, invece, pone in primo piano l’interesse sociale, ragion per cui non è necessario far riferimento a «diffide» o «termini», poiché è la stessa «tutela giuridica» che vien meno al momento dell’abbandono. Né, ovviamente, si dovrà dimostrare il venir meno dell’animus possidendi, poiché la disposizione costituzionale opera automaticamente e indipendentemente dall’effettiva volontà del proprietario. Ponendo in primo piano la «funzione sociale», il venir meno di questa produce, come si è ripetuto, il venir meno della tutela giuridica della proprietà privata e non occorre altro. L’unica cosa da dimostrare è l’effettività dell’abbandono per facta concludentia, per fatti concludenti.

E tutto questo è puntualmente confermato dall’articolo 41 della Costituzione, secondo il quale «l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana».

Dunque, la Costituzione dà «prevalenza giuridica» all’interesse sociale su quello individuale: assicura in «proprietà privata personale» al singolo quanto è indispensabile per la vita di ogni giorno, ma presidia la «distribuzione della ricchezza» fondata sul «principio di eguaglianza», prescrivendo che la grande proprietà privata deve servire a «scopi sociali», deve giovare a tutti, e non soltanto a un singolo individuo.

Entra in gioco, a questo punto, oltre al «principio di eguaglianza», insito nella valutazione dell’interesse generale, anche il principio della «partecipazione di tutti i cittadini» alla «organizzazione politica, economica e sociale del paese» (art. 3, comma 2, Cost.), partecipazione che è ribadita dall’articolo 118 della Costituzione, ultimo comma, secondo il quale lo Stato e gli altri enti territoriali «favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». Il che significa che, in pratica, i cittadini, singoli o associati, possono anche sostituirsi a una pubblica amministrazione che resti inerte, svolgendo, in sua vece, una vera e propria attività di carattere amministrativo. Funzione, quest’ultima, che la Costituzione non «riserva» solo a organi dello Stato, ovvero a enti pubblici territoriali.

Ed entra in gioco altresì il diritto collettivo fondamentale di ogni cittadino, anche questo fondato sulla «sovranità popolare», di «promuovere un’azione giudiziaria» nel caso in cui siano violati gli interessi generali della collettività. Infatti, come si è visto, il cittadino è «parte strutturale» del popolo e nulla impedisce che, come «parte del popolo» esso possa agire in giudizio a difesa di un interesse comune. Né occorre far riferimento al concetto di «rappresentanza», poiché chi agisce come «parte» a tutela di un interesse comune di «tutti», agisce, per necessità di cose, nell’interesse proprio e nello stesso tempo di tutti gli altri cittadini. Questo principio non è stato ancora generalizzato dalla legge, ma sono noti, nel nostro ordinamento, più casi di azioni popolari, come quelle riconosciute alle associazioni di consumatori o alle associazioni ambientaliste.

È quanto avveniva in diritto romano mediante le azioni popolari, attraverso le quali il singolo civis poteva agire come parte del populus.

Insomma, è fuori discussione che l’avvento della Costituzione repubblicana ha rotto lo spartiacque «pubblico-privato» e che anche il «collettivo», cioè l’azione dei singoli come «parti del tutto» ha ottenuto, per così dire, il suo diritto di «cittadinanza giuridica».

Di qui l’importanza di un’altra disposizione della nostra Costituzione, quella dell’articolo 43, secondo il quale sono mantenute, originariamente o mediante espropriazione, nella proprietà collettiva della nazione talune imprese che si riferiscano a «fonti di energia», o a «situazioni di monopolio», oppure a «servizi pubblici essenziali», affidandone la «gestione» non solo a enti pubblici, ma anche a «comunità di lavoratori o di utenti».

È quanto è accaduto per la prima volta, dopo la svolta tacheriana e reganiana, nel comune di Amburgo con un referendum del 25 settembre 2013, che ha detto sì a un ritorno totale delle reti elettriche a una «gestione pubblica» con una diretta «partecipazione dei cittadini». Molto interessante, in proposito, è il fatto che il professor Christian Janig, responsabile dell’azienda municipale Unna ed esperto di energie, abbia dichiarato, dopo anni di esperienza, che una gestione responsabile dal punto di vista ambientale «è impossibile con le società private», mentre la professoressa Claudia Kemfert, responsabile per l’economia dell’energia dell’Istituto tedesco per la ricerca economica, abbia aggiunto: «Chi ha le reti ha il potere». Si tratta di un convincimento, peraltro, che da noi fu proclamato già nel 1903, allorché il ministro Giovanni Giolitti, nel presentare la proposta di legge governativa sulla «municipalizzazione» dei servizi di illuminazione pubblica e di acquedotti, ebbe a precisare che la gestione privata di detti servizi aveva «prodotto conseguenze e fatti che non potevano tardare a imporsi all’attenzione generale», poiché «da una parte i comuni, preoccupati dai crescenti oneri finanziari, e nel tempo stesso degli interessi dei cittadini, insistevano e lottavano per conseguire riduzioni di prezzi e agevolezze che i concessionari erano restii ad accordare; e dall’altra si notava sempre più larghezza dei profitti che codesti servizi assicuravano agli esercenti, soprattutto alle imprese concessionarie dell’illuminazione gas e di acquedotti» 30.

