sabato 29 giugno 2013

Authority

COMUNICATO STAMPA
L'Autorithy ci prova ancora, la delibera che dovrebbe applicare i referendum è una truffa
Il 25 giugno l'Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas ha approvato l'ennesimo provvedimento che elude palesemente l'esito dei referendum del 2011 e che conferma l'atteggiamento di spregio alla volontà popolare tenuto fino ad oggi da parte dell'Autorithy.

L'AEEG doveva deliberare sulle modalità di restituzione ai cittadini della “remunerazione del capitale investo” illegittimamente percepito dai gestori nel periodo compreso tra luglio 2011 e la fine di quell'anno. L'AEEG ha costruito un metodo che garantirà ai gestori un esborso minimo assai minore di quanto dovuto visto che saranno detratti gli oneri finanziari, quelli fiscali e gli accantonamenti per la svalutazione crediti.
Questa metodologia smentisce in primis quanto la Corte costituzionale aveva chiaramente specificato nella sentenza di ammissibilità del quesito, ovvero che qualora il referendum avesse avuto successo “la normativa residua, immediatamente applicabile […], non presenta elementi di contraddittorietà”. Inoltre l'Authority, paradossalmente, non fa altro che confermare ciò che il Consiglio di Stato aveva messo nero su bianco in un parere pubblicato a fine gennaio scorso, ossia che l'applicazione degli esiti referendari “non sia stata coerente - […] - con il quadro normativo risultante dalla consultazione referendaria". Con tale delibera l'affermazione del Consiglio di Stato, rivolta al passato, torna ad essere di drammatica attualità. Inoltre viene completamente contraddetto quanto il Consiglio di Stato aveva stabilito ossia che l'abrogazione del 7% aveva effetto immediato a partire dal 21 luglio 2011.
Ma l'AEEG riesce a compiere un ulteriore capolavoro: sconfessare il TAR Toscana che nella sentenza di accoglimento del ricorso presentato dal Forum Toscano dei Movimenti per l'Acqua aveva sancito che “il criterio della remunerazione del capitale (...) essendo strettamente connesso all’oggetto del quesito referendario, viene inevitabilmente TRAVOLTO dalla volontà popolare abrogatrice...”.
Di fronte all'ennesima dimostrazione della palese intenzione di non voler rispettare la volontà popolare e mettere in discussione gli esiti del referendum come Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua ribadiamo la nostra richiesta di dimissioni dei vertici dell'Authority.
Roma, 28 Giugno 2013

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Luca Faenzi
Ufficio Stampa Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

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I No Tav? Sono un intero popolo

Sbaglia chi crede che a battersi contro l'alta velocità in Valsusa siano solo i grillini, gli ambientalisti e magari i black bloc. Qui, giusto o sbagliato che sia,  c'è una comunità di 40 mila persone (famiglie, operai, contadini) in lotta da vent'anni 
di Tommaso Cerno,
l'Espresso (25 giugno 2013) 

Sotto quel pilone di cemento armato c'è il professor Gigi, che insegna Aristotele e Platone ai No Tav. La pensionata Ermanna, che sforna 20 mila panini l'anno ai sit in. Il pescivendolo Emilio, che regala branzini a chi fa la guerra contro l'Alta velocità. Il benzinaio Agip che lavora per la Erg, mentre il collega è di ronda. E poi gli dà il cambio. C'è la nonna black bloc, protesi all'anca, che tira su nei boschi come una capra: «Prendete me, se ci riuscite!». Sono loro l'altro popolo dei No Tav. L'altra Val di Susa. Quella che pochi conoscono e nessuno racconta mai. Perché si pensa che i fotogrammi di guerriglia nei cantieri di Clarea o della Maddalena, così come i lacrimogeni e i manganelli, siano la protesta più forte e radicale che soffia da queste montagne. Ma non è così. Adesso che è arrivata l'estate e il cantiere scaverà cinque volte più veloce di prima, adesso che sta per essere messa in funzione la "grande talpa", la trivella già nel mirino dei gruppi ambientalisti, "l'Espresso" è tornato a Susa. Per raccontare chi sono gli altri. Quarantamila anime abbarbicate sotto il monte Rocciamelone, in una vallata già sfregiata dalla vecchia linea Torino-Lione, dall'austostrada A32 Frejus e da due statali. Tre generazioni appese al destino di un treno da 300 chilometri l'ora. Nonni, figli e nipoti in guerra contro un mostro d'acciaio.

NUOVA RESISTENZA
Sotto la Sacra di San Michele, il monastero simbolo del Piemonte che dall'alto del monte Pirchiriano sorveglia la grande spianata della Dora, Val Susa ha tutta l'aria di un'italica striscia di Gaza. Larga un paio di chilomentri, lunga una sessantina. A Caprie le bandiere No Tav già sventolano dappertutto. E va così fino a Chiomonte, sopra Susa, e fino al valico del Moncenisio. Ecco, qui non vive solo una comunità montana. Qui non ci sono normali paesi, con i santi patroni e le guerre di campanile. Qui migliaia di famiglie sono in simbiosi fra loro. Legate da un patto d'amore e di lotta più forte del tifo, delle parentele, del voto politico. «C'è il germe di una nuova Resistenza», racconta Maurizio Galliano, assessore del comune di Sant'Ambrogio. Guadagna 120 euro al mese e, quando parla di Roma, grida alla "casta" come Beppe Grillo, che infatti nel suo Comune ha fatto boom. Lui è pronto a lasciare la poltrona per tornare a essere solo un No Tav. Vuole comprarsi un bosco. E mandarci i turisti a sentire i suoni della natura. Non ha paura di pronunciare la parola "scontri". Né di raccontare i lacrimogeni. O i black bloc. E questo perché a Susa il movimento No Tav è, ormai, ovunque. E' come un blob, come l'acqua che tracima. Qui ci si sposa dentro le baracche di legno dei presidi No Tav. Con tanto di foto in abito bianco e bandiera. I bimbi ci fanno la prima comunione sotto quei tendoni diroccati. Qui, per colpa di un treno fantasma, sono saltate amicizie trentennali. Da Franco al ristorante non ci si va con i parenti, che vogliono la ferrovia, ma con gli amici No Tav. Alle feste di paese suonano gratis le bande No Tav. E cucinano i cuochi No Tav. Le maratone sono No Tav. L'Anpi sfila con i No Tav. Gli alpini hanno lo stemma No Tav sul cappello. I tornei di rugby sono No Tav. Il calcio è No Tav. Importa poco se tifi Milan o Juve, importa se tifi treno oppure no. E così per le gare ciclistiche. Come quelle che corre Aldo Giuliano, 49 anni, del Velo Club Val Susa. Pedala in Italia e in Francia senza bisogno di un tunnel, dice. E sulla sua maglia c'è solo una scritta.
Anche il tempo che passa, in Val di Susa, è No Tav. I calendari sulle pareti non mostrano seni nudi, né frati che vaticinano il futuro. Raccontano picchetti, sit in, proteste, botte nel cantiere. I fumogeni della polizia sono i loro fuochi d'artificio a Capodanno. E le ferite da manganello le loro stigmate a Pasqua. Alla scuola elementare, insieme ai libri di testo, si leggono le favole scritte dalle maestre della valle. C'erano una volta i partigiani, oggi ci sono i No Tav. E ancora il festival del cinema è No Tav. E pure la fiera della lettura: "Una montagna di libri contro il Tav". Se vai al bagno, non c'è scritto di lasciare pulito. C'è scritto così: «Ricordati che l'acqua è un bene comune». E qui ci credono.

GANDHI TRA I MONTI
Chi liquida la questione Susa con i black bloc, insomma, si sbaglia di grosso. Chi la mette giù parlando di violenti contro uomini del fare, sbaglia anche lui. Non è storia facile, la protesta di Susa. Né è storia di questi mesi. Tutto comincia nel 1990, dentro uno sgangherato cinema di paese. Si sente un boato. Poi un treno che passa. Non sono i fratelli Lumière e quel coso non va a vapore. E' il Tgv francese, lanciato a tutta velocità nelle vallate. A portarlo in quella sala è stato Mario Cavargna, ingegnere del Politecnico di Torino. Ha fissato su un nastro l'urlo di quel serpente di lamiera e l'ha fatto ascoltare ai valsusini. In quei mesi sono nate Habitat e Pro Natura, antenate di una rivolta che oggi ha più di vent'anni.
Quel giorno c'era anche Gigi Richetto. Di mestiere professore di filosofia al liceo scientifico di Bussoleno. Un tipo esile, serafico, con due occhi celesti che trapassano. Da queste parti lo conoscono tutti, eppure nei Tg nessuno parla di lui. Zoppica sul piede sinistro, la voce è un sussurro. Mai uno scatto d'ira. Bene, questo signore è il leader spiriturale dei No Tav. Qualcuno qui lo chiama "Gandhi". E chi è salito in questi anni al presidio di Venaus, o a Vaie, ha potuto vederlo all'opera con la moglie Maria. Come il suo amato Aristotele, a passeggio sui prati alpini, fa lezione di filosofia ai No Tav. Non parla di traffico merci. Né di linee ferroviarie. Per quello ci sono gli ingegneri: «Io insegno la filosofia resistente», racconta a "l'Espresso", «perché la nostra è una democrazia dei corpi, noi siamo sempre in marcia, e non solo contro un'opera inutile, uno spreco di miliardi, soprattutto in difesa della democrazia». E gli assalti? E la violenza? E la guerriglia? «Qualcuno vorrebbe ridurre il movimento No Tav a una questione di ordine pubblico, ma non è così. Negli scontri furono fatte cose canagliesche dallo Stato: bruciarono i libri. E' da lì che abbiamo organizzato le lezioni di filosofia nel campeggio No Tav, prima a Chiomonte, dove la polizia tirava i fumogeni, poi altrove. L'idea è trasmettere il senso della misura. E' stata commessa una violenza e non vogliamo cadere nella stessa tracotanza. Eppure nessuno racconta questo, agli occhi dell'opinione pubblica i violenti saremmo noi».    
Che sia lui a mettere in bella la parabola dei No Tav, lo si capisce pure al mercatino di Condove. Perché là parlano tutti come Richetto. Il salumiere, la parrucchiera, l'ambulante venditrice di cappelli, gli studenti e gli operai. E basta sfogliare un libro di storia della Val Susa per capire che nemmeno questo è un caso. I No Tav, da queste parti, sono nati prima ancora dell'Alta velocità. Siamo nel 1970, quando il treno più moderno faceva poco più dei cento all'ora. A Bussoleno si parlava solo della Moncenisio, la prima fabbrica in Italia a sospendere la produzione di armi su imposizione degli operai. A guidarli c'era Achille Croce, classe '35, nativo di Condove. Ed era lui, prima di Gigi, il Gandhi della vallata. Attorno a quel voto molti volti noti dei No Tav di oggi, a partire dal leader Alberto Perino. Fino a Richetto, che ospitava l'operaio pacifista nel suo liceo. Anche allora a far lezione di filosofia. Anche allora ai ragazzi della vallata.

