martedì 30 aprile 2013

Fiducia al nuovo governo: Il discorso integrale di Enrico Letta alla Camera


letta 250x156 Fiducia al nuovo governo: Il discorso integrale di Enrico Letta   LEGGI
Signora Presidente
Onorevoli Deputati,
appena una settimana fa il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, pronunciava il suo discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica. A lui consentitemi di rivolgere nuovamente un sincero ringraziamento per lo straordinario spirito di dedizione alla nostra comunità nazionale con il quale ha accettato la rielezione per il secondo mandato. Voglio inoltre ringraziare i Presidente del Senato, Pietro Grasso, e della Camera, Laura Boldrini, per la collaborazione offerta nella fase di consultazione in questo primissimo avvio dell’esperienza di governo. Quella del presidente Napolitano è stata – lo sappiamo – una «scelta eccezionale». Eccezionale perché tale è il momento che l’Italia e l’Europa si trovano a vivere oggi. Di fronte all’emergenza il presidente della Repubblica ci ha invitato a parlare il linguaggio della verità. Ci ha chiesto di offrire in extremis, al Paese e al mondo, una testimonianza di volontà di servizio e senso di responsabilità. Ci ha concesso un’ultima opportunità. L’opportunità di dimostrarci degni del ruolo che la Costituzione ci riconosce come rappresentanti della nazione. Degni di servire il Paese – attraverso l’esempio, il rigore, le competenze – in una delle stagioni più complesse e dolorose della storia unitaria. Accogliendo il suo appello intendo rivolgermi a voi proprio con il linguaggio “sovversivo” della verità. Confessandovi che avverto, fortissimi in questo momento la consapevolezza dei miei limiti e il peso della mia personale responsabilità, ma impegnandomi a fare di tutto affinché le mie spalle siano larghe e solide al punto da reggere, nelle vesti di presidente del Consiglio di un Governo che richiede, qui e oggi, la fiducia del Parlamento.
Infine, non potrei iniziare questo discorso, in un passaggio cosi impegnativo, senza un accenno personale ed esprimere un senso di gratitudine profonda verso chi con generosità e senso antico della parola “lealtà” mi sostiene anche in questo difficile passaggio: Pierluigi Bersani.

UN GOVERNO AL SERVIZIO DELL’ITALIA E DELL’EUROPA
La prima verità è che la situazione economica dell’Italia è ancora grave. Abbiamo accumulato in passato un debito pubblico che grava come una macina sulle generazioni presenti e future, e che rischia di schiacciare per sempre le prospettive economiche del Paese. Il grande sforzo di risanamento compiuto dal precedente Governo, guidato dal senatore Mario Monti, è stato premessa della crescita in quanto la disciplina della finanza pubblica era e resta indispensabile per contenere i tassi di interesse e sventare possibili attacchi finanziari. Il mantenimento degli impegni presi con il Documento di Economia e Finanza è necessario ad uscire, quanto prima, dalla procedura di disavanzo eccessivo e per recuperare margini di manovra all’interno dei vincoli europei. Nelle sedi europee e internazionali l’Italia si impegnerà poi per individuare strategie per ravvivare la crescita senza compromettere il processo di risanamento della finanza pubblica. L’ Europa è in crisi di legittimità ed efficacia proprio quando tutti i Paesi membri e tutti i cittadini ne hanno più bisogno. L’Europa può tornare ad essere motore di sviluppo sostenibile – e quindi di speranza e di costruzione di futuro – solo se finalmente si apre. Il destino di tutto il continente è strettamente legato. Non ci possono essere vincitori e vinti se l’Europa fallisce questa prova. Saremmo tutti perdenti: sia nel Sud che nel Nord del continente. E’ per questo che se otterrò la vostra fiducia, immediatamente visiterò in un unico viaggio Bruxelles, Berlino e Parigi per dare subito il segno che il nostro è un governo europeo ed europeista. La risposta, dunque, è una maggiore integrazione verso un’Europa Federale. Altrimenti il costo della non-Europa, il peso della mancata integrazione, il rischio di un’unione monetaria senza unione politica e unione bancaria diventeranno insostenibili: come la crisi di questi cinque anni ci ha mostrato. Questo Parlamento ha già dimostrato di poter trovare intese per dare all’Europa un contributo italiano innovativo. Questo è avvenuto nel sostegno all’azione europea del governo Monti e nell’elaborazione di posizioni comuni come quella elaborata dai colleghi Baretta, Brunetta e Occhiuto in vista del Consiglio Europeo del Giugno scorso. Da quelle premesse politiche ripartiremo. Le premesse macroeconomiche sono quelle dell’Euro e della Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi.