La cementificazione

Nonostante la descritta tutela costituzionale del «territorio», molti sono stati i danni che i «proprietari privati» hanno inferto a questo bene appartenente alla collettività. E, senza scendere nei particolari, a noi sembra necessario indicare le tre forme di aggressione che maggiormente hanno inciso sulla tenuta del territorio stesso. Ci riferiamo: alla «cementificazione», alle «privatizzazioni» e «svendite», e alla causa principale di queste ultime, cioè alla «speculazione finanziaria».

Quanto alla «cementificazione» 31, è davanti agli occhi di tutti l’immenso, gravissimo danno da questa prodotta al territorio. Al riguardo non si può che rinviare agli interessantissimi studi di Salvatore Settis 32, il quale, ha esposto, con estrema lucidità e con acutissime osservazioni, la legislazione in tema di paesaggio e beni artistici e storici, nonché la relativa giurisprudenza costituzionale, offrendo, statistiche alla mano, un quadro completo di questo immane disastro.

Né può sfuggire il fatto evidentissimo che si sono costruiti migliaia e migliaia di appartamenti che non trovano acquirenti, e che, di conseguenza, hanno distrutto chilometri e chilometri quadrati di terreno agricolo per nulla, recando in tal modo un gravissimo danno alla collettività. Sembra evidente, peraltro, che le cause di questo disastro siano essenzialmente due: da un lato l’abusivismo edilizio e dall’altro la sovente collusione tra amministratori e costruttori, con il conseguente rilascio del cosiddetto permesso di costruire.

Dal punto di vista giuridico, si è da tempo tentato di porre un freno a questo tipo di speculazione, ma non si è riusciti a sradicare il diffuso convincimento che il cosiddetto ius aedificandi, che è alla base di tutti i mali, sia insito nel diritto di proprietà privata 33.

Alle lamentele per la distruzione dei terreni agricoli, del paesaggio 34, dei beni artistici e storici, non si è opposto l’esistenza, costituzionalmente convalidata, di un prevalente «diritto di proprietà o superproprietà» del popolo sul «territorio», e si è dato sempre maggior rilievo, specie in giurisprudenza, alla tutela del diritto di proprietà privata 35. Una vera sciagura, poiché non si è «opposto» al «diritto di un singolo, che ha per fondamento la legge», «il diritto inviolabile di tutti, che ha per fondamento la sovranità», ma si è ritenuto che esistesse soltanto un diritto individuale in molti casi «sacrificato» all’interesse pubblico.

Occorre invece far capire che la tutela del paesaggio, dei beni culturali eccetera non costituisce assolutamente un «limite» alla proprietà privata, ma è espressione di una «tutela diretta» da parte dell’ordinamento giuridico di beni che «appartengono» al popolo a titolo di sovranità, mentre è invece la «proprietà privata», che costituisce un limite al diritto di proprietà collettiva del popolo sul territorio, secondo la dinamica giuridica che si è poco sopra chiarita. Insomma, non è la collettività che toglie qualcosa ai singoli, ma è la proprietà privata che sottrae alla proprietà e all’uso comune di tutti rilevantissime parti del territorio.

Ne consegue che lo ius aedificandi incidendo sul «territorio», e cioè su un bene di primaria importanza che appartiene a «tutti» e a ogni singolo «come parte del tutto», non può più essere considerato «insito» nel diritto di proprietà privata individuale di cittadini considerati uti singuli, poiché in base agli articoli 41 e 42 della vigente Costituzione repubblicana, in base cioè a «norme imperative di ordine pubblico economico», la «proprietà privata individuale» deve assicurare la «funzione sociale» e non può essere in contrasto con l’utilità sociale o arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. «Funzione sociale» e «utilità sociale», che certamente non si perseguono con la distruzione del paesaggio o del patrimonio storico e artistico della nazione.

Dunque, si deve necessariamente ritenere che la Costituzione impone una «riconduzione» dello ius aedificandi, dal privato alla collettività, «scorporandolo» dal diritto di «proprietà privata» e «inserendolo» nella «proprietà collettiva» di tutti, e cioè nella «proprietà del popolo».

