domenica 15 settembre 2013

Mancuso, Scalfari (e Bergoglio)

La verità, vi prego, sui confini dell’amore
di Eugenio Scalfari
in “la Repubblica” del 15 settembre 2013


Tra i tanti articoli che sono stati scritti sulla lettera a me diretta da papa Francesco ce n’è uno di Vito Mancuso pubblicato venerdì scorso sul nostro giornale (“Il Papa, i non credenti e la risposta di Agostino”, riportato INFRA, NdR). Lo cito perché pone un problema che merita d’esser approfondito: chi sono i non credenti, quelli che nel linguaggio corrente sono definiti atei?
Mancuso non è un ateo, anzi è un fine teologo credente, ma la sua è una fede molto particolare e la descrive così: «Credo alla luce che è in me laddove splende nella mia anima ciò che non è costretto dallo spazio e risuona ciò che non è incalzato dal tempo. Quella luce ci permette di superare noi stessi e liberarci dall’oscurità dell’ego, da quella bestia che certamente fa parte della condizione umana ma non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andremo. La fede in Dio lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene orientando l’uomo verso la solidarietà e la giustizia».
Insomma Mancuso crede nel Pensiero che porta verso il Bene. Quel Pensiero è Dio e ci ispira solidarietà e giustizia. Trovo suggestivo questo suo modo di pensare e di sentire. La fede infatti è un sentimento che proviene dall’interno dell’uomo, dal suo “sé” ed erompe verso la mente dove hanno sede il pensiero e la ragione. Sono molte le persone che, rifiutando le Sacre Scritture, la dottrina della Chiesa e la sua liturgia, credono “in qualche cosa” che in parte sta dentro di noi e in parte ne sta fuori. Per metà sono credenti, per un’altra metà non lo sono. La secolarizzazione della società moderna viaggia in gran parte su questa lunghezza d’onda. A me è
capitato più volte di domandare ad amici ai quali mi legano simpatia, frequentazione, comunità di progetti e di lavoro: tu credi? Molto spesso la risposta è affermativa, ma se ancora domando: in che cosa? La risposta è appunto “in qualche cosa”. È un’ipotesi consolatoria, un aldilà incognito che comunque promette un proseguimento della vita “fuori dallo spazio e dal tempo” come scrive Mancuso, oppure è un abbozzo di pensiero che non viene approfondito perché i bisogni e gli interessi quotidiani, la concretezza dei fatti e degli incontri, incalzano e ingabbiano dentro lo spazio-tempo che non può essere facilmente accantonato?
La bestia pensante è esattamente questo: istinti animali che la mente riflessiva fa lievitare. L’essere sta, diceva Parmenide; l’essere diviene diceva Eraclito; l’essere è formato dagli elementi della natura, diceva Empedocle. Qualche tempo dopo arrivò Platone e la sua pianura della verità, i suoi archetipi, modelli trascendenti, punti di riferimento della bestia pensante. Se bestia pensante non piace possiamo nobilitarla chiamandola “homo sapiens”, oppure darle un nome mitologico che la nobiliti ancora di più. Io lo chiamo Eros, non il paggetto alato che accompagna Venere-Afrodite e lancia le frecce per infiammare i cuori, ma una forza originaria del cosmo, signore di tutte le brame e di tutti i desideri. La nostra, prima ancora di essere una specie pensante, è una specie desiderante. Si obietterà che tutte le specie viventi desiderano ed è vero, ma i desideri dell’animale sono coatti e ripetitivi, quelli della nostra specie sono invece evolutivi e da un desiderio appagato ne nasce immediatamente un altro. Perciò noi siamo una specie desiderante perché desideriamo desiderare ed Eros è la forza della vita e ne misura l’intensità.