LE RISORSE PER LA CRESCITA: GIOVANI E TERRITORIO
Di solo risanamento l’Italia muore. Dopo più di un decennio senza crescita le politiche per la ripresa non possono più attendere. Semplicemente: non c’è più tempo. Tanti cittadini e troppe famiglie sono in preda alla disperazione e allo scoramento. Pensiamo alla vulnerabilità individuale che nel disagio e nel vuoto di speranze rischia, di tramutarsi in rabbia e in conflitto, come ci ricorda lo sconcertante fatto avvenuto ieri stesso dinanzi a Palazzo Chigi. Ieri andando a visitare in ospedale il Brgadiere Giangrande ferito gravemente insieme al Carabiniere Scelto Negri, sono stato impressionato dalla forza e dalla fermezza della figlia Martina. Il Parlamento deve stringersi a lei in questo momento. E il Parlamento deve stringersi anche all’Arma dei Carabinieri e a tutte le forze dell’ordine per il servizio continuo, silenzioso, encomiabile, spesso in condizioni disagiate, svolto nell’interesse della nazione in Italia e all’estero. Senza crescita e coesione l’Italia è perduta. Il Paese, invece, può farcela. Ma per farcela deve ripartire. E per ripartire tutti devono essere motori di questa nuova energia positiva. L’architrave dell’esecutivo sarà l’impegno a essere seri e credibili sul risanamento e la tenuta dei conti pubblici. Basta coi debiti che troppe volte il nostro Paese ha scaricato sulle spalle e la vita delle generazioni successive. Quelle nuove, di generazioni, hanno imparato sulla propria pelle e non faranno lo stesso con i propri figli. Ecco perché la riduzione fiscale senza indebitamento sarà un obiettivo continuo e a tutto campo. Anzitutto, quindi, ridurre le tasse sul lavoro, in particolare su quello stabile e quello per i giovani neo assunti. Poi una politica fiscale della casa che limiti gli effetti recessivi in un settore strategico come quello dell’edilizia, con includere incentivi per ristrutturazioni ecologiche e affitti e mutui agevolati per giovani coppie. E poi bisogna superare l’attuale sistema di tassazione della prima casa: intanto con lo stop ai pagamenti di giugno per dare il tempo a Governo e Parlamento di elaborare insieme e applicare rapidamente una riforma complessiva che dia ossigeno alle famiglie, soprattutto quelle meno abbienti. Misure ulteriori dovrebbero essere il pagamento di parte dei debiti delle Amministrazioni pubbliche; l’allentamento del Patto di stabilità interno; la rinuncia all’inasprimento dell’IVA; l’aumento delle dotazioni del Fondo Centrale di Garanzie per le piccole e medie imprese e del Fondo di Solidarietà per i mutui. Ma questi provvedimenti – sebbene necessari nel breve termine – non sono sufficienti. La crescita economica di un paese richiede una strategia complessa, che eviti dispersione a pioggia delle poche risorse e che possa innescare meccanismi virtuosi. Per questo è necessario una sintonia tra le azioni del Governo e quelle delle banche e delle imprese, che debbono essere mirate ad una crescita di lungo periodo degli attori economici per superare gli annosi ritardi dell’Italia in termini di crescita della produttività e della competitività. Il Governo deve accompagnare questa crescita e rimanere a fianco delle imprese anche e soprattutto quando queste si impegnano all’estero nell’arena globale. Un importante argomento di contesto concerne la giustizia, in quanto solo con la certezza del diritto gli investimenti possono prosperare. Questo riguarda la moralizzazione della vita pubblica e la lotta alla corruzione, che distorce regole e incentivi. Questo riguarda anche la giustizia nel suo complesso. La giustizia deve essere giustizia innanzitutto per i cittadini. La ripresa ritornerà anche se i cittadini e gli imprenditori italiani e stranieri saranno convinti di potersi rimettere con fiducia ai tempi e al merito delle decisioni della giustizia italiana. E tutto questo funzionerà se la smetteremo di avere una situazione carceraria intollerabile ed eccessi di condanne da parte della Corte dei diritti dell’uomo. Ricordiamoci sempre che siamo il paese di Cesare Beccaria! Dobbiamo liberare le energie migliori del Paese. Non partiamo da zero, ma da due grandi risorse. Prima di tutto, i giovani. “Scommettete su cose grandi” ha detto proprio ieri Papa Francesco rivolto a loro. E noi abbiamo gli strumenti per aiutarli. Quello generazionale non è certo solo un tema attinente al rinnovamento della classe dirigente, come troppo spesso emerge nel dibattito pubblico. È una questione drammatica che scontano sulla propria pelle milioni di giovani. Segnala bassi tassi di istruzione e di occupazione, porta con sé lo sconforto, e anche la rabbia, di chi non studia né lavora. Chiediamoci quanti bambini non nascono ogni anno, in Italia, per la precarietà che limita le scelte delle famiglie giovani. Non è solo demografia, è una ferita morale. Perché non devono esistere generazioni perdute, perché solo i giovani possono ricostruire questo Paese: le loro nuove esperienze e competenze ci raccontano un mondo che cambia, il loro mondo. Rinunciare ad investire su di loro è un suicidio economico. Ed è la certezza di decrescita, la più infelice. Semplificheremo e rafforzeremo l’apprendistato, che ha dato buoni risultati in paesi vicini. Un aiuto può venire da modifiche alla legge 92/2012, quali suggerite dalla Commissione dei saggi istituita dal presidente della Repubblica, che riducano le restrizioni al contratto a termine, finché dura l’emergenza economica. Aiuteremo le imprese ad assumere giovani a tempo indeterminato, con defiscalizzazioni o con sostegni ai lavoratori con bassi salari, condizionati all’occupazione, in una politica generale di riduzione del costo del lavoro e del peso fiscale. Non bastano incentivi monetari. Occorre prendersi cura dei giovani, volgendo il disagio in speranza, puntando su orientamento e stimolo all’imprenditorialità. E occorre percorrere la strada europea tracciata dal programma Youth guarantee, per garantire effettivi sbocchi occupazionali.