Alla luce della «scoperta» e dell’«attuazione» delle citate disposizioni costituzionali, si rinverdisce e assume un maggior vigore la legge 10 del 1977, la cosiddetta legge Bucalossi, che aveva considerato lo ius aedificandi come un «potere» della pubblica amministrazione e non come una «facoltà insita nel diritto di proprietà privata», sicché non si era più parlato di «licenza edilizia», ma di «concessione edilizia».

La sentenza della Corte costituzionale 5 del 1980, che aveva invece concepito il diritto a edificare come «insito» nel diritto di proprietà, facendo sì che il decreto presidenziale 380 del 6 giugno 2001 introducesse la dizione «permesso di costruire», richiede, nel nuovo quadro che si è tentato di tracciare una profonda revisione. Sembra infatti innegabile che la stessa nozione di «Stato comunità», detto anche «Stato sociale di diritto», introdotto dalla nostra Costituzione, impedisca in radice la possibilità del singolo di distruggere la «morfologia» (e spesso anche più della semplice morfologia) di un elemento costitutivo dello Stato, in appartenenza collettiva del popolo sovrano, e cioè il bene «territorio». Si ripete: è tempo di affermare con forza che la «proprietà o la superproprietà collettiva» del territorio «precede storicamente» e «prevale giuridicamente» sulla proprietà privata.

Questo fondamentale concetto dovrebbe essere ribadito nelle recenti proposte di legge per la tutela dei «terreni agricoli». Se non si afferma, seguendo le citate disposizioni costituzionali, che il «territorio è, originariamente, proprietà collettiva di tutti» e che soltanto la volontà del popolo, che si esprime mediante la legge, può limitare questa proprietà a favore di singoli proprietari, si continuerà a parlare di ius aedificandi come diritto soggettivo dei singoli, oppure come un «singolare potere» degli amministratori comunali, che si traduce nella pratica di tutti i giorni in una «merce di scambio», una sorta di «moneta sonante», offerta da loro stessi ai costruttori.

Le privatizzazioni e le svendite

Il più micidiale attacco contro il territorio e la sua appartenenza al popolo è venuto, poi, dalle cosiddette privatizzazioni, e, in parole povere, dalla «svendita» dei beni appartenenti alla collettività, al solo fine di fare cassa.

Ha cominciato il decreto legislativo 351 del 25 settembre 2001, convertito nella legge 410 del 23 novembre 2001 («Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare»), il quale ha previsto che con decreti del ministro dell’Economia, oltre a istituire una società di gestione, si provveda alla «cartolarizzazione» dei proventi derivanti dalla «dismissione» del patrimonio immobiliare dello Stato e degli altri enti pubblici non territoriali (artt. 1 e 2), precisando, all’articolo 3, comma 1, che «l’inclusione nei decreti produce il passaggio dei beni al patrimonio disponibile».

Fortemente lesiva degli interessi della generalità dei cittadini è stata poi la legge 112 del 15 giugno 2002 («Disposizioni in materia di […] cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture»), la quale ha istituito la Patrimonio Stato S.p.A., poi soppressa con la legge 266 del 23 dicembre 2005, con il conseguente trasferimento delle sue funzioni alla Cassa depositi e prestiti, sancendo la «cartolarizzazione» dei proventi derivanti dalle alienazioni degli immobili facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile dello Stato, o facenti parte del demanio. Insomma, pur di far cassa, vendendo i beni appartenenti a tutti i cittadini, non si è avuta nessuna remora a trasformarli, addirittura, in titoli di credito, soggetti alle variazioni di Borsa.

La successiva legge 133 del 6 agosto 2008 («Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria») ha disposto, poi, la ricognizione e valorizzazione dei patrimoni immobiliari di regioni, comuni e altri enti locali, al fine della «redazione del piano delle alienazioni» (art. 1), precisando, all’articolo 2, che «l’inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica», mentre «la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del piano costituisce variante dello strumento urbanistico generale».