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C’è una poesia di Auden che ad un certo punto invoca: «La verità, vi prego, sull’amore»; ma delle varie specie d’amore parlano anche, e molto, La Rochefoucauld, Pascal, Leopardi, Baudelaire, ciascuno a suo modo. C’è primo tra i primi, l’amore per se stesso; La Rochefoucauld lo chiamò amor proprio, la mitologia lo chiamò Narciso, il giovane che rimirandosi nelle acque d’un lago si innamorò di se stesso.
L’amore per se stesso è il fondamento della nostra vita perché noi viviamo con noi stessi 24 ore su 24. Se ci odiassimo saremmo vittime di un disturbo mentale che potrebbe arrivare al “tedium vitae” e persino al suicidio. Ma se il narcisismo oltrepassa la soglia fisiologica al punto di escludere ogni altra specie d’amore, allora diventa egolatria, auto-idolatria. È una patologia alquanto diffusa e
molto pericolosa per la società. Poi c’è l’amore per l’altro, la coppia di innamorati, anche questo con molte sottospecie, il rispecchiamento reciproco, l’attrazione sessuale per l’altro sesso oppure per lo stesso, l’amore platonico, l’amicizia amorosa, l’affinità elettiva. Infine l’altra e grandiosa forma d’amore, quella per gli altri, visti come “prossimo”, cioè l’amore per la specie, la fratellanza dei sentimenti, la famiglia. Ricordate il detto evangelico “Ama il prossimo tuo come te stesso”?
Dunque Gesù non escludeva l’amore per sé, e come avrebbe potuto escluderlo visto che era un uomo, fosse o non fosse il figlio di Dio? Il miracolo che si proponeva di compiere era di parificare l’amore per il prossimo a quello verso se stesso, ma poi, quando pensò (o rivelò) d’essere figlio di Dio, allora l’asticella del miracolo diventò molto più alta: non voleva soltanto elevare l’amore verso di sé e quello per il prossimo allo stesso livello di intensità, ma pensò che dovesse abolire interamente l’amore proprio e concentrare sul prossimo tutto il sentimento amoroso di cui ciascuno dispone.
Gli è riuscito questo miracolo? Direi di no, anzi dopo due millenni dalla sua venuta l’amor proprio è diventato più intenso e quello verso gli altri è fortemente diminuito. Se il mio dialogo con papa Francesco continuerà, come spero ardentemente che avvenga, questo credo che potrebbe essere il tema: far crescere l’amore per gli altri almeno allo stesso livello dell’amor proprio. Gesù di Nazareth fu martirizzato e crocifisso per aver voluto testimoniare la scomparsa dell’amore verso di sé. Volle cioè andare oltre la natura della bestia pensante che il Creatore aveva creato.
Il miracolo fallì, ma l’incitamento rimase e fu raccolto dai suoi discepoli, dai suoi apostoli, dai suoi fedeli ed anche dagli uomini di buona volontà. Siano essi credenti nell’Abba, nel Dio mosaico, in Allah, o in “qualcosa” o atei ma consapevoli. Per questo continuo a pensare che il vero culmine del Cristianesimo non sia la resurrezione di Cristo, ma la crocifissione di Gesù, non la conferma dell’esistenza d’un aldilà ma l’esempio e l’incitamento all’amore del prossimo, alla giustizia e alla libertà responsabile nell’aldiquà.

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Questo che segue è un post scriptum sulla politica, anche se aumenta la mia personale noia per la sua attuale ripetitività. Perciò sarò molto breve.
Berlusconi sembra aver perso — come si dice — la trebisonda; eppure il percorso che ha davanti a sé è molto chiaro: dovrebbe mettersi da senatore e, se desidera ottenere provvedimenti di clemenza dal Capo dello Stato, li chieda nelle forme previste dalla legge. A quel punto Napolitano valuterà e deciderà come ritiene più opportuno. Non esistono altre vie e salvacondotti perché nella nostra Costituzione non esiste il “motu proprio” e nessuno può inventarselo.
La legge Severino la si può valutare come si vuole, ma la sua applicazione dipende dal confronto delle diverse opinioni. I senatori del Pdl voteranno compatti per il ricorso alla Consulta, il Pd e quelli che la pensano allo stesso suo modo voteranno contro. Poi si andrà in aula e il voto sarà ripetuto, segreto o pubblico, si vedrà. Tutto questo è normale e proceduralmente corretto ma quale che sia il risultato arriverà circa negli stessi giorni il pronunciamento della Corte d’Appello di Milano sulla durata della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici che completa la sentenza definitiva della Cassazione. Quindi Berlusconi sarà comunque interdetto e i provvedimenti di pena accessoria non rientrano nell’eventuale atto di clemenza che gli venisse concesso.
Parliamo ora del governo Letta. I ministri, a qualunque partito appartengano, quando sono nominati dal Capo dello Stato acquistano una figura diversa da quella di uomini di partito poiché le istituzioni sono titolari dell’interesse generale mentre i partiti hanno ciascuno una propria visione del bene comune.
Infine l’economia. Il timore d’una caduta del governo ha già fortemente danneggiato il nostro Paese. Il valore dei titoli del debito pubblico è diminuito scendendo al di sotto di quello spagnolo. La recessione continua mentre il resto d’Europa sembra uscirne sia pure lentamente. Un provvedimento importante sarebbe l’abbattimento del cuneo fiscale. Penso che Letta dovrebbe deciderlo subito. Non ha risorse sufficienti? Emetta titoli pubblici e ne destini il ricavato a questo obiettivo. Sappiamo che il ministro Saccomanni sta studiando questo problema ed esaminando tutte le possibili alternative, ma non c’è più tempo da perdere e la stessa Bce ci chiede di non guardare
troppo meticolosamente il fabbisogno se lo si destina alla crescita reale. Così pure bisogna muoversi sulla riforma della legge elettorale e per l’abolizione del finanziamento dei partiti già prevista nel disegno di legge all’esame del Parlamento. Se il Parlamento indugia
ancora il governo ponga un limite di tempo ed emetta decreti sui quali porre la fiducia. Questi sono i miei pensieri insieme a quello che ripeto ancora una volta: auspico per il bene del Paese e dell’Europa che Letta continui a presiedere il governo fino al compimento del semestre europeo con presidenza italiana, cioè fino all’inizio del 2015. Se questo avverrà con il dinamismo necessario, saremo anche noi fuori dal tunnel.
Quanto al Pd, sia compatto su questo obiettivo e nel frattempo ricostruisca la sua ammaccata identità di partito riformista della sinistra democratica italiana ed europea.
Buona sera e buona fortuna

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Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 13 settembre 2013

Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti).
Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.
Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti. È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo.
Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.
“Scimmia pensante... bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore. La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4). Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio. Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e
ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.
Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è
umano, procede dall’esperienza dei sensi. Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della
lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico.
Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci
permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.
Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva. Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti. Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le
proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.

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