Bisogna fare tesoro della voglia di fare dei nuovi italiani, così come bisogna valorizzare gli italiani all’estero. La nomina di Cecile Kyenge significa una nuova concezione di confine, da barriera a speranza, da limite invalicabile a ponte tra comunità diverse. La società della conoscenza e dell’integrazione si costruisce sui banchi di scuola e nelle università. Dobbiamo ridare entusiasmo e mezzi idonei agli educatori che in tante classi volgono il disagio in speranza e dobbiamo ridurre il ritardo rispetto all’Europa nelle percentuali di laureati e nella dispersione scolastica. In Italia c’è una nuova questione sociale, segnata dall’aumento delle disuguaglianze. Solo il 10% dei giovani italiani con il padre non diplomato riesce a laurearsi, mentre sono il 40% in Gran Bretagna, il 35% in Francia, il 33% in Spagna. Bisogna finalmente dare piena attuazione all’art. 34 della Costituzione, per il quale «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». L’uguaglianza più piena e destinata a durare nelle generazioni è oggi più che mai l’uguaglianza delle opportunità. Per rilanciare il futuro industriale del Paese, bisogna scommettere sullo spirito imprenditoriale e innovare e investire in ricerca e sviluppo. Per questo intendiamo lanciare un grande piano pluriennale per l’innovazione e la ricerca, finanziato tramite project bonds. La ricerca italiana può e deve rinascere nei nuovi settori di sviluppo, come ad esempio l’agenda digitale, lo sviluppo verde, le nanotecnologie, l’aerospaziale, il biomedicale. Si tratta di fare una politica industriale moderna, che valorizzi i grandi attori ma anche e soprattutto le piccole e medie imprese che sono e rimarranno il vero motore dello sviluppo italiano. Oltre all’alta tecnologia bisogna investire su ambiente ed energia. Le nuove tecnologie – fonti rinnovabili ed efficienza energetica – vanno maggiormente integrate nel contesto esistente, migliorando la selettività degli strumenti esistenti di incentivazione, in un’ottica organica con visione di medio e lungo periodo. Sempre con riguardo ai settori energetici, va completato il processo di integrazione con i mercati geografici dei Paesi europei confinanti. Questo implica, per l’energia elettrica, il completamento del cosiddetto market coupling e, per il gas, il completo riallineamento dei nostri prezzi con quelli europei e la trasformazione del nostro Paese in un hub.E’ chiaro che episodi come quello dell’ILVA di Taranto non sono più tollerabili. Tutta l’impresa italiana, per crescere, ha bisogno di più semplicità, di un’alleanza tra la pubblica amministrazione e la società, senza tollerare le sacche di privilegio. La burocrazia non deve opprimere la voglia creativa degli italiani ed è per questo che bisognerà rivedere l’intero sistema delle autorizzazioni. Bisogna snellire le procedure e avere fiducia in chi ha voglia di investire, creare, offrire posti di lavoro. Non si possono più chiedere sacrifici sempre e soltanto ai «soliti noti». I sacrifici sono socialmente sostenibili solo se sono ispirati ad un principio di equità. Questo significa