Un campo, poi, nel quale, sempre per compiacere le convinzioni mercantiliste dell’Unione Europea, si è molto fatto ricorso alle «privatizzazioni» è stato quello dei «servizi pubblici locali», per i quali l’articolo 23 bis della legge 133 del 6 agosto 2008 ha addirittura imposto l’affidamento e la gestione a privati dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, mediante l’esperimento di gare a evidenza pubblica. Questa norma, come sopra si è detto, relativamente ai servizi idrici è stata clamorosamente abrogata dal referendum del giugno 2011, al quale hanno partecipato 27 milioni di italiani; sennonché, caparbiamente, il governo italiano ha praticamente richiamato in vita quella parte dell’articolo 23 bis, abrogato dal referendum, con l’articolo 4 del decreto legge del 13 agosto 2011, convertito nella legge 148 del 14 settembre 2011, n. 148, che, tuttavia, la Corte costituzionale ha illuminatamente abrogato con la storica sentenza 199 del 2012, chiarendo che la volontà popolare, espressa con referendum ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione, non può assolutamente essere posta nel nulla con un provvedimento di carattere legislativo. Per quanto riguarda i servizi idrici, dunque, la situazione è stata riportata alla normalità, ma restano in piedi, naturalmente, tutti gli altri servizi affidati e gestiti da privati.

Il più inaccettabile dei provvedimenti relativi alle privatizzazioni è stato, comunque, il decreto legislativo 85 del 28 maggio 2010, istitutivo, in esecuzione dell’articolo 19 della legge 42 del 5 maggio 2009, del cosiddetto federalismo demaniale. Questo provvedimento, confermato da alcune successive modifiche, ha previsto la regionalizzazione del demanio idrico, marittimo e minerario, e la loro successiva vendita a privati, precisando che possono essere venduti anche beni artistici e storici 36, purché i relativi atti di alienazione siano approvati dal ministero dei Beni culturali e ambientali.

Dunque, i beni dello Stato e degli altri enti territoriali, anche se facenti parte del «patrimonio indisponibile» o, addirittura, del «demanio», possono essere agevolmente venduti a privati, al solo fine di far cassa. Ed è questo un colpo mortale contro la «proprietà collettiva del territorio».

Si tratta, comunque, di provvedimenti che sono da ritenere in massima parte costituzionalmente illegittimi.

Infatti, detti provvedimenti, tra l’altro, alienano a privati dei beni di altissimo valore, che, per un verso, sono «beni demaniali», e quindi «inalienabili» per definizione e, per altro verso, sono comunque in «proprietà collettiva» di tutti, come, ad esempio i «beni paesaggistici» e i «beni artistici e storici». Lo hanno chiarito le sezioni unite della Corte di Cassazione, le quali, con le sentenze 3811 e 3813 del 16 febbraio 2011, precedute in talune affermazioni dalla sentenza 3665 del 14 febbraio 2011, tutte riguardanti le valli di pesca della laguna veneta, hanno implicitamente riconosciuto l’esistenza nel nostro ordinamento dell’istituto della «proprietà collettiva», affermando che l’articolo 42 della Costituzione «pur essendo centrato prevalentemente sulla proprietà privata, esordisce con la significativa affermazione secondo cui la proprietà è pubblica e privata, il che costituisce un implicito riconoscimento di una diversità di fondo tra i due tipi di proprietà», concludendo che «più che allo Stato-apparato, quale persona giuridica pubblica individualmente intesa, debba farsi riferimento allo Stato-comunità, quale ente esponenziale e rappresentativo degli interessi della cittadinanza (collettività)». Il riferimento esplicito è al «paesaggio», ma, ovviamente, lo stesso discorso vale anche per i «beni artistici e storici», che l’articolo 9 della Costituzione tutela come «patrimonio della nazione».

Tuttavia, anche per i beni puramente economici, definiti beni in commercio, si può e si deve parlare di illegittimità. Infatti le alienazioni di tali beni impoveriscono la «proprietà collettiva» del popolo, poiché sottraggono questi beni medesimi al soddisfacimento di interessi pubblici e generali, per «destinarli» al soddisfacimento «pieno ed esclusivo» di interessi privati di singoli soggetti, trasformando così la «proprietà di tutti» in «proprietà individuale privata». Se si parla di caserme, di immobili abbandonati o privi di pregio, perché non si pensa a una loro utilizzazione come sedi di uffici pubblici, per l’affitto dei quali si spendono cifre astronomiche, o per fini sociali rilevanti, per i quali non ci sono sedi adatte, o, infine, per creare nuove carceri, delle quali c’è tanto bisogno? E, se si tratta di «terreni abbandonati», perché non si pensa a cooperative di giovani che possono trarre un reddito con la loro coltivazione? Anziché «svendere», perché non si riutilizza il patrimonio immobiliare, ricavando enormi risparmi? I risparmi sono «ingenti somme di danaro», certo non confrontabili con le «mediocri entrate» che si realizzano con le «svendite». Se è così, e non si vede come lo si possa negare, anche le svendite di immobili aventi solo un valore economico costituiscono un «grave danno» per la collettività e violano il diritto di tutti al benessere economico della nazione.

Insomma, il problema è sempre lo stesso: occorre aumentare e non ridurre la «proprietà collettiva» a favore della «proprietà privata».

