lunedì 8 dicembre 2014

Salvador, giustizia non è fatta

Il 4 dicembre 1980 quattro suore statunitensi che si occupavano dei poveri in Salvador furono brutalmente uccise dagli squadroni della morte. Il caso indignò l’opinione pubblica americana e contribuì a far luce sul coinvolgimento degli Stati Uniti nel paese centroamericano e sui metodi dei militari salvadoregni. Trentaquattro anni dopo la strage continua a far discutere e si dimostra una vera storia americana. A seguire, il link alla video-inchiesta del New York Times rilanciata in Italia da Internazionale.




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There's a sunny little country south of Mexico
Where the winds are gentle and the waters flow.
But breezes aren't the only thing that blow
In El Salvador.

If you took the little lady on a moonlight drive
Odds are still good you'd come back alive.
But everyone is innocent until they arrive
In El Salvador.

If the rebels take a bus on the Grand Highway,
The government destroys a village miles away.
The man on the radio says now we'll play
"South of the Border"....
And in the morning the natives say,
"We're happy you have lived another day."
Last night a thousand more passed away
In El Salvador.

La, la, la, la....

There's a television crew here from ABC
Filming Rio Lempo and the refugees.
Calling murdered children the tragedy
Of El Salvador.

Before the government camera twenty feet away
Another man is asking for continued aid:
Food, and mediciine, and hand grenades
For El Salvador.

There's a thump, a rumble, and the buildings sway
A soldier fires the acid spray
The public address system starts to play
"South of the Border"....
You run for cover, and hide your eyes
You hear the screams from paradise
They've fallen further than you realize
In El Salvador.

Just like Poland is protected by her Russian friends,
The Junta is assisted by Americans.
And if sixty million dollars seems too much to spend
In El Salvador.

They say for, half-a-billion they can do it right.
Bomb all day, and burn all night.
Until there's not a living thing upright
In EI Salvador.

They'll continue training troops in the U.S.A
And watch the nuns that got away
And teach their military bands to play
"South of the Border"...
And kill the people to set them free
Who put this price on their liberty
Don't you think it's time to leave
El Salvador?

Lyrics by Noel Paul Stookey and Jim Wallis
Music by Noel Paul Stookey 

I trattati T-TIP e TISA



“VIDI UNA BESTIA SALIRE DAL MARE…”

E’ con queste parole che il profeta dell’Apocalisse descrive l’Impero Romano alla fine del primo secolo. Le stesse parole le userei per le nuove bestie che appaiono all’orizzonte: il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti, nell’acronimo inglese T-TIP e l’Accordo per il Commercio dei servizi, nell’acronimo inglese TISA. Due trattati pericolosissimi, purtroppo poco conosciuti dal grande pubblico, perché porteranno alla privatizzazione dei servizi.

 Il T-TIP creerà la più grande area mondiale di libero scambio fra le economie degli USA e della UE, che rappresentano metà del PIL mondiale e il 45% dei flussi commerciali. Le trattative per creare il T-TIP sono partite in tutta segretezza nel luglio 2013 a Washington e sono condotte da pochi esperti della Commissione Europea e del Ministero del Commercio USA. Obama vuole firmare il Trattato entro il 2015.
“Il Trattato più importante del mondo” , proclama il Sole 24 ore. Lo è infatti per i poteri economico-finanziari mondiali. Secondo De Gucht, commissario per il commercio UE, il Trattato offrirà all’Europa due milioni di posti di lavoro in più, 119 miliardi di euro di PIL che equivale a 545 euro in più all’anno per ogni famiglia. Per di più, ci sarà un incremento del 28% delle vendite di prodotti europei negli USA e dell’1% del PIL, nel giro di dieci anni. La realtà,invece , è tutt’altra! Il T-TIP è un negoziato stipulato senza la partecipazione dei cittadini. E’ un vero e proprio golpe da parte dei poteri economico-finanziari che governano il pianeta. E’ la vittoria delle lobby(multinazionali e banche), che hanno a Bruxelles quindicimila agenti e tredicimila a Washington, stipendiati a fare pressione sulle istituzioni.
Infatti il Trattato indebolisce il principio di precauzione vigente in Europa in relazione ai nuovi prodotti, elimina le sanzioni in caso di abusi relativi ai diritti sociali e ambientali, mira a una progressiva privatizzazione  di tutti i servizi pubblici , a sottomettere gli Stati a una nuova legislazione a misura di multinazionali ed infine trasferisce la risoluzione delle controversie tra imprese private e poteri pubblici a strutture di arbitrato privato tramite il cosidetto ISDS(Individual State Dispute Settlement) .”Questa è una rivoluzione nelle procedure usate per risolvere i contenziosi tra privati e Stati”, dichiara Marcello de Cecco su La Repubblica , un quotidiano che spesso sulle sue pagine inneggia al Trattato. E continua:” E’ un’innovazione giuridica che serve a limitare drasticamente la sovranità degli stati , favorendo le grandi multinazionali.”
Il Trattato inoltre avrà pesanti ricadute sul mondo del lavoro aggirando le norme del diritto dei lavoratori proclamato dall’ILO, svuotando le normative per la protezione dei lavoratori, ma anche ridimensionando il diritto di contrattazione collettivo.
Quest’area di libero scambio USA -UE, creata dal T-TIP, sarà protetta dalla NATO , che peraltro già investe 1.000 miliardi di dollari all’anno in armi!

L’altra Bestia, ancora più minacciosa della prima, è il TISA (Trade in Services Agreement)- Accordo per il Commercio dei servizi. Il settore dei servizi è il più grande per posti di lavoro nel mondo e produce il 70% del prodotto interno lordo: solo negli USA rappresenta il 75% dell’economia e genera l’80% dei posti di lavoro nel settore privato . Su questo ghiotto bottino, i rappresentanti di una cinquantina di Stati (UE, USA, Canada,Australia, Giappone…) si stanno ritrovando in totale segretezza nell’ambasciata australiana a Ginevra, dal 15 febbraio 2012 per un accordo sul “commercio dei servizi”(sic!). Si è venuti a conoscenza di questo grazie  a Wikileaks. I testi dell’accordo rimangono segreti. Scopo fondamentale di questo accordo è accelerare la privatizzazione di tutti i servizi pubblici e impedire qualsiasi forma di riappropriazione pubblica di un’attività privatizzata(sic!). Il TISA impedirebbe i monopoli pubblici (educazione nazionale) e i fornitori esclusivi di servizi anche a livello regionale e locale (per esempio le minicipalizzate per i servizi idrici).
Tutto questo avviene nel più totale silenzio, anzi con l’impegno degli stati a non rivelare nulla di questa trattativa fino a cinque anni dopo la sua approvazione. Anche con il TISA, i governi vorrebbero concludere le trattative entro il 2015.
Come cittadini non possiamo accettare l’arrivo di queste Bestie che consegneranno l’Europa e il mondo alle logiche del mercato. “E’ l’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria”, che Papa Francesco bolla con tanta forza. Solo una vasta protesta di massa in tutta Europa potrà sgominare il T-TIP e il TISA. Nel 1998 noi europei siamo riusciti a sconfiggere il MAI (Accordo multilaterale sugli Investimenti), che è quasi la copia del T-TIP. Abbiamo vinto dicendo MAI al MAI! Possiamo fare altrettanto con il T-TIP e il TISA.
Già è in atto una mobilitazione in Italia fatta da un network di un centinaio fra associazioni di consumatori, sindacati e reti agricole con un sito molto informato. (www.stop-ttip-italia.net)
I capi di Stato europei sono già preoccupati per la crescente ostilità contro questi Accordi. Ne hanno parlato  al vertice del G20 a Brisbane(Australia). E il più convinto sostenitore di questi trattati l’abbiamo in casa. Il governo Renzi.
Carlo Calenda, vice-ministro per lo sviluppo economico nel governo Renzi e responsabile dell’Italia per il T-TIP, insiste perfino di includere nel Trattato il controverso meccanismo di risoluzione tra investitori e Stato, il cosidetto ISDS, fortemente voluto dagli USA.
“Il T-TIP- afferma la Susan George-è un assalto alla democrazia, alla classe lavoratrice, all’ambiente, alla salute e al benessere della cittadinanza. L’unica risposta possibile dinanzi a questo attacco è alzarsi dal tavolo, chiudere la porta e lasciare la sedia vuota.”E’ questo quello che chiediamo al governo Renzi.
Mentre  alla Conferenza Episcopale Italiana(CEI) chiediamo di esprimersi su questi Trattati. La commissione degli episcopati della comunità Europea (COMECE)  ha sottolineato che il T-TIP “solleva una serie di problemi e controversie proprio perché la Chiesa deve far sentire la voce dei più deboli e dei più poveri in Europa e nel mondo, nella misura in cui saranno interessati dall’accordo di libero scambio.” I vescovi europei hanno deciso di preparare un documento per gli eurodeputati. Ma dovranno farlo in fretta se vogliono arrivare in  tempo.Perché i vescovi italiani non potrebbero fare lo stesso? Questo darebbe tanta forza alle comunità cristiane, all’associazionismo di ispirazione cristiana a congiungersi con il grande movimento di opposizione a questi trattati. Uniti possiamo farcela!
Ma dobbiamo muoverci perché i poteri forti vogliono chiudere la partita al più presto possibile.
Diamoci da fare perché vinca la Vita.