coniugare una ferrea lotta all’evasione con un fisco amico dei cittadini, senza che la parola Equitalia debba provocare dei brividi quando viene evocata. L’altra grande risorsa è l’Italia stessa. Bellezza senza navigatore. La nostra tendenza all’autocommiserazione è pari solo all’ammirazione che l’Italia suscita all’estero. Molti stranieri vogliono bagnarsi nei nostri mari, visitare le nostre città, mangiare e vestire italiano. L’Italia e il made in Italy sono le nostre migliori ricchezze. E’ per questo che uno dei primi atti del Governo sarà quello di nominare il Commissario unico per l’Expo, una grande occasione che non dobbiamo mancare. A questo fine nei prossimi giorni sarò a Milano a presentare il decreto per partire per l’ultimo miglio di questo evento strategico. Per questo dobbiamo rilanciare il turismo e, soprattutto, attrarre investimenti. Rimuoviamo quegli ostacoli che fanno sì che l’Italia per molti non sia una scelta di vita. Questo significa puntare sulla cultura, motore e moltiplicatore dello sviluppo, o sulle straordinarie realtà dell’agro-alimentare. Questo significa valorizzare e custodire l’ambiente, il paesaggio, l’arte, l’architettura, le eccellenze enogastronomiche, le infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali. Questo vuol dire anche valorizzare il nostro grande patrimonio sportivo. La pratica dello sport significa prevenzione dalle malattie, lotta contro l’obesità, formazione a stili di vita sani, lealtà e rispetto delle regole. Dobbiamo impegnarci per diffondere la pratica sportiva sin dalle scuole elementari con un piano di edilizia scolastica su tutto il territorio nazionale. L’intraprendenza dei giovani e la bellezza dei territori sono d’altra parte due risorse cruciali per il Mezzogiorno. In entrambi i casi un patrimonio dissipato, un giacimento inutilizzato di potenzialità. Dobbiamo mettere in condizione il Sud di crescere da solo, annullando i divari infrastrutturali e di ordine pubblico che l’hanno frenato, puntando sulle nuove imprese, in particolare le industrie culturali e creative, e sulla buona gestione dei fondi europei, come quella che ha caratterizzato l’operato del governo Monti. Dobbiamo, soprattutto, evitare di continuare a mettere la testa sotto la sabbia come struzzi e riconoscere che il divario tra Nord e Sud del Paese è non un accidente storico o una condanna, ma il prodotto di decenni di inadempienze da parte delle classi dirigenti, a livello nazionale come a livello locale. E’ il risultato dell’azione della criminalità organizzata che, certo presente anche nel resto del Paese – in larghe parti del Mezzogiorno ha i connotati del controllo arrogante e quasi militare del territorio. E questo nonostante lo spirito di servizio e il sacrificio di tanti servitori dello Stato – magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine anzitutto – che troppo spesso abbiamo avuto la responsabilità di lasciare soli. Anche per questo dobbiamo dare effettiva concretezza al valore della specificità della professione svolta dal personale in divisa delle Forze Armate e della Polizia. 