La speculazione finanziaria e le prescrizioni della trojka

Il nemico più subdolo e pericoloso è, tuttavia, la «speculazione finanziaria», la quale colpisce non solo il territorio, ma la comunità politica nelle sue due maggiori componenti: il «popolo» e il «territorio».

Infatti, la speculazione, per perseguire maggiori guadagni, anziché investire in attività produttive, investe nell’acquisto di «debiti», lucrando il massimo di interessi. In tal maniera, assorbe «liquidità», impedisce alle banche di finanziare le imprese, produce la chiusura o la delocalizzazione di queste, dando luogo a «disoccupazione», «recessione» e «miseria».

La prima vittima è, dunque, il «popolo». Ma segue subito il «territorio», poiché i paesi sotto attacco, messi alle strette, e obbligati a «far cassa», sono costretti a «svendere» il proprio territorio al migliore offerente.

L’ignobile sistema seguito dagli speculatori finanziari si fonda sulla «finanziarizzazione dei mercati», sulla trasformazione del «mercato reale» in un mercato in gran parte «fittizio», nel quale si scambiano prevalentemente «titoli commerciali» (la «debt economy»), che hanno come «valori sottostanti» «crediti non garantiti», i quali non sono rappresentati nemmeno da «pezzi di carta», ma da semplici annotazioni su un computer.

Diverse sono le modalità che gli speculatori utilizzano per la creazione di questi cosiddetti titoli commerciali. Si ricorre, di solito, alle «cartolarizzazioni», che consistono nel conferire ai crediti dei clienti, e alle loro attività rischiose e illiquide, il valore di «titoli commerciali», scambiabili sul mercato; oppure, per ottenere maggiori ricavi, si fa ricorso ai cosiddetti derivati, titoli commerciali molto complessi fondati su crediti non garantiti, e quindi «tossici»; infine si fa ricorso a un’altra invenzione, quella dei «derivati dal credito», che chiamano in ballo il concetto di «assicurazione del credito», ma sono anch’essi fondati su crediti non garantiti, e addirittura su «scommesse» relative a corse di cavalli o eventi atmosferici, e, quindi, sono ancor più tossici 37.

Ma, oltre a «trasformare» i «debiti» in «diritti di credito», oltre a mettere in circolazione «crediti non garantiti», che provocano fallimenti e disastri, gli speculatori finanziari, nella loro irrefrenabile corsa al guadagno facile, a partire dal novembre del 2011, hanno attaccato persino i «debiti sovrani» degli Stati e, in tal modo, hanno reso precaria la stessa vita dei popoli e delle nazioni. Infatti, l’attacco ai debiti sovrani rende instabili i tassi di interesse sul debito pubblico, i quali, secondo l’arbitrio degli speculatori stessi, possono aumentare senza limiti fino al default del paese sotto attacco. Non si dimentichi, infatti, che l’aumento o la diminuzione dei tassi di interesse sul mercato secondario, sul quale agiscono gli speculatori, si riflette, nello spazio di tre o sei mesi, anche sul mercato primario, e cioè sulle emissioni da parte dello Stato, il quale si vede costretto ad aumentare gli interessi dei titoli posti in vendita, proseguendo così sulla strada già tracciata dagli speculatori.

In sostanza, la stabilità economica di un paese è sfuggita di mano ai politici e agli amministratori ed è passata nelle mani degli speculatori finanziari, i quali non hanno nessuno scrupolo nella loro opera di «destabilizzazione economica e finanziaria», poiché il loro fine è solo quello di perseguire maggiori profitti. Insomma nonostante si tratti di attività del tutto illecite, l’inerzia dei governi, o addirittura la loro acquiescenza, ha fatto sì che la «sovranità monetaria» passasse dalle mani degli Stati alle mani degli speculatori finanziari.

Massimo Luciani, con espressione lucida e immaginifica, ha parlato di un «antisovrano», e cioè di «un quid che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi tradizionalmente conosciuto: non è un soggetto (ma semmai una pluralità di soggetti); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma immanente (gli interessi dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzate su base timocratica). […] L’antisovrano si arroga un potere senza averne il legittimo titolo […] è detentore di un potere che aspira a essere universale, ed è l’agente che determina la crisi del mondo come l’abbiamo fino ad oggi conosciuto. Un antisovrano, dunque, dal punto di vista concettuale, ma inevitabilmente anche dal punto di vista pratico, perché l’affermazione del suo potere presuppone proprio che l’antico sovrano nazionale sia annichilito» 38.