                                                                                                     
                                                                                                                                 p. Alex Zanotelli 
Napoli, 3 dicembre 2014

domenica 7 dicembre 2014

[Uruguay] Arriverderci José Mujica, il presidente povero conclude il suo mandato



In cinque anni José Mujica ha trasformato l'Uruguay, ma non il suo stile di vita modesto. Questo mese, però, l'uomo che si fa chiamare da tutti "Pepe" conclude la sua avventura alla guida del suo Paese, che gli vieta di ricandidarsi, perché è vietato farlo per due mandati consecutivi.
Eletto nel 2009, ora ha in programma di rimanere un senatore dopo le elezioni presidenziali del 30 novembre, quando verrà sostituito dal candidato Vazquez. Ma non c'è traccia di amarezza nell'aria che circonda la piccola azienda agricola in cui vive, a 20 minuti da Montevideo.
Mujica, infatti, aveva rifiutato di trasferirsi nella lussuosa residenza presidenziale, oltre ad aver devoluto il 90% del suo compenso, ovvero 12.000 euro al mese, ad associazioni caritatevoli. Ha preferito restare a 'Rincón del Cerro', tra vecchi barattoli di vernice trasformati in vasi da fiore, lo scodinzolio di Manuela, il suo fedele meticcio nero tripode, e i lavori dell'orto.
Ma tutta questa frugalità passa in secondo piano quando si parla della incredibile trasformazione economica e culturale che l'Uruguay ha compiuto sotto la sua guida.
"Abbiamo avuto anni positive per 'uguaglianza. Dieci anni fa, circa il 39% degli uruguayani viveva al di sotto della soglia di povertà; l'abbiamo portato a meno dell'11% e abbiamo ridotto la povertà estrema dal 5% ad appena lo 0,5%", spiega al The Guardian con orgoglio.
Sono aumentati anche gli investimenti, passati da circa il 13% del PIL di dieci anni fa al 25% attuale. E poi ci sono i parchi eolici:
"Entro il 2016 copriremo oltre il 30% del nostro fabbisogno energetico con fonti rinnovabili. Abbiamo approfittato del fatto che l'Europa era in crisi, e che alcuni progetti sarebbero più stati realizzati lì. Abbiamo iniziato a ricevere offerte per i parchi eolici a prezzi davvero convenienti".

Indimenticabile, in occasione della sessione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, lo scorso 24 settembre, il suo forte discorso in cui ribadì la necessità di puntare ad un mondo migliore: “Con il talento e il lavoro di squadra l'uomo può rendere verdi i deserti, coltivare il mare e mettere a punto metodi per usare l'acqua salata per l'agricoltura. Un mondo con una migliore umanità è possibile, ma forse oggi la prima priorità è salvare vite umane”, ha sottolineato Mujica.

Nei passati cinque anni ha anche introdotto i matrimoni tra omosessuali, legalizzato l'aborto (in America Latina è legale solo a Cuba e Città del Messico) e la vendita di marijuana, con lo scopo principale di reprimere il traffico illegale della droga. Ecco cosa ha fatto il "presidente povero", che si è sempre sentito il più ricco del mondo.

Roberta Ragni, greenme.it

martedì 2 dicembre 2014

[INDIA] Bhopal, la lezione ignorata

A distanza di trent’anni dalla tragedia di Bhopal non solo la giustizia resta lontana per quanti sono stati direttamente coinvolti, ma il paese nel suo complesso non ha raggiunto una reale comprensione dei problemi evidenziati da quell’evento, costato finora 20-25.000 vite umane.
Sunita Narain, direttore del Centro per la scienza e per l’ambiente (Centre for Science and Environment, Cse), organizzazione indipendente di studi e progetti ambientali con sede a New Delhi, non ha dubbi: “L’India post-Bhopal ha migliorato la propria legislazione riguardo a disastri provocati dalle industrie chimiche e anche la sicurezza dei lavoratori, tuttavia si tratta di un impegno ampiamente incompleto. Trent’anni dopo, siamo lontani da una soluzione del dramma di Bhopal e non per quanto successo quella notte fatale, ma perché la risposta è stata incompetente e insensibile. Il risultato è che Bhopal vive una doppia tragedia: quella immediata del 1984 e l’altra che si è sviluppata negli anni”.
Affermazioni che gettano un’ombra lunga sulla rincorsa all’industrializzazione del paese, mentre fatica a comprendere la lezione di Bhopal.
“La fuga di gas tossico di trent’anni fa è stato il maggiore disastro industriale dell’India. Fino ad allora, i governi avevano gestito alluvioni, cicloni e terremoti. Di conseguenza si trovarono impreparati. La Legge per la protezione ambientale del 1986 è stato il primo provvedimento specifico, che ha dato alle autorità centrali la possibilità di proibire o regolare ogni iniziativa industriale. Gli emendamenti del 1987 hanno consentito ai vari Stati di costituire comitati per valutare la localizzazione di industrie potenzialmente dannose, oltre a porre in atto sistemi per la salvaguardia dei lavoratori e dei residenti. Nel 1989 il paese si è dotato dei Regolamenti per la gestione e il trattamento di rifiuti nocivi e dal 1991 della Legge per l’assicurazione sulla responsabilità civile consente assistenza immediata a persone che siano interessate da incidenti a contatto con sostanze nocive, prevedendo un apposito fondo di emergenza a livello nazionale”.
“Tuttavia – prosegue l’ambientalista – nonostante le leggi e i regolamenti in vigore, l’India sta rapidamente perdendo la battaglia riguardo la produzione e la gestione di sostanze pericolose per la salute e per l’ambiente. Gli incidenti industriali continuano a ripetersi con frequenza, spesso non denunciati, e la contaminazione di terreni e falde acquifere è un problema crescente. Nel 2010, il ministero per l’Ambiente e le foreste ha individuato dieci siti con migliaia di tonnellate di scarichi nocivi”.
Oggi, le conseguenze della tragedia di trent’anni fa che ancora coinvolgono la popolazione di Bhopal, nel frattempo raddoppiata arrivando a sfiorare i due milioni di abitanti, riguardano 120.000 superstiti con tracce indelebili della contaminazione e oltre mezzo milione di abitanti complessivamente interessati dalla fuga nell’aria di 40 tonnellate di isocianato di metile nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984. Tuttavia, la città è minacciata da una catastrofe almeno equivalente. Sono almeno 20.000 gli abitanti che vivono a ridosso dell’impianto dismesso ma mai bonificato.
“Si calcolano in 350.000 tonnellate le sostanze scaricate dentro e fuori l’impianto in 15 anni di attività della fabbrica – segnala Sunita Narain -. Nel 2009, Cse ha condotto una ricerca indipendente in loco e ha riscontrato elevati livelli di contaminazione del suolo e dell’acqua sul sito della Union Carbide e nelle aree circostanti. Elementi contaminanti come pesticidi, composti di cloro e di benzene e metalli pesanti, tutti riferibili ai processi produttivi”. Ciononostante, e nonostante un gran numero di procedimenti legali, denunce e impegni, la bonifica non ha veri responsabili e finanziatori possibili.
Un accordo extragiudiziale della Union Carbide con il governo di New Delhi nel 1989 (470 milioni di dollari) ha chiuso ogni contenzioso che riguardava la multinazionale, acquistata dalla statunitense Dow Chemical dopo avere ceduto nel 1994 le sue attività indiane a una consociata che a sua volta ha cambiato nome e struttura ma che non ha mai prodotto nulla nell’impianto che ancora domina la città.
Una doppia beffa per le vittime ancora in vita della catastrofe, per i nati negli anni con gravi malformazioni e per la cittadinanza a rischio di quella che per gli ambientalisti è “Bhopal 2.0”, ovvero una catastrofe annunciata.
“Il sistema che impone la responsabilità aziendale non può restare inadeguato quando nuove e a volte poco affidabili tecnologie continuano a porre nuove sfide. Se questo non è possibile, lo Stato deve provvedere onerose soluzioni di salvaguardia umana e ambientale, a costo di rendere non competitive le iniziative produttive. L’insegnamento di Bhopal deve essere che ogni tecnologia deve pagare i costi reali dei rischi presenti e futuri che pone”.

sabato 29 novembre 2014

Aumentano le tariffe e si rilancia la privatizzazione dell'acqua, due facce della stessa medaglia

Comunicato stampa

In questi giorni sta facendo notizia l'aumento delle tariffe idriche, annunciato dal Presidente dell'AEEGSI Bortoni nel corso della III Conferenza Nazionale sulla Regolazione dei Servizi Idrici.