PRIORITA’ LAVORO
Ma permettetemi di soffermarmi un attimo sulla grande tragedia di questi tempi che d’altronde al Sud tocca punte di desolazione e allarme sociale: la questione del lavoro. È e sarà la prima priorità del mio governo. Solo col lavoro si può uscire da quest’incubo di impoverimento e imboccare la via di una crescita non fine a se stessa, ma volta a superare le ingiustizie e riportare dignità e benessere. Senza crescita, anche gli interventi di urgenza su cui ci siamo impegnati e che qui ribadisco – rifinanziamento delle casse integrazioni in deroga, superamento del precariato anche nella pubblica amministrazione – sarebbero insufficienti. In particolare, con i lavoratori esodati la comunità nazionale ha rotto un patto, e la soluzione strutturale di questo tema è un impegno prioritario di questo Governo. Mai come oggi occorre fiducia reciproca: imprese e lavoratori devono agire insieme e superare le contrapposizioni che in passato ci hanno frenato. Sono sicuro che come in tanti momenti critici della vita della Repubblica i sindacati saranno protagonisti. Il governo vuole aprire la strada con proposte che approfondiremo insieme: ampliare gli incentivi fiscali a chi investe in innovazione, sostenere l’aggregazione e internazionalizzazione delle PMI, dare più credito a chi lo merita, garantire il pagamento dei debiti alle imprese, semplificare e rimuovere gli ostacoli burocratici che frenano lo spirito d’impresa. Dobbiamo anche valorizzare il lavoro autonomo e le libere professioni, che in una società postindustriale rappresentano la spina dorsale della nostra economia. Le misure di liberalizzazione orami sono state adottate. Ora bisogna lavorare tutti insieme per formare e dare opportunità ai giovani, innalzare la qualità, servire al meglio i clienti. Anche sull’occupazione femminile occorre fare molto di più. La maggiore presenza delle donne nella vita economica, sociale e politica dà già straordinari contributi alla crescita del paese, ma siamo lontani dagli obiettivi europei. Non siamo ancora un paese delle pari opportunità. La carenza di servizi scarica sulle donne compiti insostenibili, aggravati in alcuni casi da una crescita insopportabile delle violenze contro le donne. La riforma del nostro welfare richiede azioni di ampio respiro per rilanciare il modello sociale europeo. Il welfare tradizionale, schiacciato sul maschio adulto e su pensioni e sanità, non funziona più. Non stimola la crescita della persona e non basta a correggere le disuguaglianze. Non occorrono isterismi. Occorre un cambiamento radicale: un welfare più universalistico e meno corporativo, che sostenga tutti i bisognosi, aiutandoli a rialzarsi e a riattivarsi. Per un welfare attivo, più giovane e al femminile, andranno migliorati gli ammortizzatori sociali, estendendoli a chi ne è privo, a partire dai precari; e si potranno studiare forme di reddito minimo, soprattutto per famiglie bisognose con figli.