Non può sfuggire a questo punto che, attaccando i debiti sovrani, si attacca anche la ricchezza propria di un paese, e in ultima analisi il valore di scambio delle monete, la cui stabilità è stata sempre garantita da accordi internazionali, a cominciare da quello di Bretton Woods (1943) in poi, e che in tal maniera gli speculatori finanziari hanno posto in essere un’azione profondamente illecita. Si può anzi parlare di un’azione addirittura proditoria, poiché gli speculatori non hanno affatto tenuto presente la reale situazione economica dei paesi che sono stati attaccati e hanno così prodotto chiusure di imprese, licenziamenti, recessione, povertà assoluta.

Una grande responsabilità è da ascrivere, a questo proposito, alla cosiddetta trojka (e cioè al Fondo monetario internazionale, alla Banca centrale europea, dominata dalla Banca centrale tedesca, e alla Commissione europea), la quale con le sue ben note «prescrizioni», ha imposto una politica di austerity che, anziché far diminuire il debito pubblico, lo ha fatto aumentare, poiché ha provocato disoccupazione e recessione.

L’assurdo è che con questo tipo di politica e con i rating delle agenzie, sono state distrutte tutte le possibilità di ripresa, poiché a ogni piccolo «cedimento» sul piano economico, anziché ricorrere, come sarebbe necessario, a un aiuto a favore di chi si trova in una situazione di disagio, si procede con un ulteriore aumento dei tassi di interesse, gettando nell’abisso il paese in difficoltà.

Per quanto riguarda l’Italia, è poi da sottolineare che l’attacco al debito sovrano è stato del tutto ingiustificato, poiché l’Italia ha sempre onorato i suoi debiti e non si capisce come, d’improvviso, nel novembre del 2011, sia diventato rilevante per gli investitori «l’ammontare» del suo debito pubblico, unitamente a quello di alcuni altri paesi dell’Europa del Sud, visto che, ad esempio, il debito pubblico del Giappone, che è maggiore del nostro, non ha subìto alcuna variazione dei tassi di interesse.

E si deve ancora ricordare che la stabilità dei tassi del debito pubblico, come la stabilità delle merci ad alto consumo, ha, in Italia, addirittura una tutela penale (vedi articolo 501 del codice penale, relativo al reato di aggiotaggio), per cui non si vede per quale ragione il nostro legislatore, come i legislatori di molti altri paesi, è rimasto inerte, sia di fronte alle incomprensibili «statuizioni delle agenzie di rating», sia di fronte agli ingiustificati «giudizi di mercato» e ai conseguenti cosiddetti spread.

Ingiustificato è, in particolare, questo «differenziale» tra i titoli di debito pubblico italiano e quelli tedeschi, che pone in gravissime difficoltà le imprese italiane.

Il danno maggiore, per noi, è che la Germania ha assunto in Europa una «posizione dominante», che annienta il concetto stesso di «concorrenza», tanto tenuto in conto nei trattati europei, e che impedisce agli imprenditori italiani, come si accennava, di competere con i loro colleghi tedeschi.

A questo punto, c’è da chiedersi se davvero è conveniente per l’Italia restare nell’euro. E sembrano senz’altro da condividere le parole di Vladimiro Giacché, secondo il quale «l’euro è nato come una sorta di scambio tra la perdita dell’autonomia valutaria e bassi tassi di interessi. Oggi l’incapacità dell’establishment europeo di affrontare il problema del debito in modo serio, cioè in modo diverso da politiche economiche depressive che peggiorano il problema anziché risolverlo, sta spingendo un sempre maggior numero di paesi in un vicolo cieco: precisamente quello costituito da tassi di interesse sul proprio debito pubblico, e quindi anche su quello privato, talmente elevati da non riuscire più a controbilanciare gli effetti negativi della perdita della sovranità monetaria. In condizioni come queste, l’uscita dall’euro potrebbe presto essere considerata come la vecchiaia per Maurice Chevalier: una gran brutta cosa, ma sempre migliore della sua alternativa» 39.

Ad ogni modo, quello che è certo è che l’azione degli speculatori finanziari, le prescrizioni della trojka, la situazione dominante della Germania contrastano pienamente con il principio della «coesione economica e sociale» affermato dai trattati sulla Comunità e sull’Unione europea. Sicché non si esce dal dilemma: o cambia la posizione dei cosiddetti timonieri 40 dell’Europa, oppure non ci resta che uscire dall’euro. Ci sarà certamente un aumento del «protezionismo» e della «svalutazione», ma potremo finalmente riacquistare la nostra «sovranità monetaria» e seguire altre politiche che ci portino fuori della gabbia nella quale siamo stati chiusi. Si potrà inoltre, e non è cosa da poco conto, intrattenere rapporti commerciali più intensi con popoli a noi più vicini per cultura e tradizione, o con gli stessi paesi emergenti del Brics.