Tali aumenti, ha dichiarato Bortoni, "sono ritenuti necessari a favorire gli investimenti prioritari per il settore, tesi a raggiungere e mantenere obiettivi di qualità ambientale e della risorsa".
Purtroppo fin qui nessuna novità: le tariffe idriche stanno aumentando in modo costante ormai da anni (+ 85,2% negli ultimi 10 anni sulla base di uno studio della CGIA di Mestre), sempre con la promessa di un'aumento degli investimenti. Investimenti che però non sono mai decollati: ad esempio tra il 2006 e il 2009 solo il 56% di quelli previsti dai piani d'ambito viene realizzato (fonte: Co.Vi.Ri.).

Dunque, si giunge al paradosso che i cittadini pagheranno una seconda volta, anche attraverso i nuovi aumenti in bolletta, investimenti che hanno già pagato e mai realizzati.

Dove vanno a finire, dunque, i soldi in più che i cittadini ogni anno si trovano in tariffa? Difficile saperlo, perchè la trasparenza non è certo una qualità dell'attuale gestione: i piani industriali vengono decisi dai CdA delle aziende, sui quali il controllo concreto da parte dei comuni è sempre più un percorso a ostacoli. Senza dubbio però aumentano i profitti, soprattutto per le grandi multiutilities quotate in borsa. Il nuovo metodo tariffario, formulato proprio dall'AEEGSI, prevede infatti la copertura degli "oneri finanziari", consentendo in sostanza ai gestori di continuare a fare profitti sull'acqua, nonostante i referendum del 2011.
La vera notizia è invece il rilancio della privatizzazione dei servizi pubblici locali, compreso quello idrico. Bortoni auspica, infatti, un "processo di aggregazione e di rafforzamento della gestione dei servizi pubblici locali a rete", anche questo ovviamente a "beneficio prima di tutto dei consumatori" (ci mancherebbe). Ma cosa vuol dire parlare di fusioni e aggregazioni quando ad essere in ballo sono i servizi essenziali?
Il combinato disposto delle norme contenute nello Sblocca Italia e nella Legge di Stabilità sottende un disegno piuttosto chiaro: la gestione dell'acqua affidata ai quattro colossi multiutility attuali - A2A, Iren, Hera e Acea - già collocati in Borsa, con un ruolo degli enti locali sempre più marginale.

Difficile infatti immaginare che i futuri colossi dell'acqua possano preoccuparsi degli interessi dei cittadini (non a caso ribattezzati "consumatori" da Bortoni), soprattutto quando questi rischiano di confliggere con quelli degli azionisti. Ne abbiamo la prova in questi giorni in moltissime città di italia: per garantire agli azionisti lauti dividendi a fine anno i gestori praticano il recupero crediti attraverso migliaia di distacchi idrici.

Con buona pace dell'ONU che ha dichiarato l'accesso all'acqua un diritto umano universale.
Ci teniamo anche evidenziare la contraddizione dovuta al fatto che l'AEEGSI è finanziata dagli stessi gestori attraverso un contributo annuale definito dall'Authority stessa e come ciò renda poco indipendente e autonoma la sua azione rispetto agli interessi dei gestori. (si veda al riguardo la delibera 235/2014/A del 29/05/14)

Per tutte queste ragioni, a nostra avviso, nessuno può rimanere a guardare mentre viene condotto un nuovo tentativo di privatizzazione e mercificazione dell'acqua: non possono farlo i cittadini e non possono farlo gli enti locali.
Roma, 28 Novembre 2014.
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

domenica 16 novembre 2014

Burkina Faso, rivive l’utopia del presidente-eroe amato dal popolo


Un tempo si tradiva con coraggio. Si diventava un rinnegato candidamente e decisamente. Si stringeva la mano all’amico, al compagno di fede e poi, senza indugio, lo si andava a vendere come se si trattasse di un atto di onestà. Insomma si diventava Giuda con franchezza.

Uno degli orrori del ventesimo secolo è stato che la canaglia barbarica tradisce con viltà, celandosi dietro le scelte ideologiche, il bene del Popolo, le necessità storiche. Ventisette anni vi sembrano troppi per rendere giustizia per un tradimento consumato in un Paese che si chiama Burkina Faso? Chissà: forse non sono niente. E il guaio è semplicemente che noi uomini non abbiamo pazienza. Bisogna leggere questa storia come un copione shakespeariano, rappresentarla in uno spazio chiuso, un palcoscenico quasi nudo, mobili sgualciti, quelli delle amministrazioni coloniali dopo il ritiro dei padroni bianchi: residuati di prefetture del Poitou o municipi dell’Auvergne finite a morire nei deserti dell’Empire. Poveri «evolué» compilano inutili moduli con bella calligrafia. Si vive con 190 dollari all’anno, quando non si muore di carestia e siccità nell’Alto Volta. Mettete una colonna sonora discreta: un brusio, la folla del mercato di Ouagadougou, affaccendata nei suoi traffici fatti di niente, qualche rumore di auto che hanno già mille volte esalato l’ultimo respiro e che vengono rianimate dalla mani di meccanici con il genio di Leonardo. E campi di cotone, immensi campi di cotone: i padroni francesi hanno detto che quello era il ruolo che dio aveva dato a quella piccola scheggia del loro impero: produrre cotone.

L’eroe rivoluzionario
Entra il primo personaggio. La capacità di dedizione, la forza del sacrificio è, lo ammetto, il mio termine di misura per giudicare gli uomini. Chi lo possiede al più alto livello è più vicino all’eroismo. Per questo ho amato la figura di Thomas Sankara, eroe di una piccola rivoluzione che negli Anni 80 del secolo appena finito, con slancio cieco del cuore che non prevede cosa gli potrà costare, cambiò il destino del Paese, a cui diede persino un nuovo nome: Burkina Faso, terra degli uomini integri. Esempio di devozione permanente, del sacrificio infaticabile che spesso gli africani forniscono, devozione che non si esaurisce nemmeno dell’immolazione della propria vita ma si perpetua di vita in vita, per diverse generazioni: il tesoro dell’eterna giovinezza Sankara è un soldato, un giovane capitano. Il Paese degli uomini integri è indipendente da venti anni, ma senza gloria, senza epopee: giusto un regalo furbo dei dominatori che sono rimasti lì come prima, a scegliere i presidenti. La Francia mangia con le sue gengive consumate di vecchia cocotte il cotone e la poca ricchezza che il Paese produce.

I troppi nemici
Sankara è un golpista di 34 anni, prende il potere con un gruppo di altri giovani ufficiali. I suoi nemici non sono invasori stranieri: sono la carestia, la desertificazione, il morbillo, la meningite, la febbre gialla. Che cosa vuole mai questo ragazzo che suona la chitarra, non si nomina generale, inveisce contro i Grandi dalla tribuna del palazzo di vetro? Semplicemente cambiare il mondo, rimettere il popolo al lavoro, insegnargli a contare solo su se stesso e ridargli la dignità. In tre settimane fa vaccinare il 60 per cento dei bambini, costruisce scuole nelle campagne, ordina a tutti di piantare alberi per fermare il deserto.
Ha nemici potenti, Sankara, il Fondo monetario per esempio: «Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato, dopo essere stati schiavi, ora siamo schiavi finanziari. Se non paghiamo, i creditori non moriranno. Ma se paghiamo, moriremo noi». Sankara rifiuta regali, un aereo per esempio da un ricco Paese arabo, viaggia su una scassata Renault 5 o in bicicletta. Abolisce le mercedes ministeriali. Licenzia insegnanti e funzionari fannulloni. Veste con una divisa verde tessuta di cotone locale, quello che non si riesce a vendere se non sottocosto: perché sono i ricchi che impongono i prezzi. Mangia pane di miglio perché il grano bisogna importarlo, lotta contro la corruzione, le bustarelle, i capi tradizionali e il loro potere senza tempo. Si sentiva felice come un contadino che vede al sole il frutto tanto curato.