Hanno trovato largo consenso parlamentare nei mesi passati le proposte su incentivi al pensionamento graduale con part time misto a pensione, con una «staffetta generazionale» per la parallela assunzione di giovani. Inoltre, per evitare il formarsi di bacini estesi di lavoratori anziani di difficile ricollocazione, studieremo forme circoscritte di gradualizzazione del pensionamento, come l’accesso con 3-4 anni di anticipo al pensionamento con una penalizzazione proporzionale.
Dobbiamo poi ricordarci che l’Italia migliore è un’Italia solidale. E’ per questo che il governo non può che valorizzare la rete di protezione dei cittadini e dei loro diritti, con misure tese al miglioramento dei servizi, da quelli sanitari a quelli del trasporto pubblico, locale e pendolare, con una particolare attenzione per i disabili e i non autosufficienti. Vorrei a questo proposito rendere omaggio alle donne e agli uomini che ogni giorno consentono al nostro paese di godere di questa solidarietà e che mantengono unito il nostro tessuto sociale: i servitori dello Stato – quelli che rischiano la vita per proteggere le istituzioni, quelli che lavorano nella sanità per salvare delle vite, quelli che aiutano i nostri figli a crescere – ma anche gli operatori del volontariato, della cooperazione, del terzo settore e della galassia del 5 per 1000. E’ l’esempio che giornalmente viene dato da queste persone che ci fa riscoprire il valore del servizio pubblico. Una speciale menzione merita la protezione civile, che ha dato una straordinaria prova nei terremoti in Abbruzzo e in Emilia e che ci ricorda che abbiamo un impegno alla prevenzione, con un piano di manutenzione contro il dissesto idrogeologico e la lotta all’abusivismo.

LA RIFORMA DELLA POLITICA
Vorrei che questo governo inaugurasse una fase nuova nella vita della Repubblica. Non il canto del cigno di un sistema imploso sulle sue troppe degenerazioni, ma un primo impegno per la ricostruzione della politica e del nostro modo di percepirci come comunità. La ricostruzione però può partire solo da un esercizio autentico, non simulato, di autocritica. La verità è che la politica ha commesso troppi errori. Si è erosa, giorno dopo giorno, la credibilità della politica e delle istituzioni, vittime di un presentismo – vale a dire dell’ossessione del consenso immediato – che bloccato il Paese. Ancora: non abbiamo compreso quanto le legittime istanze di innovazione, partecipazione, trasparenza, sottese alla rivoluzione del web, potessero tradursi in un oggettivo miglioramento della qualità della nostra democrazia rappresentativa anziché sfociare nel mito o nell’illusione della democrazia diretta. Oggi abbiamo dinanzi un’altra sfida, ancora più complessa: quella dell’autorevolezza. L’autorevolezza del potere che non ha più, come in passato, il monopolio delle informazioni, ma deve avere il profilo e le competenze per discernere il vero dal falso nel flusso enorme di informazioni presenti nella Rete. L’autorevolezza di chi non si accontenta della verosimiglianza e del sentito dire, ma sceglie sempre e solo la verità e ha il coraggio e la pazienza di raccontarla ai cittadini, anche se dolorosa o brutale. Per cominciare, bisogna recuperare decenza, sobrietà, scrupolo, senso dell’onore e del servizio e, infine, la banalità della gestione di un buon padre di famiglia. Ognuno deve fare la sua parte. A questo fine, per dare l’esempio, il primo atto del Governo sarà quello di eliminare con una norma d’urgenza lo stipendio dei ministri parlamentari che esiste da sempre in aggiunta alla loro indennità. Nessuno, ripeto nessuno, può sentirsi esentato dal dovere dell’autorevolezza. Nessuno può considerarsi fino in fondo assolto dall’accusa di aver contaminato il confronto