SPIRITELLO GIACU
A guardare la rete metallica che ingabbia il cantiere, il filo spinato, il Lince di guardia, l'esercito dispiegato e tutto il resto, ti domandi dove corra, a Susa, il sottile confine fra guerra e pace. Da queste parti la risposta è "Giacu". Già. Proprio come nelle leggende dei pellerossa, di notte, fra i pini, senti spesso invocare lo spiritello: «Giacu! Giacu! Giacu! Uhuhuh...». Mette i brividi ascoltare gli ululati, lungo il sentiero che porta in Clarea, sotto la cima dell'Ambin, dove il cantiere del Tav si sta inghiottendo roccia e bosco. Perché Giacu non è solo leggenda quassù. Giacu prende vita quasi tutte le notti. Da Susa come da Bussoleno, da Caprie come da Sant'Ambrogio, i più combattivi della vallata salgono al cantiere dopo il tramonto. Un modo per farsi sentire. Per tenere alta l'attenzione: «E' lì che evochiamo Giacu. Qualcuno grida da nord, qualcun altro da sud», racconta Emilio Scalzo, il pescivendolo della Val Susa. Al mercato non c'è un ambulante che non lo saluti come un fratello. Siciliano, fronte larga, pelle di cuoio, mani come badili, sguardo dritto. Lui sta con la gente, ma sta anche nel ventre della montagna a lottare. Lui un confine netto fra guerra e pace non ce l'ha, né vuole erigerlo: «Quando i poliziotti sentono chiamare Giacu, cercano di capire quanti siamo e da dove veniamo. E noi ci spostiamo sempre e grattiamo con le pietre sui cancelli. Facciamo rumore, serve a tenerli svegli, visto che il governo ci ripete che quel cantiere lavora 24 ore su 24», ride amaro: «Questo è Giacu. L'anima della montagna. Siamo noi. Io, prima dei No Tav, avevo pregiudizi sui centri sociali e sui no global. Oggi dico che sono ragazzi meravigliosi. Il No Tav ci ha aperto la mente. Ci ha fatti adulti».

LAUDATE SUSA
Capita pure di incrociare una Panda lanciata a bomba sulla Statale 25 del Moncenisio. Al volante una signora bionda, sui cinquanta, che sorride sempre. Si chiama Gabriella e, ogni santo giorno, si fa tutta la vallata per raccogliere pellegrini. Già, pellegrini. Lei è cristiana, cattolica, osservante. E quella via Francigena che passa per Susa è il suo cammino di Santiago, fino al cantiere del Tav. Sono una quarantina di minuti, se non sei un alpinista provetto. Li chiamano i "cattolici per la vita della valle" e pregano là, dove giornali e tivù tante volte hanno mostrano violenza e feriti, dove la montagna s'è piegata alle ruspe: «Iubilate deo, Alleluya», intona Gabriella. E gli altri dietro. A volte dieci. A volte cento. Tutti in cerchio attorno alla statua di San Pio da Pietrelcina, proprio sotto i piloni dell'autostrada. Prima avevano la loro colonna votiva. Poi se l'è inghiottita il cantiere che avanza. «Preghiamo per la Val di Susa, ma anche per un mondo più giusto, dove le persone siano rispettate, aiutate dal potere politico e non umiliate e depredate».
I soldati di corvée a bordo del Lince, in questo piccolo Afghanistan in terra di Barolo, hanno l'ordine di presidiare ogni angolo. Basta che un'ombra s'allunghi lungo il costone del monte, che quelli si mettono in assetto. Binocoli, radio, piantoni. Con i pellegrini, però, c'è imbarazzo. Alcuni militari salutano con la mano, altri no: «Una volta ci siamo persi nei sentieri durante uno scontro», racconta Angela: «Siamo finiti in bocca a un plotone. Finché una donna poliziotto ci ha aiutati. Io l'ho abbracciata, nonostante fosse della polizia. E ho pensato che Cristo, ogni tanto, manda anche a loro un po' di umanità. C'è diffidenza, ma sono cristiani». La questione non è, però, di fede. E' che Stato e cittadini, qui a Susa, hanno il divieto di parlarsi. Poi, fuori, cambiano registro anche gli agenti: «Se ci mandano qui, noi che possiamo farci? Lavoriamo tantissimo, senza un euro di straordinario. E sembriamo noi i nemici». Nemici no, ma divisi da qualcosa di più del filo spinato, quello sì. E sorvegliati da un occhio più attento delle telecamere a circuito chiuso.  
A pochi passi c'è il campo della memoria, un minuscolo cimitero di guerra che ormai dista poco dalle fauci del mostro. Ancora qualche metro e appare un villaggio neolitico. Grotte e antri come in un film. Rischia di essere inghiottito dalle ruspe pure quello, ma chissenefrega nel Paese che lascia crollare Pompei. Per i No Tav sarebbe l'ennesimo sfregio alla valle: «Sugli alberi ci avevamo costruito le case di legno, per presidiare il cantiere. I poliziotti ce le hanno abbattute. Resta qualche trave incastrata fra i rami. Ma fu un'esperienza straordinaria. I vecchi mandavano i ragazzi in cima ai castani e insegnavano loro a usare la motosega, a battere i chiodi, a legare gli steccati. Per difendere la Val di Susa c'è stato un passaggio di saperi, di tradizioni», racconta Federico. Poi indica un castagno col tronco grosso come un pilone dell'A32. In tre non si riesce ad abbracciarlo: «E' stato piantato 270 anni fa, prima della Rivoluzione francese. Ce n'era un intero bosco, serviva per fermare le frane. Se noi tagliamo un ramo secco finiamo nei guai con la Forestale, loro hanno abbattuto centinaia di alberti secolari». E il problema si riproporrà a breve proprio con quel castagno. La polizia teme che l'estate sarà calda anche per questo. Ma loro ci sperano ancora. Fra sacro e profano: «Ci sono Cristo e Giacu a proteggere la valle».

DONNE CONTRO
Se segui per Chianocco, dove avrebbe dovuto passare il Tav nel vecchio progetto, sbatti su una baita coperta di edera. Dentro ci passano le giornate tre pensionate. Si chiamano Ermanna Ronca, Lilia Biancodolino e Marina Martin. Per riportare lavoro in valle, si sono comprate pecore e capre. Filano la lana e hanno messo in piedi una scuola di cucito. Fanno maglie e coperte per scaldare i No Tav durante i sit in. Da buone mamme, hanno aperto pure la scuola di cucina e sfamato un milione di persone dal '91, quando ci fu la prima manifestazione: «Facciamo migliaia di panini in pochissimo tempo, ormai, e ogni euro finisce al movimento. Ognuno paga quanto può. Se hai un euro, costa un euro, altri poi magari te ne lasciano 10 o 20». Ultima trovata è il corso di Tai Chi. Non per moda, «l'arte cinese insegna a restare in piedi per ore senza dolori», spiega Marina che ha cresciuto figli e nipoti a pane e No Tav. A sei anni, i bimbi sono già in piazza. Quando a Susa è passato il Giro d'Italia c'erano le scorte della polizia. I bambini le hanno viste e hanno cominciato gridare: «No Tav, No Tav, No Tav!». Ai tempi degli scontri di Venaus, invece, le strade furono chiuse e gli scolari obbligati a mostrare i documenti per andare in classe. Così pure le vecchine in visita al camposanto: «Dicono che siamo violenti, ma da noi non parte nemmeno un'oliva. Ci ha viste? Invece una mia amica è stata calpestata, un'altra picchiata», sussurra Ermanna, che ha due protesi alle gambe, ma scala i monti quando c'è da fare un presidio. Lilia, poi, ha lasciato il marito all'ospedale. «Doveva operarsi di tumore, gli ho detto: "Amore, andrà tutto bene, ma io non ci sarò. C'è il presidio No Tav. E noi non possiamo essere da un'altra parte". Era d'accordo anche lui».
Un'altra volta, sotto la neve di dicembre, migliaia di persone si sono messe in fila dal notaio. Volevano comprare un metro quadrato di terra. In Val Susa non vale molto, ma per loro era l'affare della vita. Perché quel puzzle di famiglie, omonimie, comproprietà poteva far saltare l'iter degli espropri. «Lo Stato ha sempre strumenti per batterci», scuotono la testa. «Ma quel giorno ognuno di noi aveva la coscienza di un pellerossa, con la tenda piantata sul suo metro di terra, ad aspettare i sudisti pro Tav».