Ha nemici potenti Sankara, la Francia e gli Stati Uniti per esempio. E amici discutibili: regimi radicali come Ghana e Benin e, soprattutto, Gheddafi che deluso dai fratelli arabi comincia a cercare un grottesco «impero» nell’Africa dei miserabili. Commette errori Sankara, e tanti. Spedisce i notabili e i ministri a zappare il deserto e costruire una inutile ferrovia, squinterna, licenzia, reprime quando non è obbedito subito, vuole una Africa che si liberi da sola; ma i tempi sono logori, i padri della patria in Africa sono già diventati despoti, il terzomondismo ha le vele sgonfie. Radicale, populista, impertinente, impaziente, utopico, anche demagogo, ha creduto di potere tutto, anche di sopprimere il tempo con la grandezza della sua volontà. Ma qui non è come in guerra: il tempo non si lascia sopprimere, pesa, la lotta è dura e si prolunga fra l’usura che il tempo accumula e la forza dell’uomo che declina. Ebbe tutti contro di sé, necessariamente, tutte le cose del passato. Dovettero precipitarsi naturalmente contro di lui e sopra di lui, come innumerevoli torrenti attratti da un unico abisso. Le cose gli obbedirono meno degli uomini. Ebbe il disinteresse del vero soldato che esegue una consegna pericolosa. Ma tutte le forze vecchie e nuove stavano contro di lui. Come i criminali contro il giustiziere delle loro opere. Non fatevi ingannare: quando parla gli scherani, sempre più affezionati, gli fanno corona e protezione in un vocio e accapigliamento che ricorda qualche rivoluzione napoletana. Ma Sankara lo immagino solo, terribilmente solo e la sua solitudine ha un aspetto di eternità. Senza compagni che lo capissero, o lo assistessero, senza angeli visibili e forse anche senza Dio. Ma questo chi può saperlo?

Il golpe
Lo ammazzarono il 15 ottobre del 1987, nella presidenza, un golpe di vecchi compagni, camerati, fratelli: Giuda stavolta si chiamava Blaise Compaoré, capitano pure lui, un mediocre, grigio come sono sempre gli assassini. Parlò alla radio banalmente, copiature di altri tradimenti: «Sankara era un rinnegato che ha sviato la rivoluzione dell’83 … lavorava incessantemente al ripristino dell’ordine borghese reazionario ... la rivoluzione continua». Non trascina, non dimostra, insinua e il suo metodo scialbo e incolore non può riuscire che con uomini della sua risma, intriganti, accessibili alle ragioni, politici. Ho fatto a tempo a incontrare alcuni anni fa uno degli assassini, un militare dal dolce nome di Hyachinte. Faceva parte del commando che doveva arrestarlo (o ucciderlo subito). Gli amici di Sankara lo indicavano come l’uomo che gli aveva sparato in testa. Nel 1996, accusato di un tentato golpe da Campaoré, era fuggito nelle Filippine: tornò nel 2001 con il «perdono», era diventato deputato: non perdeva tempo a rievocare «la rivoluzione», non cambiava tono, ed era già molto se si sorprendeva tra le sue ciglia l’estremo orlo delle pupille grige.

La nascita del mito
Il 18 ottobre venne proclamata festa nazionale, il corpo di Sankara fu gettato in una fossa comune nel cimitero della capitale, solo un pezzo di carta scritto a mano: «Capitano Sankara». Qui cominciò, subito, la sua immortalità. E la punizione dell’assassino. La gente si mise in fila davanti alla tomba: il suo silenzio parlava. Sankara non è mai morto: nei mercati d’Africa, 27 anni dopo, trovi le magliette con il suo nome, ragazzi che lo conoscono solo sui libri di storia o nei racconti dei padri piangono se ne evochi il sacrificio. C’è una generazione Sankara che come per Mandela o il Che ne celebra gli anniversari su Internet. È questa vita di semplicità quasi di infanzia, di bontà e di santità in cui tutti cercheranno, sempre, una specie di rigenerazione morale. La sua biografia resterà il tesoro del mondo e l’eterna festa del cuore. Campaoré è rimasto al potere 27 anni, si è fatto rieleggere con i brogli per due, tre volte. Tutto cambiava intorno, il deserto si animava di nuovi fanatismi, ma il Burkina Faso restava uno dei Paesi più poveri del mondo e lui presidente. In due giorni lo hanno spazzato via con clamore giacobino decine di migliaia di giovani della generazione Sankara, indignati dalle trame per una ennesima rielezione. Campaoré è fuggito in Costa d’avorio, ora la transizione è confusa, ma emerge tra i pescecani del continuismo, generali obbedienti per trent’anni, un giovane colonnello, Isaac Zida: lo appoggiano i rivoltosi di Ouagadougou. Assomiglia, per molti, a Sankara. Nella capitale ronde festose puliscono le strade. 

domenica 9 novembre 2014

Le vere domande di fronte a un suicidio


di Vladimiro Zagrebelsky,
da LaStampa del 5 novembre 2014

Ancora una volta un suicidio è stato accompagnato da un forte richiamo mediatico, preparato dalla stessa persona che ha deciso di togliersi la vita. Altri casi, anche in Italia, hanno avuto, per scelta espressa, grande risonanza mediatica. E questo aspetto, accanto a quello dell’atto in sé di abbandonare la vita, è stato oggetto di critica o almeno fonte di disagio; quasi che si trattasse di impudicizia o addirittura di esibizionismo, mentre un simile comportamento, quandanche inevitabile, richiederebbe almeno discrezione. Credo invece che debba riconoscersi che la gestione pubblica della propria scelta, in questo come in altri casi, ci costringe a pensare a ciò che si cerca di rimuovere, a pensare cioè agli altri e a noi stessi alla fine della vita. E cercare una risposta alla domanda giusta. Non chiedersi, cioè, perché consentire, ma domandare se sia lecito vietare. E in più considerare se consentire o vietare appartenga, non alla legge morale che ciascuno riconosce, ma alla legge dello Stato; alla maggioranza cioè in Parlamento, la quale come si sa non esprime la «volontà generale», ma più o meno quella di una parte degli elettori.

Perché vietare e con quale legittimità dovrebbero essere sempre le domande prioritarie. Se, come è in una società libera e rispettosa dell’autonomia delle persone, tutto ciò che non è vietato è lecito, occorrono buoni motivi per proibire. Esporli tocca a chi vuole imporre un divieto, non è chi rivendica una sua libertà che deve giustificarne il fondamento. Il fondamento dell’autonomia sta nella dignità della persona, la quale non ha da esser «gestita» da altri. Né la maggioranza (spesso pretesa, anagrafica) ha uno speciale diritto d’intervento. Ove un diritto o una libertà fondamentale sono in discussione, entra in gioco non il principio di maggioranza, ma quello contro-maggioritario. Non nel senso evidentemente che comandi la minoranza, ma in quello ovvio che la maggioranza deve inchinarsi davanti alla libertà di chi, se anche fosse solo, la rivendica. L’individuo deve essere protetto dalle pretese della dittatura della maggioranza. Si tratta di elementari principi di libertà e rispetto di ciascuna persona.

Il suicidio in questa parte del mondo non è più un delitto. Qui da qualche secolo ormai, chi tenta di uccidersi non è punito, né, se vi riesce, il suo cadavere è oggetto degli oltraggi usuali in tempi andati. E’ dunque accettato che l’individuo possa suicidarsi. Ed anzi, la compassione rispetto a un suicida e alla sua famiglia è maggiore di quella che accompagna una morte naturale. Si pensa a quanto debba aver sofferto chi decide di morire, quanto deve essergli stata insopportabile la prospettiva di continuare a vivere.

Tuttavia in paesi come l’Italia si ha compassione per chi si getta dalla finestra, ma si contrasta chi vorrebbe morire degnamente, nel suo letto, addormentandosi senza risveglio. Cosa di più crudele? Si dice che occorre proteggere le persone da azioni impulsive non meditate e questo sarebbe un motivo che giustifica il divieto nell’interesse pubblico generale. Certo la vigilanza rispetto alla reale e libera formazione della volontà della persona è non solo legittima, ma necessaria. Essa rappresenta il vero problema, come nel caso diverso, anche se confinante, del rifiuto di trattamenti medici o della loro continuazione. Vi sono però soluzioni, che – queste sì – dovrebbero essere imposte dalla legge e che invece un generale divieto lascia assenti e nascoste nella pratica reale della vita e della morte. Un esame medico collegiale, un tempo di riflessione in una procedura garantita, potrebbero proteggere la vera autonomia della volontà espressa dalla persona. Il Parlamento però continua a evitare di considerare gli aspetti di questi problemi che richiedono una disciplina.

Si tratta in ogni caso di argomento che riguarda il suicidio di chi, disperato, si getta nel vuoto, che infatti, se possibile, ne viene fisicamente impedito. Non vale per chi, esaminata la propria malattia, la penosità delle possibili terapie e la prognosi ineluttabile e atroce, sceglie di abbreviare la propria vita. Così, legalmente e attorniata dalla sua famiglia, ha fatto ora l’americana Brittany Maynard dopo aver dato una lezione di amore per la vita nella bellezza di questo mondo. Prima, tra mille difficoltà e battaglie legali l’avevano fatto altri anche in Italia. Altri ancora avevano dovuto passare il confine. Incapaci costoro di decidere? Persone da tutelare? Al contrario, persone lucide e consapevoli della propria libertà.