Cosa fare?

Se si vuole poi stabilire cosa bisogna fare sul piano pratico, occorre innanzitutto porre in evidenza che il nostro paese è stato colpito nei due elementi fondamentali che costituiscono la comunità politica italiana: il «territorio» e il «popolo».

E si tratta, questo è un dato da sottolineare con forza, di «due elementi costitutivi della comunità politica», che sono anche i «due fattori produttivi della ricchezza», e cioè, come da sempre è stato riconosciuto, le «risorse della terra» e il «lavoro dell’uomo» 41.

Quanto alle «risorse della terra», e dopo quanto si è detto nelle pagine precedenti, sembra che non ci sia da fare altro se non applicare la Costituzione e in particolare gli artt. 41, 42 e 43, riequilibrando, come si è ripetuto, il rapporto tra proprietà privata e proprietà collettiva.

E applicare la Costituzione significa «riscrivere» tutte le norme civili e penali che riguardano la «proprietà privata», con tutte le conseguenze che ne derivano, ad esempio in ordine alla «imprescrittibilità» del diritto di proprietà, ovvero al ritorno automatico nella proprietà collettiva dei «terreni abbandonati», dei quali si occupa l’articolo 838 del codice civile.

Inoltre, nell’immediato, è improcrastinabile un’«interpretazione costituzionalmente orientata» delle vigenti norme sulla proprietà, da parte dei giudici. Siamo andati avanti per lunghi anni senza tenere in alcun conto le citate disposizioni di ordine pubblico economico contenute negli articoli 41 e 42 della Costituzione. La crisi pesantissima che stiamo attraversando dovrebbe farci aprire gli occhi e farci capire che la salvezza del nostro paese non si raggiunge «privatizzando», soddisfacendo cioè gli interessi di pochi soggetti, ma «riconducendo» le risorse del nostro territorio nella «disponibilità collettiva», per soddisfare gli interessi primari di tutti i cittadini.

Riappropriamoci, dunque, della nostra terra e rendiamola, come è, «fattore di ricchezza».

Per quanto in particolare riguarda il «lavoro», si è visto che il nemico maggiore è la speculazione finanziaria.

Il problema, come si è detto, può risolversi soltanto sul piano europeo o internazionale. Intanto, è possibile ricorrere ad alcuni correttivi.

Si potrebbe cominciare a disincentivare le speculazioni, ad esempio, separando le banche ordinarie e la Cassa depositi e prestiti, dalle banche di investimento, pubblicando mensilmente da parte di un’authority un bollettino nel quale appaia il reale spread, depurato dal maggior valore impostogli dalla speculazione e così via dicendo.

E inoltre, se proprio si preferisce non uscire dall’euro, almeno si chieda all’Europa un paio di anni di «sospensione» dai nostri obblighi e, in questo periodo, rilanciamo effettivamente l’economia, non con azioni di governo del tutto insignificanti che lasciano tutto nello stato in cui si trova.

Come diceva Keynes (che per la tesi detta del pump priming è ancora ritenuto valido, mentre lo si rifiuta per la politica del deficit spending sistematico), in una situazione di grave recessione è indispensabile il ricorso allo Stato. È cioè assolutamente necessario fare una grande opera pubblica, ad esempio il ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico d’Italia, in modo da impiegare il maggior numero possibile di operai, i quali, aumentando i consumi, possano far girare di nuovo la ruota dell’economia reale.

Questa è la medicina. Se continuiamo per la strada sulla quale ci ha gettato la speculazione finanziaria non avremo nessuna possibilità di uscita.