AIUTO, ETINOMIA
Non son tutti di Susa, però, i veri valsusini. Daniele Forte, per esempio, è un ingegnere di 37 anni. Ha lasciato Torino per salire fin qui. S'è comprato una baita a Rubiano e ci vive con la moglie. Non cercava silenzio, né fiordalisi o scoiattoli: «Sono venuto qui perché c'era il movimento No Tav. Tanti da Torino lo stanno facendo. In questa valle c'è un fenomeno unico in Italia, si sta vivendo una rivoluzione». Una rivoluzione che, da due anni, ha un baricentro. Si chiama Etinomia, da etica ed economia, è un'associazione come le antesignane Habitat e Pro Natura negli anni Novanta. Daniele è il presidente e da mesi riceve mail da mezza Europa. Gruppi, movimenti, associazioni che vogliono importare il modello Susa. E poi si scrive con i giovani turchi di Istanbul, che seguono da tempo i No Tav. Chi pensa a Etinomia, insomma, come un'azienda, non ha capito bene la musica. «Se cerchi un idraulico in Val Susa, chiami Etinomia. Se ti serve un elettricista, telefoni a Etinomia», spiega Daniele. Qui tutto è No Tav. Quando il barbiere Mario è finito ai domiciliari dopo gli ultimi scontri al cantiere, Etinomia in poche ore ha messo in piedi una catena di solidarietà. E nel negozio di Bussoleno si sono alternati i barbieri di tutta la valle, senza pretendere un euro: «E' il superamento del concetto di concorrenza, si può dire che noi siamo il "sì" dentro il "no" di questo movimento. Se lo Stato pensa di fermare questo processo, possiamo dire che ha già perso».
Ogni giorno, Etinomia aiuta qualcuno. I ragazzi sfigurati dall'esplosione di un ordigno bellico. Le famiglie dei bikers morti in strada. Le donne incinte che perdono il lavoro. Un welfare alternativo allo Stato, che unisce migliaia di valsusini. Dal riccone che ha ristrutturato "il fortino" romano, offrendolo gratis per matrimoni, anniversari e feste comandate. Fino a chi deve tirare sull'euro. Così, se di sera non sai che fare, niente discoteca. In Val Susa c'è di sicuro un convegno di Etinomia. E là centinaia di persone che sorridono. Più che sulla pista da ballo. 

venerdì 28 giugno 2013

Bisignani e l'Italia occulta

L'uomo che sussurra ai potenti”, edizioni Chiarelettere, è in testa alla classifica dei saggi italiani. L'autore è il vicentino Paolo Madron, 57 anni tra due giorni, milanese d'adozione, giornalista economico di vaglia, già vice a Panorama, ora direttore del quotidiano on line Lettera43. Con lui Luigi Bisignani, 59 anni, faccendiere, amico dei potenti, a sua volta potentissimo: sa di Grillo e degli Usa, di tangenti, di P2 e P4, di Ior e congiure. 
Quasi più dei contenuti, incuriosce il fatto che Luigi Bisignani abbia deciso di parlare. Come è accaduto?

Con Bisignani ci conosciamo da quando era alle relazioni esterne del gruppo Ferruzzi. L'ho rivisto l'estate scorsa, alla fine degli arresti domiciliari per l'inchiesta P4: gli ho detto “sono 30 anni che sei al centro delle vicende economiche e politiche, avrai qualcosa da raccontare”. Mi rispose un no secco. Dopo due giorni mi richiamò e ammise che non era una cattiva idea.
Che cosa lo ha spinto... catarsi o la voglia di essere di nuovo al centro delle trame?
Credo che sia finito per lui il tempo in cui stare dietro le quinte. «Era uno sport nazionale ogni volta che c'era un intrigo chiamarmi in causa, adesso basta, racconto io» mi ha spiegato. È in fondo il bilancio di un sistema arrivato al capolinea, Bisignani fa i conti con 30 anni di poteri prendendone le distanze. Oggi fa il consulente, credo alla luce del sole.
Avete registrato tutto, visto che si tratta di materiale così delicato?
Abbiamo lavorato su appunti che lui mi passava e io rivedevo e sistemavo in forma di intervista: in realtà il libro in una prima stesura era di 500 pagine, ne abbiamo eliminate oltre 150... C'era tanto altro da scrivere, forse preludio a “L'Uomo che sussurra 2”. A fine marzo abbiamo chiuso il testo, ma non abbiamo fatto in tempo a presentarci al Salone di Torino perchè tre studi legali hanno voluto più tempo per esaminare tutto.
Nella prima presentazione lei e l'editore Chiarelettere avete parlato di pressioni per non farlo uscire.

In realtà minacce non ne sono arrivate, qualche telefonata a lui sì del tipo “ma che senso ha”, “perchè parlate di quella cosa”. Dopo la trasmissione su La7 con Mentana si è fatto vivo l'aministratore delle Ferrovie invitandoci alla prudenza. Un libro che dà fastidio ma che Bisignani ha certamente usato per lanciare messaggi. Lo si ascolta e si pensa: «Sa molto più di quel che dice».
Sicuramente il libro si presta a molte interpretazioni e ci saranno messaggi rivolti a qualcuno. Se mi ha usato non lo so, ma questo è un problema che ogni giornalista ha quando gestisce delle fonti di un certo tipo. Devo dire che avere Bisignani ex giornalista come partner di scrittura e per di più come mia fonte per anni è stato un gioco scoperto. Spesso questi personaggi li usi, altrettanto si viene usati. Un rischio da correre.
Un giornalista come lei non si sorprende di nulla, ma ci saranno episodi sui quali le rilevazioni le hanno fatto più effetto...

Sicuramente il racconto dei fatti di sesso in Vaticano, oppure le rivelazioni sullo Ior, sul caso di Emanuela Orlandi così come la congiura interna al Pdl contro Berlusconi ordita da Alfano e Schifani. Molto interessante la parte sui servizi segreti, su come funzionano... lì siamo proprio bordeline. Ho avuto la sensazione di scrivere un centesimo di quello che si potrebbe.
Quarta edizione, 70 mila copie in un mese. Chi compra questo libro?

Non solo gli addetti ai lavori, ma anche il grande pubblico che vuole addentrarsi nei mille misteri italiani. C'è poco gossip nel senso tradizionale: si raccontano i vezzi di Gheddafi, quello che c'è sulla tavola del Papa, gli hobby du Andreotti... ma niente olgettine. Bisignani è divertente nel raccontare le abitudini private dei suoi interlocutori ma ad esempio è stato fermo sulle cene di Arcore, non ne ha voluto parlare. Io chiedevo di sapere, non c'è stato verso.
Il capitolo più complesso?
Forse la maxi tangente Enimont. Alla fine viene da concludere che è proprio Bisignani a rappresentare meglio l'Italia degli ultimi 30-40 anni, quella che si regge sui poteri occulti. Credo che il libro faccia percepire con chiarezza come in questo Paese a livello pubblico si continui a ripetere che bisogna premiare il merito e le capacità ma in realtà nessuno lo pratica. Dalla prima alla terza Repubblica continua a funzionare diversamente: vale solo il sistema di relazioni di cui si fa parte, la copertura dei poteri che uno ha, a tutti i livelli. Anche manager apparentemente solidi mostrano di dover appartienre a gruppi e logiche trasversali per poter restare al loro posto o in primo piano. È un mutuo soccorso di società segrete, di patti, di logge, di una rete, di amicizie e favori. Bisignani parla più del passato remoto e prossimo che del presente. È stato reticente su molti aspetti ma ha voluto svestirsi di quell'anima nera che gli hanno sempre attribuito. Dice: non sono un lobbista, non sono un faccendiere. Ha certamente esercitato un grandissimo potere con abilità ed intelligenza, attraversando governi diversi da Berlusconi a D'Alema a Prodi, rimanendo praticamente nell'ombra. Fino al funerale di Andreotti non c'erano sue foto recenti in circolazione. Il fatto di fare regìa è molto cardinalizio. Del resto lui è stato vicinissimo ad Andreotti e ad alcune personalità vaticane: c'è molta romanità nel libro, qualcosa avrà pur imparato.
Reazioni dal Vaticano?
 In alcuni passaggi “L'uomo che sussurra ai potenti” sembra il proseguimento di “Vaticano Spa” e “Sua Santità” di Nuzzi.
Che io sappia nessuna reazione. Intanto è cambiato il Papa.
Reazioni dal Corriere della Sera? Il direttore De Bortoli non sarà stato felice di essere indicato tra quelli che consultavano regolarmente Bisignani..
Avevo informato De Bortoli, per questioni di amicizia personale, una settimana prima dell'uscita del libro di quanto lo riguardava. So che alcuni colleghi del Corriere si sono ben guardati dal portare il libro in redazione ed hanno preferito consultarlo fuori. Non c'è l'indice dei nomi in fondo: è quasi fatto apposta, tutti devono cercarsi nelle pagine.
Si è reso conto dell'effetto delle rivelazioni?
Ho chiuso con la consapevolezza che sarebbe stato un libro importante e col sollievo di un libro rapido da scrivere... molto di più di quello con Cesare Romiti.