E’ difficilmente accettabile l’argomento secondo il quale occorre vietare a tutti, perché qualcuno potrebbe non essere pienamente consapevole e quindi libero. Annullando la individualità della sua condizione, l’argomento fa della persona singola lo strumento di una esigenza collettiva. E’ quanto ha ammesso la Corte europea dei diritti umani, affermando che la liceità o la punibilità dell’aiuto al suicidio, che pur interferisce nella vita privata della persona, rientra nell’ambito della valutazione discrezionale dell’interesse pubblico da parte dello Stato. Vero è che, decidendo il ricorso di una malata in gravissimo stato, che chiedeva di morire e il cui marito era disposto ad aiutare, lo ha detto sottolineando il fatto che nel sistema legale britannico, cui il caso si riferiva, prevedeva la ragionevole discrezionalità della decisione di accusare il responsabile dell’aiuto dato. Ma la tragedia di quella donna le è stata imposta fino alla fine, supponendo che l’interesse pubblico non fosse altrimenti tutelabile.

E’ arduo distinguere la liceità del suicidio dalla criminosità dell’aiuto al suicidio: come è stato nel caso americano o è nella pratica in uso in alcuni Paesi a noi vicini, si tratta dell’aiuto dato dal medico che fornisce o somministra il composto letale. Vi sono situazioni in cui il malato non è in grado di togliersi la vita, perché non può più muoversi o perché non gli è possibile da solo procurarsi le sostanze letali. Fermo il rispetto dell’obiezione di coscienza di chi fosse richiesto di aiutarlo a realizzare il suo proposito, non è ragionevole impedire a chi vuole, ma non può morire, di raggiungere lo scopo che potrebbe ottenere se le sue condizioni gli permettessero di agire da solo.

Questo non è un inno al suicidio. Se vivere a qualunque costo non è un dovere che possa essere imposto a chi non lo faccia derivare dalle proprie convinzioni morali, vi sono però situazioni in cui restare in vita è comunque di aiuto o conforto per altri, famigliari o estranei o la stessa collettività. Non si vive soli e spesso non si muore per sé soli. Ma chi avrebbe il coraggio o la presunzione di sostituire il proprio al giudizio di chi in quelle situazioni è immerso?

giovedì 6 novembre 2014

Le origini di Rifiuti Zero

di Marta FERRI,
Antropologa del Centro di Ricerca Rifiuti Zero di Capannori

“La maggior parte delle persone a Torino non sa che c’è un inceneritore, perchè non lo vede”, mi dice Valeria, studentessa al Politecnico e attivista del Coordinamento. “Anche in passato, abbiamo faticato per farci ascoltare, persino nelle zone vicino il sito di costruzione. La gente ha iniziato a seguirci quando ha visto ultimato il camino, ed ha iniziato a chiedersi, ‘cosa uscirà da lì’?”. In questo articolo gli attivisti del Coordinamento No inceneritore Rifiuti Zero di Torino si raccontano, tramite le loro azioni di protesta, ricerca scientifica, informazione e formazione che stanno contribuendo alla creazione di una consapevolezza diffusa riguardo le diverse tematiche ambientali legate all’accensione di un impianto in una comunità.