pubblico con gesti, parole, opere o omissioni. Con 11 milioni e mezzo di cittadini che hanno deciso di non votare, alle elezioni dello scorso febbraio, quello dell’astensione è risultato essere il primo partito. Non era mai accaduto prima: due milioni in più rispetto al 2008, quattro rispetto al 2006. Su questo sfondo la riduzione dei costi della politica diventa un dovere di credibilità. Pensate ai rimborsi elettorali: tutte le leggi introdotte dal 1994 ad oggi sono state ipocrite e fallimentari. Non rimborsi ma finanziamento mascherato. Per di più di ammontare decisamente troppo elevato, come la Corte dei Conti ha recentemente confermato: 2 miliardi e mezzo di euro dal 1994 al 2012, a fronte di spese certificate di circa mezzo miliardo.E’, questa , solo una delle conferme del fatto che il sistema va rivoluzionato. Partiamo dunque dal finanziamento pubblico ai partiti, abolendo la legge troppo timida approvata l’anno scorso e introducendo misure di controllo e di sanzione anche sui gruppi parlamentari e regionali. Occorre poi avviare percorsi che finalmente consegnino alla libera scelta dei cittadini, con opportuni interventi sul versante fiscale, la contribuzione all’attività politica dei partiti. E’ però anche importante collegare il tema del finanziamento a quello della democrazia interna ai partiti, attuando finalmente i principi sulla democrazia interna incorporati nell’art. 49 della Costituzione, stimolando la partecipazione dei militanti e garantendo la trasparenza delle decisioni e delle procedure.Rivendico con forza l’importanza di un temporaneo «governo di servizio al paese» tra forze sicuramente lontane e diverse tra loro. Credo che non sia facile votare insieme da posizioni così eterogenee, ma proprio per questo credo che questa sia una scelta che meriti rispetto anche da chi non la condivide perché non è motivata dall’interesse particolare ma da principi più alti di coesione nazionale. Questo è il senso del messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere. Non dobbiamo avere paura di fare il nostro dovere per l’Italia. Noi dobbiamo dare il nostro contributo a ricostruire un patto di fiducia, a ritrovare il senso di una missione comune. Come italiani, si vince o si perde tutti insieme. Sicuramente è e deve essere un’eccezione la convergenza di forze politiche che si sono presentate come alternative alle elezioni. Ma è eccezionale che dalle urne, anche a causa della legge elettorale, non sia uscita alcuna maggioranza; è eccezionale l’emergenza economica che il governo dovrà affrontare; è eccezionale il fatto che sia necessario riscrivere alcune regole costituzionali. Credo quindi che le forze politiche che sostengono il governo stiano dimostrando un grande senso di responsabilità e di attaccamento alle istituzioni. Vent’anni di attacchi e delegittimazioni reciproche hanno eroso ogni capitale di fiducia nei rapporti tra i partiti e l’opinione pubblica, che è esausta, sempre più esausta, delle risse inconcludenti.Ho imparato da Nino Andreatta la fondamentale distinzione tra politica, intesa come dialettica tra diverse fazioni, e politiche, intese come soluzioni concrete ai problemi comuni. Se in questo momento ci concentriamo sulla politica, le nostre differenze ci immobilizzeranno. Se invece ci concentriamo sulle politiche, allora potremo svolgere un servizio al paese migliorando la vita dei cittadini. E‘ per questo che intendo appellarmi alla responsabilità dei partiti e dei movimenti perché ritengo centrale il ruolo del Parlamento, con una continua interlocuzione con le forze politiche che non sostengono il Governo e con la creazione di luoghi permanenti di codecisione, ai quali parteciperò personalmente, tra il governo e le forze politiche che lo sostengono.