Nicoletta Martelletto,
Giornale di Vicenza del 28.06.2013

mercoledì 26 giugno 2013

Altreconomia ha bisogno di noi

In anteprima, l'editoriale del direttore, dal numero 151 di Ae
Altreconomia ha bisogno di voi  
Pietro Raitano - 25 giugno 2013
 
La carta stampata e l'informazione in generale vivono un momento di crisi. Una possibile risposta al calo delle vendite, è il ricorso massivo alla pubblicità (che pure arranca). Noi, però, abbiamo fatto scelte diverse: non vogliamo avere "editori occulti", né accettare inserzioni non in linea con l'etica e il manifesto della nostra rivista.
Il nostro appello così, è rivolto a voi lettori: abbonatevi ad Altreconomia. Solo così potremo continuare a fare il nostro lavoro, che oggi è a rischio 
 
Qualche settimana fa, il lettore di un ottimo settimanale di rassegna stampa internazionale ha inviato al direttore della testata una lettera.
Vi sottolineava il “certo effetto” che aveva provato nel vedere una pubblicità della società Benetton proprio dopo un articolo in cui si raccontava della tragedia del crollo di una fabbrica di abbigliamento in Bangladesh, di cui Benetton probabilmente si serviva. Il direttore della rivista ne ha preso spunto per farne l’editoriale, rispondendo in sintesi che la pubblicità permette di pagare i diritti per gli articoli tradotti e mantenere basso il prezzo di copertina, senza compromettere l’indipendenza delle scelte redazionali (come proprio la presenza del pezzo sul crollo dimostrava).

Non è uno scoop ricordare la crisi economica della carta stampata e dell’informazione in generale. Basta qualche dato: secondo la Fieg, la Federazione italiana degli editori di giornali, nel 2012 e per il quinto anno consecutivo il settore registra dati negativi. I quotidiani da soli hanno perso oltre un milione di copie vendute al giorno, il 22%. Dal 2006 a oggi i periodici hanno perso 800 milioni di euro di ricavi, il 27%.
In questo contesto di cali delle vendite, la pubblicità ha quindi un ruolo strategico. Nei primi 4 mesi del 2013 le inserzioni hanno portato agli editori 2,1 miliardi di euro, il 18,7% in meno rispetto allo stesso periodo del 2012 (dati Nielsen). Sono andati persi quasi 500 milioni di euro. Da sola la televisione si è accaparrata il 57% del totale. Crollo per quotidiani e periodici (rispettivamente -24,8% e -23,9%). La crescita del mercato della pubblicità on line (+1,4%) non arriva nemmeno lontanamente a tamponare il calo totale. Internet nei primi 4 mesi del 2013 ha portato in tasca alle testate on line 164 milioni di euro, 2 milioni in più rispetto al 2012. Secondo la Fieg, il 2012 è stato il peggiore degli ultimi 20 anni per investimenti pubblicitari.
Dal combinato di questi fattori è facile trarre una conclusione: l’informazione arranca, ci sono sempre meno soldi per pagare giornalismo di qualità, la pubblicità -che, solo per i periodici, costituisce il 20% delle entrate- è ossigeno irrinunciabile.
Un altro lettore del settimanale di cui sopra ha replicato al direttore, chiedendogli “Senza la pubblicità di Benetton il buon giornalismo avrebbe le gambe per camminare? Se sì, perché non rinunciarvi? Altrimenti, siamo sicuri che nel legame tra inserzionista ed editore quest’ultimo abbia davvero l’ultima parola?”.
Noi aggiungiamo altre due riflessioni, dalle quali discendono le scelte che abbiamo fatto in materia. La prima: dando per scontata l’indipendenza delle scelte redazionali, accettare pubblicità di aziende il cui comportamento consideriamo scorretto vuol dire accettare soldi che da quel comportamento in qualche modo derivano. La seconda: pubblicare una pubblicità vuol dire contribuire alla filiera commerciale dell’azienda che l’ha promossa, ovvero accreditare l’azienda agli occhi dei lettori. In sostanza, vendere pubblicità vuol dire vendere l’attenzione dei propri lettori, consentire a una società (e al suo messaggio) di raggiungerli facilmente, con una sorta di corsia preferenziale. Allora ci chiediamo: è lecito accettare inserzioni, ad esempio, sessiste? O che spingono al gioco d’azzardo? O che addirittura siano delle truffe, come tanti banner on line? È neutro avere sul proprio sito i proclami di politici dalla dubbia reputazione, o banner che rimandano a video hard di questa o quell’altra starlette televisiva? È un dilemma cui di recente è andato incontro anche Le Monde, la cui redazione ha deciso di pubblicare un’inserzione contro i matrimoni omosessuali, provocando reazioni molto decise tra i lettori (e l’editore, tra l’altro).

Noi abbiamo fatto scelte differenti che costano caro, ma sulle quali non torneremo indietro.
Ma anche noi dobbiamo fare i conti con un calo dei ricavi, che oggi mette a dura prova il proseguimento della nostra esperienza editoriale.
Pertanto, prima di lasciarvi per la pausa estiva con questo numero doppio, vi lanciamo un appello: se pensate che il lavoro che facciamo sia importante, abbonatevi, fate abbonare i vostri amici, regalate abbonamenti ad Altreconomia. --- 

Altreconomia ha bisogno di voi!

giovedì 20 giugno 2013

Se ARPA suona...

Nel corso dell'ultima riunione del Comitato Locale di Controllo della scorsa settimana, il giorno 13/6/2013, ARPA ha confermato che durante l'incidente occorso all'inceneritore del Gerbido il 2 e 3 maggio 2013 non si sa che emissioni inquinanti ci siano state, perché la centralina di controllo posta a camino (e costata 1.65 milioni di euro) è andata in black-out...
ARPA ha evidenziato che i comportamenti di TRM durante l'incidente sono stati ritenuti non pienamente conformi alle autorizzazioni ambientali, e pertanto ARPA stessa ha segnalato il comportamento di TRM alla magistratura.
Non sono stati forniti paricolari su questi "comportamenti" poichè -ha detto ARPA- coperti dal segreto istruttorio. E' tutto questo solamente 2 giorni dopo l'entrata in funzione dell'inceneritore !

Insomma, nel momento più critico quando sarebbe stato necessario il massimo controllo, la centralina di controllo delle emissioni a camino era spenta, pur essendo teoricamente collegata al quadro elettrico del gruppo elettrogeno di emergenza. Come mai?
Forse "per sbaglio" è stata scollegata per evitare che rilevasse picchi elevatissimi di emissione, ben dimostrati dal fumo nero delle fotografie? Oppure la gestione di un impianto altamente inquinante viene fatta in maniera approssimativa e superficiale? Tentativo doloso di insabbiare dati scomodi o incapacità? Lo stabilirà la magistratura.
Sul sito il comunicato stampa ufficiale inviato a tutte le redazioni.

Ricordiamo come sempre l'iniziativa in corso della raccolta fondi per le nostre analisi
5 EURO PER DIFENDERCI DALL'INCENERITORE.
http://www.rifiutizerotorino.it/index.php/donazioni/don-analisi-mediche
(un piccolo gesto, 5 euro, un giro di caffe' offerto ai vostri amici, anche per chi ha gia' donato).


TENETE INFORMATI I VOSTRI AMICI ! INOLTRATE LE NOSTRE EMAIL !
A presto

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Per rimanere aggiornati sui banchetti e sulle attività del Coordinamento, consultare periodicamente il calendario sul sito www.rifiutizerotorino.it

Scomunica “temporanea” per un sacerdote dichiaratamente massone

grand oriente di Francia Capita (purtroppo) raramente. Ma a volte capita che gli eccessi – specie di taluni sacerdoti ‒ vengano puniti con la fermezza richiesta da Magistero e Tradizione. È quanto verificatosi nel caso di don Pascal Vesin, di 43 anni, Parroco a Megève, nell’Alta Savoia: secondo quanto rivelato dall’edizione on line del settimanale “L’Express”, il reverendo è stato destituito dal proprio ministero grazie all’intervento del Vaticano. A far problema la sua appartenenza alla massoneria francese, appartenenza cui non aveva alcuna intenzione di rinunciare, benché assolutamente incompatibile con la Fede Cattolica. Tanto da indurre Roma ad assumere una sanzione ritenuta assolutamente eccezionale da Claude Legrand, Segretario della Grande Loggia Nazionale di Francia: resta sacerdote, «ma senza il diritto d’esecitare», come precisato dalla Diocesi d’Annecy, da cui dipende la Parrocchia.
«Da qualche tempo sulla mia testa pendeva questa spada di Damocle ‒ ha dichiarato candidamente il prevosto – ma non pensavo che giungessero a tanto», dimenticando forse come la Dichiarazione emessa in merito il 26 novembre 1983 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, con specifica approvazione di Papa Giovanni Paolo II, ribadisca la condanna e la diffida relativa all’appartenenza alle “logge”: «I loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la Dottrina della Chiesa, perciò l’iscrizione ad essa rimane proibita – si legge. ‒ I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione». Per questo don Vesin ha ricevuto una “scomunica temporanea” con il divieto assoluto di ricevere i Sacramenti, secondo quanto previsto dalla vigente norma. Anche se lui sembra non riuscire a capacitarsene, ritiene la guerra tra Chiesa e massoneria un residuo della Terza Repubblica ed anzi sostiene che oggi «non sia più di moda».
Don Vesin è entrato a far parte nel 2001 di una loggia del Grand’Oriente di Francia, prima obbedienza massonica nel Paese, spesso oltre tutto evidenziatasi per le sue posizioni giudicate decisamente anticlericali. Nel 2010 una fonte anonima aveva rivelato al Vescovo di Annecy, mons. Yves Boivineau, la doppia appartenenza dell’ecclesiastico, che in un primo tempo aveva negato. Nel 2011 tuttavia la voce era tornata a circolare con insistenza e questa volta il sacerdote aveva dovuto confessare, rifiutandosi, nonostante gli fosse stato esplicitamente chiesto, di lasciare la massoneria, definendola anzi «complementare» alla Chiesa ed apprezzandone l’«intervento nelle questioni sociali». Senza successo i tentativi esperiti dal Vescovo nella speranza di un suo ravvedimento. «Ci tengo a questa libertà di pensiero e di parola che mi viene ispirata dal Vangelo», aveva provocatoriamente ribattuto don Vesin. Nel marzo scorso la Congregazione per la Dottrina della Fede ha assunto quindi il netto provvedimento, definito una sorta di “medicinale” da un comunicato della Diocesi, in cui si specifica come la punizione «possa esser levata», nel caso il Parroco “ribelle” giunga a miti consigli e decida finalmente di lasciare la loggia. V’è da chiedersi, se questo basti: pare che nella sua Parrocchia il sacerdote fosse conosciuto per le sue posizioni iconoclastiche. Inoltre, si sarebbe pronunciato a favore del matrimonio dei preti e delle “nozze gay”, che a suo avviso la Chiesa «sbaglierebbe a combattere», poiché ciò farebbe percepire «una forte puzza di omofobia».
Una vicenda che solleva due gravi interrogativi: 1) anche nel caso il Parroco in questione rinunciasse al grembiulino, v’è da chiedersi che affidabilità possa dare ai suoi fedeli ed alla Chiesa; 2) quanti altri sacerdoti si trovano oggi nella stessa situazione di don Vesin? Secondo il Segretario, Claude Legrand, alla Gran Loggia Nazionale di Francia apparterrebbero circa 26.000 sacerdoti. E nel mondo? 