Le origini

Nel 1995 il Comune di Torino decretò la costruzione di un inceneritore per rifiuti ospedalieri al Gerbido, per far fronte la chiusura del più vecchio impianto di Molinette. La zona è ritenuta tattica poichè, ancora sotto l’amministrazione di Torino, si estende come una penisola – “il ramo secco della città” – in mezzo ai primi comuni periferici, lontana dagli occhi dei torinesi. Si creò così un comitato spontaneo di cittadini, soprattutto delle zone limitrofe, che raccogliendosi nei locali parrocchiali del Gerbido iniziò a studiare il da farsi. “Ci chiamammo Salvambiente Gerbido”, mi racconta Francesco, vigile urbano e attivista della prima ora, “grazie alla collaborazione con l’amministrazione di Grugliasco – che all’epoca aveva un sindaco dei Verdi -, riuscimmo a far valere le nostre ragioni”. Le azioni di protesta furono circoscritte, ma bastarono a far capire all’amministrazione che costruire un inceneritore in una zona che i cittadini stessi consideravano già martoriata – erano già presenti grandi impianti ritenuti altamente inquinanti come la FIAT -, non era cosa da farsi. Chi protestò all’epoca, ha trovato “buffo” il fatto che invece, nel 2002, la Provincia considerasse fattibile costruire nella stessa zona un inceneritore di rifiuti urbani. “Forse perchè ci vedemmo lungo, Salvambiente non si sciolse mai effettivamente”, continua Francesco, e poteva adesso contare anche su forze nuove come Pier Claudio, attivista di grande esperienza ed esperto in materia, e Gian, informatico e curioso, che cercando notizie più “reali” di quelle date in televisione si trovò ad approfondire la questione dell’incenerimento grazie alle prime connessioni internet, ritrovandosi poi attivista. Con l’avvio del nuovo progetto gli attivisti intuirono che il vento era cambiato in politica: se tradizionalmente, in Piemonte, il partito “incenitorista” era rappresentato dalla Destra, con la costituzione di quello che poi sarebbe diventato il PD si cambiarono le carte in tavola. Intanto, mentre Pier Claudio se la vedeva con la politica locale, Gian, che era in contatto con alcuni gruppi No Inceneritore di Alessadria, fu messo in contatto con degli attivisti liguri che, a loro volta, gli diedero il numero di un comitato in Toscana, ritrovandosi così a telefonare a Rossano Ercolini di Capannori. Il gruppo di Torino appena formato, andò così a creare un nodo nevralgico nella prima Rete nazionale No Inc (vedi articolo Capannori). Sin da subito la lotta locale nel torinese ha avuto risvolti reticolari, definendosi come lontana dal comportamento NIMBY – Not In My BackYard – e come facente parte di una struttura aperta, dinamica e dialogante. “La lotta non era ancora sotto l’egida di Rifiuti Zero, perchè ancora non esisteva come terminologia, ma solo come concetto”, mi dice Gian, “ma è grazie al nostro continuo studiare, incontrarci faccia a faccia, parlare, informarci l’un l’altro che la strategia ha poi preso piede in Italia”. In quei primi anni, nonostante il percorso formativo e teorico iniziato con la rete No Inc, fu difficile raggiungere la gente, il “cittadino medio”. “In piena emergenza rifiuti a Napoli”, mi spiega Pier Claudio, “i media non facevano altro che bombardarci sulla pericolosità di un accumulo di rifiuti, con immagini terrorizzanti dalla Campania. Fu in quel contesto che l’amministrazione motivò la costruzione dell’inceneritore e la gente ne fu pure sollevata”. “Tanto è vero che la leadership politica che promise di costruire l’inceneritore fu eletta al primo turno alle elezioni provinciali dell’epoca”, ricorda Francesco.
Eppure qualcosa cambiò. E fu con l’ultimazione dell’alto camino del Gerbido. La gente forse iniziò a farsi domande e, se prima ai banchetti informativi fatti dagli attivisti non si fermava nessuno, col passare del tempo sempre più cittadini iniziarono a volere approfondire la questione “inceneritore”. In quegli anni si costituì la Rete Nazionale Rifiuti Zero, e nacque così a tutti gli effetti il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino.
Il Coordinamento
Superfluo dire che l’obiettivo primario del Coordinamento è far chiudere l’inceneritore, mettendo in rete la sua lotta e “globalizzandola” in una battaglia comune con tutti quei movimenti che stanno dicendo No ad inceneritori e altri impianti dannosi ambientalmente ed economicamente ad una comunità. Torino, definita una delle tre Stalingrado d’Italia dallo stesso Ercolini, ha contatti con diversi altri gruppi nell’alessandrino, in Liguria, le stesse Parma e Firenze, gruppi e associazioni del torinese che lavorano nel sociale, nonché altri due movimenti che portano avanti Rifiuti Zero come alternativa ad un impianto: il recente NoPiro e l’aostana ValleVirtuosa (di entrambi parlerò nei prossimi due articoli).
Expertise
Come gli stessi attivisti mi dicono, nonostante nessuno abbia un ruolo predefinito all’interno del gruppo, è anche vero che certi compiti se li prendono persone in base alle proprie conoscenze personali – expertise – e tendenze caratteriali. “Chi è bravo a parlare ed è coinvolgente sta ai banchetti, chi è bravo a spiegare ed ha pazienza va a parlare nelle scuole, chi è medico segue le questioni legate alla salute, chi è un tecnico quelle tecniche…e così via”, mi spiega Leo, attivista con particolare predisposizione alla sensibilizzazione e a far banchetti. Ci sono poi figure, come Pier Claudio che hanno maturato un’esperienza nel settore dell’attivismo e della politica, nonché nella lotta agli inceneritori che sono preziose; altre come Gian che, grazie sia al proprio lavoro che la propensione ad approfondire le questioni, hanno intrecciato un rete vasta e si occupano quindi di tenere i contatti con la sfera nazionale ed internazionale. Oltre alle competenze private, è anche globalmente riconosciuto nel gruppo l’estrema importanza dei continui studio, aggiornamenti e scambio di informazioni anche con altri gruppi, non solo in materia di “immondizia”. Come sempre Leo mi spiega, “chi sta ai banchetti deve saper rispondere a domande anche mirate e approfondite su questioni mediche, chimiche e tecniche che riguardano l’inceneritore e non solo. Una volta mi trovai a fermare per caso un pezzo grosso della ARPA, e lì dovetti sfoderare tutte le mie conoscenze!”.
Questo tema sottolinea l’importanza della conoscenza condivisa presente su più livelli, che si dispiegano dal locale dei singoli comitati in rete, al globale dei network internazionali. Questo caratterizza la struttura in “evoluzione” costante del sapere scientifico e socioculturale relativo a Rifiuti Zero. Lo stesso, Luisa – medico del pronto soccorso e affiliata di ISDE – dice che è importante non solo portare la propria expertise all’interno del gruppo e usarla per la causa, ma anche continuare ad ampliarla, approfondendo questo e quel tema. Come medico ISDE partecipa a conferenze, si tiene aggiornata e si scambia informazioni con i colleghi – è in contatto sia con Manrico, medico del GCR di Parma che con Gianluca, medico del Coordinamento di Firenze, per citarne due -, tanto che nel 2012 ha creato un gruppo ISDE a Torino. L’expertise è quindi vista come un insieme di competenze personali che possono essere condivise con il gruppo, creando una conoscenza di base condivisa, che però deve aggiornarsi ed essere approfondita in continuazione, così come le expertise maturano sul campo e approfondiscono tematiche utili nella lotta.
Le azioni principali
Il Coordinamento si è fatto sentire sin da subito con un serie di manifestazioni – che contavano le migliaia di partecipanti -, eventi informativi in piazza come banchetti, serate di assemblee pubbliche e, si vocifera, anche azioni “alla Greenpeace” come l’arrampicarsi sul camino dell’impianto, ormai costruito, stendendo uno striscione con scritto “NO INCENERITORE”. L’informazione è sempre stata ritenuta il chiodo su cui battere costantemente, poiché i cittadini sono visti come la forza sociale della protesta. A livello di azioni legali, sono stati presentati numerosi ricorsi all’opera dell’impianto, sempre respinti “fatto non strano, visto che i giudici amministrativi sono nominati dalla forza politica in carica”, mi fa notare Luisa. Un’altra azione, certosina oso dire, è quello di controllo dei dati delle emissioni giornaliere dell’inceneritore, lavoro di cui si occupa principalmente Valeria. È grazie a questi controlli che spesso gli attivisti riescono a denunciare emissioni fuori norma e possibili incidenti all’interno dell’impianto, conosciuto, già in partenza, come difettoso. Questo stato di difetto può trovare origine nella sua costruzione: sembra che l’intero edificio sia stato eretto non seguendo le norme di sicurezza sul lavoro, in fretta e furia, per stare nei tempi e non pagare la penale di mancato compimento. Ciò ha avuto come principale effetto la mancata messa in sicurezza dell’intero cantiere, fatto che sembra essere all’origine di numerosi infortuni fra gli operai e, con forti probabilità, la morte di quattro di questi. Sono stati alcuni lavoratori stessi, anonimi, che hanno contattato il Coordinamento denunciando condizioni di lavoro ben lontane da quelle previste dalla legge: esposti ad esalazioni provenienti dai rifiuti immagazzinati previa l’accensione, lavoravano in un cantiere a cielo aperto senza alcun riparo. In seguito ad un allagamento di una zona delle fondamenta, ci fu un cortocircuito che danneggiò diverse parti dell’edificio, compresa una turbina che tuttora sembra essere la causa dei numerosi incidenti accaduti a pochi mesi dall’accensione.
Da un anno a questa parte è stata condotta un’analisi epidemiologica sulle unghie dei bambini residenti le zone limitrofe l’inceneritore. Lavorando in un laboratorio tenuto ‘segreto’ “per evitare che i ricercatori abbiano pressioni dall’alto, come probabilmente è accaduto in passato”, dice Luisa, i primi risultati mostrano i livelli di metalli pesanti nei bambini prima dell’accensione dell’impianto, per avere un dato di paragone iniziale. I secondi prelievi sono stati fatti a giugno scorso e la ricerca procederà per i prossimi anni. “E’ un’iniziativa che mira a prevenire gli effetti peggiori delle diossine, monitorandone i livelli in soggetti in crescita e quindi più esposti. Così facendo dovremmo essere in grado di portare dati certi sugli effetti dell’incenerimento sulla salute dei cittadini”.
A proposito di giovani generazioni, il Coordinamento da anni si impegna nella sensibilizzazione e formazione di una coscienza ambientale nelle scuole. Sulla città di Torino, Luisa e Pier Claudio hanno portato avanti per diverso tempo lezioni e assemblee nelle scuole secondarie, molto partecipate e con un pubblico incredibilmente attento. Nel comune di Colegno, uno dei limitrofi il Gerbido, l’anno scorso Leo, Silvia – un’altra attivista del gruppo torinese -, Valeria e Paolo – il curatore della comunicazione della grafica degli eventi organizzati – si sono occupati di un progetto di formazione ambientale per 20 classi elementari. Il progetto, ideato da Enrico – un attivista che si è inoltre occupato della creazione del sito web del Coordinamento – aveva come obiettivo il fornire una conoscenza globale dei temi ambientali – acqua, terra, energia, rifiuti – con gli strumenti e i termini adatti ai più piccoli.
Da sempre il Coordinamento ha cercato di replicare alla mala informazione e alle conflittualità con la leadership politica non solo con comunicati stampa e articoli, ma anche tramite brevi video ed interviste che approfondiscono alcune delle tematiche di lotta più critiche da diffondere. Questi video, di cui si sono occupati Paolo, Silvio ed Elisabetta – altri due attivisti che si occupano dei media -, sono poi stati postati sul canale YouTube del Coordinamento (Rifiuti Zero Tv). “E’ un’azione importante”, dice Paolo, “perchè l’articolo sul sito non tutti lo leggono, mentre un video arriva diretto, non è pesante perchè breve e, essendo una serie di immagini, può essere più incisivo che di parole scritte”. Sempre in linea con queste sue parole, Paolo si è inoltre occupato anche della divulgazione del film documentario Trashed – e del relativo dibattito che di solito segue alla proiezione – in diversi circoli del torinese.
L’empowerment culturale passa per diverse vie di comunicazione: oltre alle verbali dirette tipiche delle azioni informative e quelle scritte dei comunicati e dei volantini, le visive sono spesso molto incisive, poiché riescono a creare legami cognitivi con una realtà vissuta o relativa a circostanze non troppo lontane dal quotidiano di ogni cittadino.

Trashed a Grugliasco
Trashed è l’ultimo film di Candida Brady, interpretato da uno scosso e conciso Jeremy Irons, ed ha la capacità di suscitare un miriade di reazioni che si risolvono spesso con una presa di coscienza da parte del pubblico su diverse tematiche ambientali attuali. La platea di Grugliasco – comune nei pressi di Torino i cui cittadini hanno potuto seguire l’evolversi dei lavori dell’inceneritore dalle finestre di casa propria – non ha fatto probabilmente eccezione. La proiezione è stata l’evento lancio di Rifiuti Zero Grugliasco, comitato satellite del Coordinamento di Torino, creato da attivisti del Coordinamento stesso che vivono nel comune. Following up che denota bene l’azione non solo di sensibilizzazione sul territorio del gruppo di Torino, ma anche la sua incisività nell’aver creato un contesto di empowerment sociale ed educativo, tanto da aver portato attivisti del proprio gruppo ad occuparsi della proprio località, pur continuando l’impegno con il Coordinamento. Parlando con Federico – giovane attivista ed uno degli iniziatori del gruppo di Grugliasco – riguardo il concetto di Rifiuti Zero, lui mi fa notare che “il bello di Rifiuti Zero è che non sono tutti scienziati. Anzi, per dire, lo stesso Cavallari nasce dalla politica, però studiando, è riuscito a portare avanti le questioni anche più tecniche. Siamo un insieme di persone che, mettendo insieme le proprie conoscenze, crea quello che è Rifiuti Zero. È splendido, è una comunità!”.