NOTE

1 P. Calamandrei, «Cenni introduttivi alla Costituzione e i suoi lavori», in Commentario Calamandrei-Levi, I, XXXV, e anche in P. Calamandrei, Scritti e discorsi politici, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 461. 2 S. Rodotà, in una recente riedizione del suo antico e famoso volume, Il terribile diritto, il Mulino, Bologna 2013, p. 469, precisa che i beni comuni «sono, anzitutto, quelli essenziali per la sopravvivenza (l’acqua, il cibo) e per garantire eguaglianza e libero sviluppo della personalità (la conoscenza)». 3 Vedi U. Mattei, E. Reviglio e S. Rodotà, Invertire la rotta, il Mulino, Bologna 2007; gli «Atti di una giornata di studi presso l’Accademia dei Lincei», pubblicati nel volume I beni pubblici: dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Accademia dei Lincei, Roma 2010; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, Ombre corte, Verona 2012. Si veda anche A. Lucarelli, «Proprietà pubblica, principi costituzionali e tutela dei diritti», in I beni pubblici, cit., nonché, Beni comuni dalla teoria all’azione politica, Dissensi, Viareggio 2011, nei quali, si avverte l’esigenza di ancorarsi a un tipo di appartenenza che non sia né pubblica né privata, ma comune. 4 C. Iannello, Il diritto all’acqua, La Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2012, pp. 37 ss. Sono da ricordare, al riguardo, i Movimenti per la giustizia ambientale. Vedi G. De Marzo, Anatomia di una rivoluzione, Castelvecchi, Roma 2012. 5 A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Roma-Bari 2013. 6 M. Bretone, Storia del diritto romano, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 349. 7 C. Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, pp. 19 ss. 8 S. Rodotà, op.cit., p. 464. 9 U. Vincenti, Diritto senza identità, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 3 ss. 10 P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Giappichelli, Torino 1974. 11 A. Guarino, Storia del diritto romano, Jovene, Napoli 1969, p. 123. 12 B.G. Niebuhr, Romische Geschichte, Reimer, Berlin 1811, vol. I, pp. 245 ss. 13 P. Grossi, Un altro modo di possedere, Giuffrè editore, Milano 1977. 14 C. Cattaneo, «Su la bonificazione del Piano di Magadino a nome della Società promotrice. Primo rapporto», in Scritti economici, a cura di A. Bertolino, Firenze 1956, III, pp. 187 ss. 15 V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Cedam, Padova 1983. 16 Gai Institutiones, II, 1. 17 P. Maddalena, «I beni comuni nel diritto romano», www.federalismi.it, ed. in Studia et documenta historiae et iuris, ottobre 2013. 18 Corte costituzionale, sentenze n. 105, del 2008; n. 1, del 2010; n. 112, del 2011. 19 N. Capone, «Cultura e libertà nel dibattito all’Assemblea costituente», in Libertà di ricerca e organizzazione della cultura. Crisi dell’università e funzione storica delle accademie, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli, 2013. 20 V. Cerulli Irelli parla di «spazi di libertà», in voce «Uso pubblico», cit. p. 967. 21 S. Rodotà, op. cit., pp. 19 ss. 22Ivi, pp. 21 s. 23 Vedi al riguardo l’interessantissimo lavoro di M. Esposito, I beni pubblici, Giappichelli, Torino 2008, pp. 70 ss. 24 S. Rodotà, «L’interpretazione della Corte costituzionale: la sentenza n. 55», in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Rapporti economici, tomo II, Zanichelli, Bologna 1982, pp. 121 ss. 25 M.S. Giannini, «Basi costituzionali della proprietà privata», Politica del diritto, 1971, p. 482. 26 S. Pugliatti, La proprietà nel nuovo diritto, Giuffrè, Milano 1964, p. 281. 27 S. Rodotà, op.cit., p. 254. 28 Codex Iustiniani Augusti, 11, 58, 8 e 11. 29 V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Jovene, Napoli 1952, p. 190. 30 C. Iannello, Il diritto all’acqua, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2012, p. 63. 31 La legislazione sulla tutela del paesaggio, una delle migliori al mondo, non è riuscita ad aver la meglio sull’azione perniciosa della sua devastazione. Sulla tutela del paesaggio, vedi l’organico e completo lavoro di G. Severini, «La tutela costituzionale del paesaggio», www.giustizia-amministrativa.it, 2005. 32 S. Settis, Paesaggio costituzione cemento, Einaudi, Torino 2010; Id., Azione popolare, Einaudi, Torino 2012. 33 Sull’argomento, S. Settis, Paesaggio… cit., pp. 6 ss. 34 Sul tema del paesaggio, vedi G. Severini, op. cit.35 S. Settis, Azione popolare, cit., pp. 46 ss., giustamente parla di un dovere dell’uomo ad agire per l’ambiente. 36 Sulla privatizzazione dei beni culturali pubblici, vedi l’ottimo saggio di S. Mabellini, La «valorizzazione» come limite costituzionale alla dismissione dei beni culturali pubblici e come «funzione» della proprietà pubblica del patrimonio storico artistico, DeS-Editoriale scientifica, 2012, pp. 203 ss. 37 Su questi argomenti, vedi L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009, pp. 93 ss. 38 M. Luciani, «L’antisovrano e la crisi delle Costituzioni», in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, Cedam, Padova 1998, vol. II, pp. 780 ss. 39 V. Giacché, Titanic Europa, Aliberti, Roma 2012, p. 137. 40Ivi, p. 138. 41 Sull’importanza del lavoro, G. Zagrebelsky, Fondata sul lavoro, Einaudi, Torino 2013.

(27 marzo 2014)