sabato 15 giugno 2013

F-35: nuovo appello

Pubblichiamo l’appello promosso da Ascanio Celestini, Luigi Ciotti, Riccardo Iacona, Chiara Ingrao, Gad Lerner, Savino Pezzotta, Roberto Saviano, Cecilia Strada, Umberto Veronesi e Alex Zanotelli in vista della discussione alla Camera dei Deputati della mozione – sostenuta da 158 deputati SEL, PD e M5S) – che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al programma dei cacciabombardieri F-35.

"Nei prossimi giorni la Camera dei Deputati discuterà una mozione di 158 parlamentari di Sel, Pd e M5S che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al programma dei cacciabombardieri F-35 Joint Strike Fighter.

In linea con le richieste e indicazioni della campagna «Taglia le ali alle armi» (che dal 2009 si batte contro i caccia) sosteniamo questa nuova iniziativa parlamentare e tutte quelle che si renderanno necessarie per bloccare una scelta così sbagliata.

Spendere 14 miliardi di euro per comprare (e oltre 50 miliardi per l'intera vita del programma) un aereo con funzioni d’attacco, capace di trasportare ordigni nucleari, mentre non si trovano risorse per il lavoro, la scuola, la salute e la giustizia sociale è una scelta incomprensibile che il Governo deve rivedere.

Per questo chiediamo a tutti i Deputati di sostenere questa mozione e tutte le iniziative parlamentari tese a fermare il programma degli F35 e a ridurre le spese militari a favore del lavoro, dei giovani, del welfare e delle misure contro l’impoverimento dell’Italia e degli italiani".

Ascanio Celestini, Luigi Ciotti, Riccardo Iacona, Chiara Ingrao, Gad Lerner, Savino Pezzotta, Roberto Saviano, Cecilia Strada, Umberto Veronesi, Alex Zanotelli
* * *

Dopo le dichiarazioni critiche sul progetto in campagna elettorale (provenienti dalla stragrande maggioranza dei gruppi politici), dopo che la campagna “Taglia le ali alle armi” aveva sottolineato l’esistenza in linea di principio di una maggioranza parlamentare per il “NO” al progetto Joint Strike Fighter, sono oggi dieci personalità di rilievo nazionale a lanciare un appello che si allinea alle richieste del movimento che si oppone ai caccia F-35.

Un appello diffuso in vista della discussione alla Camera dei Deputati di una mozione (sostenuta da 158 deputati SEL, PD e M5S) che chiede la cancellazione della partecipazione italiana al progetto di costruzione ed acquisto dei caccia di quinta generazione.

Esponenti dell’informazione e della cultura come Gad Lerner, Roberto Saviano, Ascanio Celestini e Riccardo Iacona e personalità del mondo della Pace come Cecilia Strada e Chiara Ingrao; personaggi di rilievo pubblico (e primi firmatari di mozioni contro gli F-35 nella scorsa legislatura) come Umberto Veronesi e Savino Pezzotta e due figure importanti del mondo dell’impegno cattolico come padre Alex Zanotelli e don Luigi Ciotti. Tutti insieme per chiedere al nostro Parlamento una scelta di responsabilità su questo tema particolare e su quello delle spese militari in generale.

“Ci troviamo di fronte ad un passo importante per far sentire con forza ai nostri Deputati come sia davvero necessario che il Parlamento riprenda in carico questo tema” afferma Francesco Vignarca coordinatore di Rete Italiana per il Disarmo. Se è vero infatti che è oggi il Governo – a seguito di tutti i passaggi di autorizzazione previsti dalla legge – a poter decidere autonomamente sull’acquisto dei caccia F-35, è anche vero che la situazione è molto cambiata dal 2009 (data dell’ultima votazione parlamentare a riguardo) e nell’ottica della difficile situazione del paese su più fronti non si può certo tirare dritto come se nulla fosse mutato. “Va poi detto che da più parti (anche da chi non vuole subito una cancellazione del programma, e perfino dallo stesso nuovo Ministro della Difesa) si è sottolineata la necessità di avere sugli F-35 una franca e piena discussione in Parlamento” conclude Vignarca.

Nel testo dell’appello si sottolinea come la scelta di continuare ad acquisire i cacciabombardieri con capacità nucleare sia “incomprensibile” vista l’attuale mancanza di risorse “per il lavoro, la scuola, la salute e la giustizia sociale”.

“Quella degli F-35 è una gran brutta storia che fa male agli italiani e alla nostra democrazia” commenta Flavio Lotti coordinatore della Tavola della Pace. “Gli F-35 fanno male agli italiani perché sottraggono preziose risorse che attendono di essere utilizzate per combattere la disperazione e la disoccupazione di molte donne e uomini del nostro paese. Gli F-35 fanno male alla nostra democrazia perché attorno a queste armi si muove un complesso reticolo di interessi politici, economici e militari che stanno inquinando e minando in profondità le istituzioni del nostro paese. Per questo è bene che il nuovo Parlamento si pronunci chiaramente.”

La campagna “Taglia le ali alle armi” ha già sottolineato con preoccupazione le recenti parole del Ministro Mauro che ha descritto il caccia F-35 come uno “strumento per la pace” da utilizzarsi in ottica di proiezione anche per interventi lontani dall’Italia.

“Il Parlamento ha un'ottima occasione per riavvicinarsi a un'ampia parte della popolazione, che è sicuramente contro gli F3-5 ­ sottolinea Grazia Naletto co-portavoce della campagna Sbilanciamoci! - Non possiamo mantenere anche su un tema delicato come questo la grande distanza tra le richieste e le convinzioni delle italiane e degli italiani e le scelte della nostra politica. In tal senso giudichiamo positivamente la presentazione di analoghi documenti per il NO agli F35 anche al Senato, auspicando che a breve possa avvenire anche in tale ramo del Parlamento una discussione approfondita”

La campagna “Taglia le ali alle armi” ribadisce, come già detto nei giorni scorsi, che la discussione alla Camera può diventare l’occasione per far crescere la consapevolezza che l’acquisto dei caccia F-35 non può essere condotto e deciso sulla base di dati parziali e non corretti, come invece è stato fatto in tutti questi anni. Le stime diffuse dalla nostra Campagna da tempo dimostrano come i dati del Ministero della Difesa riguardo ai costi, ai tempi, e alle ricadute occupazionali e tecnologiche siano assolutamente falsate e non corrispondano a verità. Il costo di acquisto dei 90 caccia previsti si attesterà su 14 miliardi di euro mentre il costo “di vita” dell’intero programma supererà i 50 miliardi di euro.

martedì 11 giugno 2013

Wu Ming per l'acqua pubblica

Wu Ming è un collettivo di scrittori italiani. Il loro sito è Giap.
Articolo tratto dal loro blog su Internazionale.it