La situazione attuale
Con l’inceneritore acceso da un anno, il cui funzionamento è soggetto a continui interventi tecnici, dovuti in gran parte dallo sforamento dei limiti legali di alcune sostanze nelle emissioni dell’impinato, il Coordinamento tiene testa e continua con le azioni di informazione e protesta sui diversi fronti fin ora descritti. Una delle ultime manifestazioni del gruppo torinese al completo, è stata una “veglia funebre” alle porte dell’inceneritore la sera prima dell’inaugurazione (19 giugno) – cui avrebbero partecipato numerosi politici locali -, “per altro a distanza di un anno dalla sua accensione”, sottolinea Valeria nel raccontarmelo. “Eravamo circa 200 persone davanti agli ingressi.”, continua “Abbiamo fatto volare lanterne e acceso candele. Ad un microfono ognuno poteva esprimere un proprio pensiero, una frase, leggere una parte di un libro…”. Il giorno dopo, anche se i manifestanti presenti erano meno rispetto alla sera prima, perchè giorno lavorativo, il Coordinamento ha invece organizzato un’azione di boicottaggio dei politici che entravano per il buffet di inaugurazione dell’impianto. “Con noi c’era anche il sindaco di Rivalta, che ha preferito stare dalla nostra parte purchè entrare con tutti gli altri”, conclude Valeria. Rivalta, infatti, da quasi tre anni a questa parte si è sempre schierata contro l’inceneritore, sostenendo anche in modo fisico e tangibile – come può essere una presenza istituzionale fra le fila degli attivisti – il lavoro del Coordinamento.
Concludendo, il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino, nella sua decennale lotta per l’attuazione di un’alternativa sostenibile all’inceneritore del Gerbido, è stato in grado non solo di creare un certo livello di consapevolezza e formazione sulle tematiche ambientali e di gestione dei rifiuti fra la popolazione – grazie anche ad azioni di empowerment educativo, come i cicli di lezioni nella scuole –, ma sta costruendo una conoscenza condivisa di base grazie all’apporto delle expertise maturate ed acquisite nella lotta. Il Coordinamento sta inoltre contribuendo a livello nazionale a creare una conoscenza medico-scientifico sul tema delle conseguenze delle diossine nella crescita di soggetti, grazie all’inizio dell’indagine epidemiologica: i dati riportati da queste analisi saranno probabilmente preziosi in futuro per l’argomentazione “no inceneritore” nel dibattito pubblico.
 

Inceneritore, le bugie hanno le gambe corte (e le tasche vuote)

Sulle pagine locali di un quotidiano nazionale è apparso nei giorni scorsi un articolo interessante dal quale apprendevamo che una parte dei fondi necessari per lo studio di biomonitoraggio ambientale  denominato SPoTT sulle popolazioni residenti intorno all'inceneritore del Gerbido, sarà pagato dagli introiti ottenuti con lo smaltimento dei rifiuti provenienti dalla Liguria. Già questa estate erano state evidenziate difficoltà nel reperire i fondi (più di 800.000 euro per quest'anno e circa 2,3 milioni di euro in totale) per questo studio, che invece nel 2013 e nel 2014 era stato sbandierato da tutti gli amministratori favorevoli all'incenerimento come una garanzia ulteriore per i cittadini.
Passate le elezioni, come sempre accade in Italia, i nodi sono venuti al pettine ed ora nel silenzio generale si fa un’ulteriore deroga all’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) dato che questa prevedeva il biomonitoraggio al di là di un’eventuale importazione di rifiuti, (tra l’altro sempre esclusa in tutte le sedi dalle autorità provinciali).Tra l’altro resta concreta la minaccia che i rifiuti non torinesi siano smaltiti in eccedenza rispetto alle 421.000 tonnellate annue previste. E' un'operazione che lo Stato fa già con il gioco d'azzardo dato che da una parte prende i soldi dalle concessionarie e dall'altra è costretto a spenderne una quantità spaventosa per le nuove patologie che stanno ormai dilagando a causa dell'aumento indiscriminato di lotterie, casino on line etc.
Il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino non accetta questa logica. Ci troviamo di fronte all'ennesima bugia che resta totalmente ignorata dalla maggior parte dei mezzi di informazione e delle amministrazioni. Pecunia non olet, il denaro non ha odore, è questo ormai il motto di molti di quelli che ci governano a tutti i livelli, dal Governo di Roma che vuole approvare l'osceno Sblocca Italia, ovvero sblocca cemento-petrolio-inceneritori, fino all'ormai tragicomico Comitato Locale di Controllo che tanto aveva decantato lo SPoTT.
Per quanto ci riguarda continuiamo, tra mille difficoltà, il nostro studio indipendente sull'accumulo di metalli pesanti nelle unghie dei bimbi che vivono intorno al camino di TRM, a tal proposito ricordiamo che chiunque può fare una donazione al seguente conto corrente: IT 80 X 05390 14100 000000033178 oppure tramite bollettino postale sul c/c n° 14313522 intestato a Associazione medici per l'Ambiente causale (OBBLIGATORIA) “5 Euro per difenderci dall'inceneritore di Torino”.
Come cittadini responsabili continuiamo anche a monitorare i dati di emissione dell'inceneritore ed a promuovere ovunque le politiche di buona gestione dei rifiuti.
A tal proposito non possiamo non rallegrarci del fatto che finalmente sul territorio della provincia di Torino si stiano organizzando delle iniziative importanti per la nascita di un agglomerato di comuni che gestirà i propri rifiuti non differenziati totalmente a freddo senza bruciare nemmeno un grammo di preziosa materia. Ad Almese il 30 ottobre scorso è stato finalmente ufficializzato che 4 Consorzi della Provincia di Torino (Acsel Val Susa, Ivrea, Cirie' e Pinerolo) stanno pianificando un accorpamento e studiando la realizzazione di una fabbrica dei materiali, un impianto per il recupero di materia dal rifiuto indifferenziato.
E' un'ottima notizia per la nostra salute e per le nostre finanze e ci da ancora più coraggio ad andare avanti nella lotta contro la miopia e l'ignoranza di chi ha gestito i rifiuti a Torino negli ultimi 20 anni.

 Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero
Torino 04-11-2014

Ufficio Stampa
Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino
Tel: 335.6722544

Burkina Faso, la faticosa transizione

Tre presidenti africani sono in viaggio verso Ouagadougou con un messaggio chiaro da consegnare al nuovo ‘uomo forte’ del Burkina Faso, il luogotenente colonnello Yacouba Isaac Zida: consegnare il potere ai civili entro 15 giorni per evitare sanzioni da parte dell’Unione Africana. Previsto per oggi l’incontro tra Zida e il capo di Stato del Ghana, John Dramani Mahama, in qualità di presidente di turno della Comunità economica dei paesi dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas), accompagnato dal suo omologo nigeriano Goodluck Jonathan e dal senegalese Macky Sall. Una visita già preparata dagli emissari della ‘troika’ Unione Africana, Onu e Cedeao, finalizzata anche alla preparazione del vertice dell’organizzazione dell’Africa occidentale in agenda per domani ad Accra, al centro del quale ci sarà la crisi in Burkina Faso.
Una minaccia di sanzioni presa sul serio a Ouagadougou per il potenziale rischio di isolamento sulla scena continentale ed internazionale e per le possibili ripercussioni negativi in termini economici e di aiuti allo sviluppo da parte dei “donors”, il cui contributo è cruciale a sostegno di uno dei paesi meno sviluppati del pianeta. Ieri sera il Canada ha annunciato la sospensione della cooperazione umanitaria con il Burkina Faso. “Alla luce della situazione attuale, non è più possibile fornire assistenza allo sviluppo versando direttamente i fondi al governo burkinabe in quanto non abbiamo alcuna garanzia che verranno spesi in conformità con gli impegni presi” ha detto il ministro canadese per lo Sviluppo internazionale, Christian Paradis. Tra il 2012 e il 2013 il Canada ha versato aiuti al paese africano per circa 35,6 milioni di dollari. “I fondi saranno nuovamente versati quando il governo di Ottawa sarà sicuro che il potere verrà restituito ad un’autorità civile e legittima” ha aggiunto Paradis. In base alla Costituzione del Burkina Faso, in caso di dimissioni del capo dello Stato è la seconda carica istituzionale, cioè il presidente dell’Assemblea nazionale (parlamento), a dover assumere la guida del paese.
A poche ore dall’arrivo dei tre presidenti africani e dopo due giorni di consultazioni con tutte le ‘forze vive’ della nazione – partiti politici di maggioranza e opposizione, società civile, capi tradizionali e sindacati – il luogotenente colonnello Zida si sarebbe impegnato a “consegnare il potere ai civili entro due settimane”. Una garanzia data durante i colloqui avuti col capo dei Mossi, la principale comunità del paese, ma anche col presidente della confederazione dei sindacati, Joseph Tiendrebeogo. Dopo l’incontro con Zida, il re dei Mossi ha dichiarato di aver chiesto ai militari di “fare tutto il possibile per avviare un processo di pace nel paese poiché tutti vogliono la pace”.
Il nuovo ‘uomo forte’ ha anche ricevuto l’imam Sana Aboubacar, capo della comunità musulmana, e l’arcivescovo di Ouagadougou, il cardinale Philippe Ouédraogo, che ha già indetto una novena di preghiera “per la pace, la riconciliazione e la giustizia in Burkina Faso” fino al 9 novembre. In una speciale preghiera il cardinale chiede a Dio di “accordare al nostro paese delle istituzioni che garantiscano il benessere, la libertà e la pace”. Dalle dimissioni del presidente Blaise Compaoré, rimasto al potere per 27 anni, nessun leader religioso si era finora espresso pubblicamente. Già nel 2013, con una lunga lettera pastorale indirizzata a Compaoré, i vescovi del Burkina Faso criticavano un “governo sempre più sconnesso dalla realtà e dall’etica sociale”. Lo scorso gennaio, dopo essere stato creato cardinale, in un’intervista alla MISNA monsignor Ouédraogo aveva auspicato che in Burkina Faso “come già avvenuto in Senegal, possa essere avviato un processo di alternanza politica nella pace e senza spargimento di sangue”.