Acqua pubblica

Il 12 e 13 giugno di due anni fa, circa 26 milioni di italiani hanno speso qualche minuto del proprio tempo per votare due sì al cosiddetto “referendum per l’acqua pubblica”. Oggi ognuno di loro farebbe bene a spendere altrettanti minuti per provare a capire cos’è successo nel frattempo e cosa si potrà fare in futuro.
Da più parti si sente ripetere che, come al solito, il referendum non è servito a niente. I privati continuano a gestire il servizio idrico locale e nelle bollette c’è ancora la famigerata percentuale per la remunerazione del capitale investito, ovvero: per fare profitti sicuri con un bene comune. Eppure, la narrazione del “voto inutile” va disinnescata, perché non solo è falsa, ma serve pure a delegittimare l’unico referendum vincente da diciassette anni a questa parte.
Certo non si può negare che la strada del cambiamento è stata fin dall’inizio piena di ostacoli. Giusto il tempo di abrogare le norme oggetto del voto, e subito il governo Berlusconi ha tentato di farle rientrare dalla finestra con l’articolo 4 del cosiddetto “decreto di Ferragosto”. Classica data balneare, utile per far passare nefandezze, ma la corte costituzionale ha bloccato il provvedimento proprio in virtù della volontà popolare uscita dalle urne. Poi ci hanno provato con il patto di stabilità, la manovra “salva Italia” del governo Monti e l’autorità per l’energia.
Tanto accanimento non dimostra solo che l’acqua è un buon affare, ma fa capire anche come gli sconfitti non possano accettare di esserlo. Perché accettarlo significherebbe ammettere che le risorse più preziose per la vita devono essere sottratte al mercato e alla libera concorrenza. Il che equivale a bestemmiare il credo neoliberista, mostrando che la logica del profitto non è in grado di trovare il giusto equilibrio con il benessere collettivo. Non a caso, gli anni dell’acqua privata sono stati anche quelli più poveri di investimenti per migliorare il servizio idrico.
Ma tanto accanimento significa anche che l’avversario è forte, agguerrito, e lo è grazie al risultato di due anni fa.
Gli inquilini del condominio Itaca di Modena, per esempio, hanno deciso di aderire alla campagna di obbedienza civile lanciata dal forum italiano dei movimenti per l’acqua. Visto l’esito del referendum, hanno deciso di obbedire alla legge e di togliere dalle loro bollette la percentuale di “remunerazione del capitale investito” (circa il 18 per cento). Per far questo, si sono semplicemente rifiutati di pagarla. La cifra è di poco conto: 500 euro all’anno per un intero condominio, eppure la multiutility Hera non ha voluto sentire ragioni e pochi giorni fa – dopo diverse “riduzioni di flusso” – senza nessun preavviso ha interrotto il servizio. Al che i cittadini sono andati in municipio con asciugamani e spazzolini da denti per chiedere al sindaco di poter usare la sua acqua. E il sindaco – che come tale è pure socio di Hera – ci ha messo una buona parola e ha fatto riaprire i rubinetti, anche se, da buon sostenitore del referendum, farebbe meglio a pretendere che l’azienda di cui è azionista rispettasse la volontà popolare.
Nel frattempo a Imperia la percentuale che i modenesi di Itaca si rifiutano di pagare è stata eliminata dalle bollette. A Vicenza si lavora per mettere la gestione dell’acqua in mano a una società di diritto pubblico e senza scopo di lucro. A Reggio Emilia hanno strappato il servizio idrico al controllo di Iren, una società mista. Inoltre il comune, nel suo nuovo statuto, garantisce “la gestione partecipativa del bene comune acqua”. A Trento si protesta contro la nuova In House spa. In Toscana, i comuni dell’ex Ato 3 (zona di Firenze, Prato e Pistoia) hanno respinto la nuova “tariffa truffa”, che di fatto ripropone la logica del profitto privato garantito in bolletta. L’unico a votare a favore è stato il sindaco Matteo Renzi. E poi Forlì, Palermo, Piacenza…
In tutte queste battaglie, la vittoria referendaria ha fatto da trincea: utile per coprirsi le spalle, certo non sufficiente per vincere la guerra e addirittura dannosa per chi sognava di potersi mettere comodo e invece si è preso i pidocchi, la febbre quintana e il colera.
Recintare un bene comune per sottrarlo alle enclosure del mercato finanziario è un primo passo indispensabile: il passo successivo consiste nel ridefinire con quali regole vogliamo utilizzare quel bene. Il referendum di due anni fa è molto utile anche per questo: ci sta facendo capire che il termine “pubblico” può voler dire tante cose. Di conseguenza, quando un bene o un servizio vengono privatizzati e poi si decide di tornare alla “gestione pubblica”, i tempi per ridefinire quel concetto sono lunghi, inutile farsi illusioni. In un momento di crisi economica non dobbiamo cedere all’idea che le decisioni vanno prese in fretta, quindi affidate a esperti, perché processi più partecipati porterebbero a soluzioni tardive. In questo caso, va benissimo discutere, confrontarsi e intanto tenere la posizione grazie alla trincea.
La vittoria nel referendum ci ha fatto capire una volta per tutte che le nostre istituzioni pubbliche non sono più adeguate a gestire i beni comuni. Pubblico non è sinonimo di “pubblica amministrazione”, e nemmeno di “statale”. Sappiamo bene che lo stato devia spesso e volentieri dalla strada del pubblico interesse per seguire gli obiettivi di quella o di quell’altra lobby. Per questo, riappropriarsi dello spazio pubblico non può essere una mossa di semplice conservazione, un ritorno al passato. E nemmeno si può sperare di raggiungere la meta a suon di riforme, modificando e migliorando l’esistente. Questa strategia può funzionare nell’immediato, ma sul lungo periodo bisogna rivendicare la necessità di istituzioni radicalmente nuove, che diano più potere alle comunità e ai cittadini.
Ecco allora che il sassolino gettato nell’acqua finisce per allargare il discorso con le sue onde circolari: dalla gestione del servizio idrico si passa alle questioni della democrazia, della governance, della rappresentanza.
Chi oggi osteggia l’applicazione del referendum, ha capito perfettamente qual è la posta in gioco.
È tempo che lo capiscano in pieno anche tutti gli altri, se non vogliamo perdere un’occasione preziosa.

domenica 9 giugno 2013

Restituire dignità alla funzione parlamentare


Tocci_TamTam15_s  Tocci_TamTam15_s
In Italia si approvano troppe leggi. Eppure è di moda sostenere che bisogna velocizzare l’attività parlamentare. È uno dei tanti luoghi comuni che sviano il dibattito pubblico. L’attività legislativa è stata piegata ad esigenze di autorappresentazione del potere politico, prescindendo da concrete esigenze di regolazione della vita pubblica. Legifero, ergo sum è il motto del politico mediatico.

Questa riduzione della politica alla legislazione ha reso quasi ingestibile la macchina statale. Ci sono le “leggi manifesto”, ad esempio molte leggi sulla sicurezza o sulla corruzione scritte sull'onda di eventi drammatici si rivelano successivamente insensati appesantimenti burocratici. Ci sono poi le leggi ideologiche che spesso finiscono per arenarsi nel contenzioso costituzionale, come nei casi delle ronde o della procreazione assistita. Ci sono le leggi bugiarde che dicono una cosa positiva per nascondere quella negativa facendo conto sulla confusione mediatica, come la legge Gelmini che prometteva più competizione tra gli atenei mentre li soffocava con la burocrazia. Ci sono le leggi approvate per calmare i mercati, che si sono sempre risolte con il peggioramento del debito, come dimostrano tutte le finanziarie di Tremonti.

L’attività legislativa è stata dominata dalle ossessioni del dibattito politico. Il fisco è stato travolto da un’alluvione normativa che non consentiva di applicare neppure le regole appena emanate perché nel frattempo erano già cambiate. Il governo Monti ha portato alla paralisi i Comuni sconvolgendo in pochi mesi tutti i tributi locali già ripetutamente modificati negli anni precedenti. In generale, può funzionare un Paese in cui si cambiano ogni anno le norme sulla scuola, sulla sanità, sugli incentivi alle imprese, sui servizi pubblici? E poi, senza senso del ridicolo, si istituisce perfino un ministero della semplificazione addetto a cancellare le norme che prima erano state ritenute miracolose.

I ministri ormai hanno perduto il senso del proprio ruolo, non amministrano più la macchina statale ma si sentono obbligati a lasciare un segno riscrivendo le norme di propria competenza. Il governo chiede tante deleghe legislative che poi non è in grado di utilizzare. Non si approvano più leggi organiche, ma solo leggi omnibus costituite da micro norme, che creano problemi interpretativi e contenziosi senza fine.

Perfino nel linguaggio corrente la parola riforma ormai indica la mera approvazione di una legge. Invece, la vera riforma dovrebbe essere un processo graduale e multifunzionale: definizione condivisa degli obiettivi; ricognizione delle risorse finanziarie, professionali e organizzative; analisi di esperienze analoghe; implementazione sociale delle regole; organizzazione delle strutture preposte all'attuazione; formazione degli operatori; monitoraggio degli interventi; valutazione dei risultati e modifiche in corso d’opera. In questo contesto, la norma dovrebbe essere solo uno degli strumenti per dare cogenza al processo. Al contrario, proprio il riduzionismo normativo è la causa principale del fallimento delle pseudo riforme italiane.

La bulimia legislativa rischia di soffocare la funzionalità dello Stato e la vitalità sociale. Eppure, nella mia esperienza parlamentare ho constatato scarsa consapevolezza del problema. Si è fatto credere all’opinione pubblica che con le regole di oggi non è possibile approvare leggi in tempi brevi; non solo è falso, ma di solito le più veloci sono anche le più sbagliate: il Porcellum e le norme ad personam sono state approvate in poche settimane; la manovra pensionistica della Fornero, viziata da errori gravi sugli esodati, in soli quindici giorni. Ciò nonostante si reclama la velocità parlamentare . Con un argomento tanto banale quanto falso: il mondo cambia e le leggi devono correre.

È solo un insensato futurismo legislativo. Aveva ragione Luigi Einaudi che considerava la lentezza parlamentare una fortuna per il Paese proprio perché limita l’ipertrofia normativa. Bisogna riscoprire la virtù dell'indugio parlamentare che fa decantare la discussione pubblica fino a che non si deposita in solide certezze alle quali si potrà dare il sigillo della forza dello Stato.

Restituire centralità al Parlamento è oggi un’esigenza ampiamente sentita, anche all’estero, come dimostra ad esempio il rapporto Norton sul caso britannico. Sulla base della mia esperienza propongo cinque miglioramenti che sono possibili anche a Costituzione invariata.

1 - Ridurre l’attività legislativa che oggi impegna quasi totalmente il tempo di lavoro parlamentare e limita tutte le altre funzioni. Sono sufficienti poche leggi l’anno, purché affrontino in modo organico i diversi argomenti, stabilizzando le decisioni per gli anni a venire ed eliminando tutta la micro legislazione che si è accumulata negli anni precedenti. Le prime dovranno essere ampie delegificazioni che delegano molte competenze all'amministrazione. In questo modo si ottengono due vantaggi, da una parte il Governo può provvedere alla gestione della cosa pubblica senza ricorrere a modifiche normative e nel contempo l'attività del Parlamento viene liberata da minuzie amministrative, compresi alcuni impegni di spesa, e può dedicarsi ad alta legislazione con la produzione di Codici unitari nei diversi campi.

2 - A fronte di una maggiore autonomia nella gestione della cosa pubblica il Governo è sottoposto ad un effettivo potere di indirizzo e controllo, che va reso cogente con regole molto più precise. Oggi una mozione serve come bandierina per chi la propone ma nella maggior parte dei casi non ha alcuna conseguenza pratica. Le interrogazioni sono attività burocratiche la cui risposta dipende dal ghiribizzo del Governo. Le stesse interrogazioni formali dovrebbero essere ridotte a questioni di rilevanza generale, mettendo però a disposizione dei parlamentari e dei cittadini strumenti diretti di accesso alle informazioni. Le audizioni parlamentari di funzionari dell’amministrazione e di manager di aziende pubbliche dovrebbero diventare strumenti temuti dalle burocrazie come accade nel parlamento americano.

3 - Le Camere devono dotarsi di strumenti efficienti di monitoraggio di tutte le attività amministrative. In particolare, bisogna istituire una struttura professionale di Policy analysis per verificare i risultati ottenuti dal Governo nell’attuazione delle leggi e acquisire indicazioni utili per la legislazione successiva. Questa attività di rendiconto è oggi completamente ignorata e spesso si approvano leggi che ripetono pedissequamente gli errori già compiuti. All'attività di controllo e indirizzo bisognerebbe dedicare gran parte del tempo disponibile.

4 - Il Parlamento deve essere la Casa delle Autonomie, il luogo di confronto e di concertazione permanente con le Regioni e gli Enti Locali, secondo l'ispirazione dell'articolo cinque della Costituzione, quel mirabile principio del Riconoscimento che fonda un prius storico e nazionale nelle comunità territoriali rispetto alla formazione statale. L’intuizione dei padri costituenti è stata smarrita da quando si è preso a parlare di federalismo e si è affermata l'usanza di collocare la Conferenza Stato-Regioni presso il Governo, escludendo il Parlamento da questa fondamentale relazione costituzionale.

5 - Infine, l'ascolto delle forze vive del paese dovrebbe essere il cuore dell'attività parlamentare. Non solo utilizzando tutte le tecnologie disponibili per garantire l'accesso alle informazioni e il dialogo con i cittadini, ma attivando canali di consultazione delle forze sociali, di associazioni e di esperienze significative della vita sociale e culturale. I lavoratori di una fabbrica, i cittadini che organizzano una petizione, gli studenti che invocano provvedimenti a favore dell'istruzione - per fare solo alcuni esempi - sono esperienze che devono trovare udienza e confronto secondo procedure ordinarie e ben definite.

Le competenze, le istituzioni culturali, le personalità che danno lustro al Paese dovrebbero essere di casa nelle sedi parlamentari per essere consultate sulle decisioni da prendere. Anche col supporto di un rinnovato ruolo del Cnel la concertazione sociale dovrebbe trovare un punto di riferimento costante nel Parlamento. Le iniziative legislative dei cittadini devono avere una maggiore garanzia di accesso al dibattito parlamentare, costringendo le parti politiche a dare risposte chiare sia positive sia negative.
Ma tutte queste innovazioni non sono sufficienti se non si ricostruisce il prestigio del Parlamento e dei suoi membri. Bisogna cancellare la parola privilegio dal dibattito politico. Gli emolumenti dei parlamentari si possono almeno dimezzare. Già oggi, infatti, il 50% di quello che ricevono non va nelle loro retribuzioni, ma finanzia la politica scaricando però su di loro un prezzo di immagine rispetto ai colleghi europei.

La gestione coordinata di una parte di tali risorse consentirebbe ulteriori risparmi e aumenterebbe la qualità del nostro lavoro. Si potrebbe condividere una moderna piattaforma tecnologica, utilizzando alte professionalità, per realizzare una potente macchina di comunicazione. Ci consentirebbe di tenere informati e ascoltare tutti i giorni i cittadini delle primarie, seguendo l’esempio della piattaforma Organizing for America di Obama.

Infine, è ineludibile la legge di attuazione dell’articolo 49 sui partiti al fine di assicurarne la trasparenza democratica e di ripensarne le modalità di finanziamento. L’unica via che può legittimare un contributo pubblico è il coinvolgimento dei cittadini nella scelta di finanziamento di ciascun partito. Ne abbiamo ragionato in un gruppetto di parlamentari ed è venuto fuori un disegno di legge che individua due strumenti: contributo pari all’uno per mille del gettito Irpef da ripartire secondo le indicazioni dei contribuenti; forte credito d’imposta per le libere donazioni private, secondo la proposta di Pellegrino Capaldo. Anche il presidente Letta ha espresso analoghi intendimenti nelle sue dichiarazioni programmatiche. Si può fare presto.

Questo modo di finanziamento sarebbe un incentivo a riformare la nostra organizzazione. Tutti i giorni, non solo le domeniche dei gazebo, dovremmo cercare il sostegno del popolo delle primarie, non solo per ottenere i finanziamenti, ma per mettere a frutto la disponibilità di milioni di elettori, coinvolgendoli nelle decisioni e nell’ampliamento dei consensi. Sarebbe il primo passo per costruire il grande partito popolare che il PD non è ancora riuscito a diventare.

Walter Tocci  
Deputato PD  (TamTamDemocratico)

venerdì 7 giugno 2013

Quindici anni di vita

In questa storia ci sono un bambino, una mina antiuomo, un mutilato, un professore. Il bambino si chiama Soran ed è nato nel Kurdistan iracheno. Ha una testa piena di capelli scuri, gli occhi grandi e un difetto: gli piace giocare. E giocare, si sa, è una delle attività “ad alto rischio” per i civili in tempo di guerra. La mina antiuomo si chiama Valmara 69. È nata in Italia, per la precisione a Castenedolo, provincia di Brescia, e da allora ne ha fatta di strada: Angola, Mozambico, Iran, Egitto, Sahara occidentale, Sudan… le Valmara 69 hanno girato il mondo e si sono fatte un nome, perché sono un’arma potentissima e micidiale, che uccide nel raggio di 25 metri dall’esplosione, e dissemina le schegge contenute al suo interno ferendo e mutilando in un raggio fino a 200 metri. Quando un bambino a cui piace giocare nei campi incontra una Valmara 69, la storia spesso finisce bruscamente: nel giro di tre secondi e nel raggio di 25 metri. Invece Soran, insieme a tre amici, era un po’ più lontano. Il boato, le urla, qualcuno che corre a prenderli e li carica su una jeep, poi 6 ore su strade dissestate fino ad arrivare, ormai è notte, alla porta di un ospedale, e poi in sala operatoria. Il mattino dopo, quattro ragazzini mutilati si guardano attorno, nel giardino dell’ospedale. Soran ha perso la gamba destra, e non è il più grave. [...] Dopo qualche giorno, i ragazzini mutilati tecnicamente sarebbero “guariti”. Potrebbero essere dimessi e mandati a casa: «Ecco la tua sedia a rotelle, immagino che sarai destinato a un futuro di invalidità, tu non potrai lavorare e qualcuno della tua famiglia nemmeno perché dovrà occuparsi di te – è proprio per questo che le mine antiuomo sono così apprezzate da chi fa la guerra, sai, un buon investimento per mettere in ginocchio la popolazione nemica – però magari potrai chiedere l’elemosina, chissà; ha vinto la mina, arrivederci e grazie, questo è il foglio di dimissioni», e fine della storia. Invece no, perché in quell’ospedale i medici – italiani, come la mina – hanno altri progetti. Due mesi e mezzo di fisioterapia e poi, finalmente, si può provare una protesi, fatta su misura. Un’ora al giorno, poi due, poi tre. Soran ha imparato a mettersi la protesi da solo, sistema bene i pantaloni, si guarda attorno. Fa tre passi, poi si mette a correre nel giardino dell’ospedale. Sorride. Ancora qualche giorno, e spunta un pallone da calcio: Soran e i suoi amici si mettono a giocare. Possono farlo ancora. Possono di nuovo camminare, correre, giocare, non sono destinati a un futuro di invalidità, potranno lavorare, potranno essere autonomi. Hanno vinto loro, non la mina. Fine della storia. E il professore? Giusto. Il professore ha ventisette anni, insegna il curdo a quattro classi di bambini di 5 e 6 anni. È sposato, ha due figlie e una testa di capelli scuri. Quindici anni prima aveva incontrato una mina italiana, e la sua storia poteva finire lì. Invece ha incontrato dei medici italiani, e oggi può scriversi da solo la sua storia, ogni giorno. Si chiama Soran.  
Cecilia Strada,
Quindici anni di vita, Emergency #66

Amnistia "tombale" in Guatemala?

Il processo a carico dell’ex dittatore José Efraín Ríos Montt (1982-1983), che sembrava essersi archiviato con la storica condanna a 80 anni prima del clamoroso passo indietro della Corte Costituzionale il 20 maggio, non riprenderà prima dell’aprile 2014.
È quanto ha comunicato il nuovo tribunale designato per celebrare il dibattimento – dopo il rifiuto a riaprire il processo opposto dai giudici che avevano già condannato il generale a riposo – il ‘Tribunal B de Mayor Riesgo’: la corte ha addotto come principale motivazione la fitta agenda delle cause arretrate, ben 26, spalmate su un calendario che prevede udienze fino al 31 marzo 2014.
Tutti processi prioritari – ha fatto sapere la corte – rispetto a quello per genocidio e crimini di lesa umanità perpetrati dall’esercito contro la popolazione indigena Maya Ixil; atrocità documentate anche dal rapporto ‘Guatemala nunca más’ (Guatemala mai più) redatto da monsignor Juan José Gerardi, assassinato da due militari il 26 aprile 1998. Per rispondere di questi crimini, l’ex dittatore è stato chiamato sul banco degli imputati dopo essere stato un protagonista della vita politica del Guatemala seguita alla guerra civile (1960-1996) protetto dall’immunità parlamentare, persa solo nel gennaio 2011.
La difesa dell’ex dittatore, 86 anni, punta tuttavia a ottenere un’amnistia per Ríos Montt e per il suo ex capo dell’intelligence militare José Mauricio Rodríguez Sánchez, processato con lui per 1771 omicidi commessi dai militari nel dipartimento nord-occidentale del Quiché. L’avvocato Francisco Palomo ha detto ai giornalisti che insisterà presso la Corte Costituzionale dopo che la Corte suprema di giustizia ha già bocciato per due volte la richiesta dal momento che i delitti di cui devono rispondere i due ex gerarchi del regime sono esclusi dalla Legge di Riconciliazione Nazionale del 1986, base giuridica addotta dai loro legali.