MISNA -
Missionary International Service News Agency

domenica 2 novembre 2014

Il 16 Ottobre Taranto volta pagina

Una giornata storica per Taranto, il 16 ottobre 2014. Una spaccatura netta tra passato e presente.
Un passato che sarà giudicato dal processo “Ambiente Svenduto”, del quale l’udienza preliminare di questo 16 ottobre è appunto l’inizio. Un presente che è quello del non rispetto delle norme, come attesta oggi la Commissione Europea che porta la procedura d’infrazione lanciata a due riprese (settembre 2013 e aprile 2014) contro l’Italia per lo stabilimento Ilva alla sua seconda fase, quella del “parere motivato”. Siamo ad un passo dal deferimento alla Corte di Giustizia.
Ma andiamo per ordine.

Il processo al passato. Esso vede 53 imputati, di cui 50 persone fisiche e tre società, appartenenti al Gruppo Riva, ancora proprietario dell’ILVA, fino a quando non ci sarà l’annuncio formale della vendita ventilata, ma non confermata, che vedrebbe l’Ilva in mano al Gruppo Marcegaglia e al colosso franco-indiano Arcelor Mittal.

Nell’udienza preliminare il Gup Gilli dovrà deliberare sulla richiesta di rinvio a giudizio per l’ex Presidente dell’Ilva (ed ex prefetto di Milano) Bruno Ferrante; per due ex direttori dello stabilimento, Luigi Capogrosso ed Adolfo Buffo; per l'ex addetto alle relazioni istituzionali dell'Ilva, Girolamo Archiná; per il direttore dell'Agenzia regionale per la protezione ambientale della Puglia (Arpa), Giorgio Assennato; per l’assessore all'Ambiente della Regione Puglia, Lorenzo Nicastro (IdV); per l'ex consigliere regionale della Puglia, oggi deputato di Sel, Nicola Fratoianni; per l'attuale consigliere regionale Donato Pentassuglia (Pd); e per l’ex assessore provinciale all’Ambiente Michele Conserva (Pd); per l’ex Presidente della Provincia Gianni Florido (Pd); e per il sindaco di Taranto (Sel) Ippazio Stefàno. Ma soprattutto, per il Presidente della Regione Puglia e Presidente di Sel, Nichi Vendola.

Si, perché il processo al passato e al presente dell’Ilva é un processo alla sinistra tutta, avviluppata nella gestione dell’Ilva-gate e pronta, come sostiene l’accusa, a cedere alle richieste del padrone Riva. Sembra quasi un gioco del destino che la Commissione Europea e la Magistratura, nello stesso giorno, prendano ancora una volta in mano una il passato e l’altra il presente di una città che é stata abbandonata da tutte le istituzioni, che avrebbero dovuto proteggerla e tirarla fuori dai miasmi asfissianti emessi dalla fabbrica e dalla politica ad essa amica.

Il coraggio della svolta Taranto lo ha trovato nelle sue associazioni, che sono state la chiave di volta per uscire dall’oppressione silenziosa nella quale essa é stata relegata. L'inchiesta Ambiente Svenduto è nata nel 2009, a seguito delle numerose denunce delle associazioni ambientaliste. Nel 2007 Peacelink, sulla base del registro europeo Eper, denunciava che oltre il 90% della diossina nazionale veniva prodotto a Taranto. Nel febbraio del 2008 la stessa associazione faceva realizzare delle analisi sul pecorino prodotto da aziende locali i cui capi di bestiame (abbattuti) pascolavano vicino allo stabilimento: la diossina e gli altri inquinanti presenti nel formaggio erano allarmanti.

Ma perché si è dovuta far carico una associazione di commissionare le analisi che hanno portato la Magistratura ad indagare sulla questione ambientale? Perché si é dovuta attivare la stessa associazione per andare a Bruxelles a chiedere che la Commissione intervenisse a difesa della città? Perché il muro di omertà era spaventosamente ampio e talmente potente da sembrare impossibile da scalfire.

Da una parte la Magistratura, dall’altra la Commissione Europea. In mezzo il governo silente, ieri e oggi, che ha sempre minimizzato, che ha cercato di occultare, che ha omesso e finto che a Taranto non accadesse nulla di diverso dalla norma.

La magistratura, per bocca del Gip Patrizia Todisco, ha descritto come “disegno criminoso” ciò che avvenne dentro l’Ilva e dentro i palazzi tarantini, baresi e romani. La politica ha permesso che l’Ilva godesse di una impunità senza precedenti, permettendo così che i profitti dei Riva arrivassero nelle banche estere e disegnando leggi ad hoc per consentire allo stabilimento di produrre senza rispettare le leggi, che venivano di volta in volta cambiate secondo le esigenze dettate dall’Ilva stessa.

La politica ha inoltre fatto e disfatto leggi e decreti nel tentativo di fermare la magistratura.

L’accusa per il Presidente della Regione Puglia Vendola è di concussione con i vertici dell’azienda: la Procura di Taranto gli imputa di aver esercitato pressioni sui vertici dell'Arpa Puglia e in particolare sul suo direttore Giorgio Assennato, affinché ammorbidisse l'azione di controllo verso l'Ilva. Il Sindaco di Taranto, Stefàno, deve invece rispondere di omissione di atti d’ufficio e di non aver dato corso, in qualità di prima autorità sanitaria della città, alle denunce in merito all'inquinamento causato dall'Ilva.

Negli anni, sono stati numerosi gli interventi istituzionali per salvare l’Ilva e metterla in regola con provvedimenti ope legis contestati dalla popolazione. E la Commissione Europea ne prende nota e lo scrive nel testo del parere motivato annunciato stamane. Sei provvedimenti ad hoc per l’Ilva, AIA (autorizzazione integrate ambientale) scritta nel 2011 e poi cambiata diverse volte senza mai essere applicata.

Il processo al presente é ancora più eclatante, perché é molto raro che la Commissione Europea intervenga contro uno Stato Membro quando si tratta di questioni legate all’economia e a gruppi di potere economico. Ma il Commissario all’Ambiente Potocnik ha applicato il diritto europeo in tutta la sua pienezza e ha saputo andare avanti con coraggio e determinazione ammirevoli, in barba a tutte le pressioni che sono state esercitate a Bruxelles.

La Commissione Europea ha annunciato stamane di aver preso nuove misure contro l’Italia a causa dell’impatto generato dall’Ilva. L’Italia, scrive la Commissione, non ha assicurato che l’Ilva operasse in conformità alla legislazione europea sulle emissioni industriali, con conseguenze potenzialmente pericolose per la salute e l’ambiente, così come sanciscono la Direttiva sulle Emissioni Industriali e tutta la legislazione europea in materia ambientale.

La Commissione ha affermato stamane di aver riscontrato una serie d’infrazioni alla legge europea perpetrate dall’Italia (la quale ha il compito di garantire che sul territorio nazionale ci sia una corretta applicazione del diritto europeo). Nel testo si parla del mancato rispetto delle condizioni stabilite dall’AIA, di un’inadeguata gestione di diversi aspetti fondamentali per la protezione della salute e dell’ambiente, e si sottolinea che molti dei problemi riscontrati derivano dalla mancata riduzione dell’alto livello delle emissioni e delle polveri che fuoriescono dalla fabbrica e che mettono in pericolo i cittadini di Taranto.

La Commissione affonda ancora e scrive che gli esami condotti hanno evidenziato un pesante inquinamento dell’aria, del suolo, della superficie e delle acque di falda, sia sul sito Ilva che nella città di Taranto, e che la contaminazione del quartiere Tamburi, adiacente all’Ilva, può essere attribuita alle emissioni che fuoriescono dallo stabilimento.

I permessi per la produzione, scrive la Commissione, possono essere concessi solo se alcune condizioni ambientali sono rispettate. Essi devono garantire che misure di prevenzione adeguate vengano messe in atto perché, si evince, senza applicazione delle legge e dei protocolli previsti non é possibile autorizzare la produzione.

L’Ilva, dice in sostanza la Commissione Europea, opera ancora fuori legge. La politica e la dirigenza dell’Ilva, dice la Magistratura, hanno operato fuori legge.

Il futuro della nostra città non é più nelle mani della politica che tutto ha visto, taciuto e nascosto. Il 16 Ottobre Taranto volta pagina.

Antonia Battaglia
(16 ottobre 2014)