Cucchi e gli altri

Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l´aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita.“

”I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.
” 

Erri de Lucascrittore

 

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Violenze e crimini senza colpevoli, nel buio delle carceri

Troppo spesso sono le forze dell'ordine a macchiarsi di abusi e violenze contro i detenuti. Troppe le morti sospette, segnate dal silenzio delle istituzioni. Perché l'Italia non ammette la pena di morte e la tortura, ma forse le tollera quando avvengono dietro le sbarre

di Samanta Di Persio - Cadoinpiedi, 6 Giugno 2013

Samanta Di Persio Quando intervistai la madre e la sorella di Stefano Cucchi ci incontrammo vicino al luogo dove fu arrestato il ragazzo. Le due donne, seppur disperate e straziate dal dolore, avevano una speranza: la giustizia. Raccontavano il dramma di Stefano, avevano messo a nudo la loro vita, foto diffuse attraverso i media con l'unico obiettivo di scoprire la verità. Iniziarono ad informarsi e trovarono Fabio Anselmo, l'avvocato della famiglia Aldrovandi. Dall'alta parte però sui giornali comparivano le parole prive di fondamento dei massimi esponenti delle istituzioni: Giovanardi (allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle politiche per la famiglia ed al contrasto per le tossicodipendenze) definì Stefano Cucchi un drogato morto di anoressia, La Russa espresse piena fiducia nelle forze di polizia. Giudizi per influenzare l'opinione pubblica, prima che la magistratura accerti cosa sia accaduto, non dovrebbero esprimersi in un Paese civile e democratico. Stefano Cucchi è stato portato in carcere e nella cartella clinica c'è scritto: "Riferisce caduta accidentale nella giornata di ivi (16/10/2009) consigliato ricovero presso Fatebenefratelli che il detenuto ha rifiutato" Inoltre lamentava dolore all'addome e alla regione sacro coccigea. In un altro referto si può leggere "Si rilevano lesioni ecchimotiche in regione palpebrale inferiore bilateralmente, di lieve entità e colorito purpureo. Riferisce dolore e lesioni anche alla regione sacrale e agli arti inferiori, ma rifiuta l'ispezione." Già questi pochi dettagli bastano per sollevare dei dubbi. Aspetteremo le motivazioni della sentenza che assove gli infermieri, ma soprattutto gli agenti di polizia penitenziaria. Da non dimenticare che Stefano la prima notte la trascorse nella caserma dei carabinieri e la mattina in tribunale aveva già il volto segnato, ma i carabinieri raramente vengono indagati.

Da "La pena di morte italiana". Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi sono morti in circostanze oscure dopo l'arresto da parte delle forze dell'ordine. Casi ormai emblematici che grazie allo sforzo delle famiglie sono arrivati in tribunale. Ma per poche storie che hanno conquistato le prime pagine dei quotidiani, ce ne sono molte altre che l'opinione pubblica ha dimenticato o ignorato. Come quella di Niki Aprile Gatti, arrestato per una frode informatica in cui è coinvolta la società dove lavora. Unico tra i 18 accusati, accetta di collaborare, e cinque giorni dopo viene trovato impiccato in prigione. Come può un laccio da scarpe aver retto il peso di un ragazzo di 92 chili? E Fabio Benini, morto a trent'anni di infarto alle Vallette di Torino: soffriva di anoressia, aveva perso 50 chili e collassava due volte al giorno, perché nessuno ha saputo intervenire? Non bastano il sovraffollamento e l'inadeguata assistenza psicologica e sanitaria a spiegare queste storie: spesso sono proprio le forze dell'ordine a macchiarsi di omissione di soccorso, abusi e violenze contro i detenuti che dovrebbero proteggere e rieducare. Troppe le morti sospette, segnate dal silenzio delle istituzioni. Perché l'Italia per legge non ammette la pena di morte e la tortura, ma forse le tollera quando avvengono dietro le sbarre.

sabato 1 giugno 2013

Ratificata la Convenzione di Istanbul

La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani a tutti gli effetti e nasce dalla discriminazione sociale nei loro confronti. A metterlo nero su bianco è la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, siglata a Istanbul nel 2011 e ora ratificata all’unanimità dalla Camera dei deputati italiana. Dopo l’escalation di aggressioni contro le donne degli ultimi mesi, e i continui appelli della società civile, anche l’Italia compie un primo passo importante verso la lotta a questo genere di violenze.

I principi fondamentali. La Convenzione, composta da 81 articoli, rappresenta il primo strumento internazionale in grado di vincolare giuridicamente gli Stati alla tutela dei diritti delle donne. L’obiettivo è quello di dar vita finalmente a “un quadro normativo completo” capace di contrastare e prevenire qualunque tipo di violenza contro le donne, compresi gli abusi subiti tra le mura domestiche. Ancora oggi è soprattutto la disuguaglianza, ormai “storica”, la causa principale delle violenze contro le donne. Violenze dalla “natura strutturale”, “basate sul genere”, che rappresentano “uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”. Meccanismi che a loro volta impediscono da sempre “una piena emancipazione delle donne”. La lotta alla violenza nei loro confronti passa quindi necessariamente dal raggiungimento dell’uguaglianza di genere “de jure e de facto”. 

Gli obiettivi. Per contrastare questo tipo di violenza la Convenzione sottolinea la necessità di predisporre “un quadro globale di politiche e misure di protezione e di assistenza a favore di tutte le vittime di violenza”, in modo tale da mettere le autorità competenti in grado di agire e collaborare efficacemente, anche a livello internazionale.

Gli obblighi per gli Stati. La Convenzione obbliga dunque gli Stati aderenti ad adottare tutte le misure legislative necessarie per la tutela delle donne vittime di violenza. A partire dal dovere di perseguire i reati riconosciuti dalla Convenzione stessa (come stupro, mutilazioni genitali, stalking e violenze psicologiche), fino a forme concrete di assistenza (come servizi di supporto anche legale, case rifugio, linee telefoniche di sostegno) e al diritto al risarcimento civile per gli abusi subiti (senza oneri per le vittime).
Tramite la Convenzione gli Stati si impegnano inoltre ad avviare tutte le politiche necessarie a promuovere la parità tra i sessi, anche attraverso campagne di sensibilizzazione in grado di rendere la società più consapevole nei confronti di queste forme di violenza e delle loro conseguenze, nonché della necessità di prevenirle. Tradizioni, pregiudizi e costumi basati “sull’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini” sono, infatti, le principali cause della violenza contro le donne: combatterli tramite l’informazione e l’educazione è la vera sfida. Al GREVIO, gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne, spetterà il compito di vigilare sull’attuazione della Convenzione da parte degli Stati aderenti.
Il testo è stato approvato all’unanimità dalla Camera e passerà ora all’esame del Senato. L’Italia è la quinta nazione a ratificare la Convenzione dopo Montenegro, Albania, Turchia e Portogallo. Per poter entrare in vigore la Convenzione dovrà essere approvata da dieci Stati, di cui almeno otto del Consiglio d’Europa. Il voto dell’Aula di Montecitorio, accolto da un lungo applauso, è arrivato nel giorno dei funerali di Fabiana, la ragazza di appena 16 anni brutalmente uccisa dal fidanzato a Corigliano Calabro.
 Francesca Pintor,
Diritto di Critica

Rinuncia il capo della commissione internazionale contro l'impunità

Polemiche, dimissioni o rinuncia per motivi personali: quali che siano le reali motivazioni, dopo giorni di dichiarazioni e smentite, il responsabile della Commissione internazionale contro l’impunità (Cicig), il costaricano Francisco Dall’Anese, lascerà il suo mandato a settembre.
Lo ha confermato lo stesso Palazzo di Vetro annunciando che sono già cominciate le consultazioni per trovare il successore dell’organismo – unico al mondo nel suo genere – attivo dal 2006 in Guatemala sotto l’egida dell’Onu.
L’annuncio del ritiro di Dall’Anese – anche il suo predecessore, lo spagnolo Carlos Castresana, si era dimesso nel 2010 denunciando una cospirazione ai suoi danni – è giunto in concomitanza con una dura polemica legata al processo per genocidio contro l’ex dittatore Efraín Ríos Montt.
La Cicig ha criticato il pronunciamento pubblico di 12 personalità che il 16 aprile – subito dopo la condanna a 80 anni inflitta a Ríos Montt e prima che la sentenza fosse clamorosamente annullata – si erano espresse contro il dibattimento. Per tutta risposta la Commissione ha richiamato i firmatari del pronunciamento “alla misura” accusandoli di voler “incidere sulla decisione giudiziaria per ottenere una sentenza assolutoria”.
Le critiche della Cicig sono state poi fortemente contestate dal governo che si è lamentato presso l’Onu definendo la condotta della Commissione “non appropriata”.
Missionary international service news agency