LA RIFORMA DELLE ISTITUZIONI
L’appello alla responsabilità e alla capacità di trovare terreni di convergenza è ancora più pressante nel nostro compito di riformare le istituzioni, anche perché auspico che per la scrittura delle regole che riguardano la vita democratica di tutti il fronte si allarghi anche alle forze che non hanno intenzione di sostenere il governo in modo organico, che devono partecipare pienamente al processo costituente.Vedo oggi una via stretta, ma possibile, per una riforma anche radicale del sistema istituzionale e del sistema politico.Un imperativo deve essere chiaro a tutti noi fin dal primo momento: in questa materia negli ultimi decenni abbiamo assistito troppe volte all’avvio di percorsi riformatori che si presentavano come risolutori, che nelle intenzioni anche sincere di chi li proponeva, promettevano di regalarci istituzioni più efficienti e capaci di decidere, oltre che maggiormente vicine ai cittadini, e che invece si sono infranti contro veti reciproci, chiusure partigiane, prese di posizione strumentali e contrapposizioni dannose nonostante i reiterati richiami del Presidente della Repubblica. Al fine di sottrarre la discussione sulla riforma della Carta fondamentale alle fisiologiche contrapposizioni del dibattito contingente, sarebbe bene che il Parlamento adottasse le sue decisioni sulla base delle proposte formulate da una Convenzione, aperta alla partecipazione anche di autorevoli esperti non parlamentari e che parta dai risultati della attività parlamentare della scorsa legislatura e dalle conclusioni del Comitato di saggi istituito dal Presidente della Repubblica. La Convenzione deve poter avviare subito i propri lavori sulla base degli atti di indirizzo del Parlamento, in attesa che le procedure per un provvedimento Costituzionale possano compiersi. Dal momento che questa volta l’unico sbocco possibile per questo tema è il successo nell’approvazione delle riforme che il paese aspetta da troppo tempo, fra 18 mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro. Se avrò una ragionevole certezza che il processo di revisione della Costituzione potrà avere successo, allora il nostro lavoro potrà continuare. In caso contrario, se veti e incertezze dovessero minacciare di impantanare tutto per l’ennesima volta, non avrei esitazioni a trarne immediatamente le conseguenze. La moralità della politica è quella di prendere le decisioni che i cittadini si attendono, e di rispettare gli impegni presi di fronte al paese e alle istituzioni. L’obiettivo complessivo è quello di una riforma che riavvicini i cittadini alle istituzioni, rafforzando l’investitura popolare dell’esecutivo e migliorando efficienza ed efficacia del processo legislativo. I principi che devono guidarci sono quelli di una democrazia governante: la capacità degli elettori di scegliersi i propri rappresentanti e di decidere alle elezioni sui governi e le maggioranze che li sostengono. Dobbiamo superare il bicameralismo paritario, per snellire il processo decisionale ed evitare ingorghi istituzionali come quello che abbiamo appena sperimentato, affidando ad una sola Camera il compito di conferire o revocare la fiducia al Governo. Nessuna legge elettorale è infatti in grado di garantire il formarsi di una maggioranza identica in due diversi rami del Parlamento.Dobbiamo quindi istituire una seconda Camera – il Senato delle Regioni e delle Autonomie – con competenze differenziate e con l’obiettivo di realizzare compiutamente l’integrazione dello Stato centrale con le autonomie, anche sulla base di una più chiara ripartizione delle competenze tra i livelli di governo con il perfezionamento della riforma del Titolo V. Bisogna riordinare i livelli amministrativi e abolire le provincie. Semplificazione e sussidiarietà devono guidarci al fine di promuovere l’efficienza di tutti i livelli amministrativi e di ridurre i costi di funzionamento dello Stato. Questo non significa perseguire una politica di tagli indifferenziati, ma al contrario valorizzare comuni e regioni per rafforzare le loro responsabilità, in un’ottica di alleanza tra il governo e i territori e le autonomie, ordinarie e speciali. Bisogna altresì chiudere rapidamente la partita del Federalismo fiscale, rivedendo il rapporto fiscale tra centro e periferia salvaguardando la centralità dei territori e delle Regioni. Si può anche esplorare il suggerimento del Comitato di Saggi istituito dal Presidente della Repubblica per la eventuale riorganizzazione delle Regioni e dei rapporti tra loro. Occorre poi riformare la forma di governo, e su questo punto bisogna anche prendere in considerazione scelte coraggiose, rifiutando piccole misure cosmetiche e respingendo i pregiudizi del passato. La legge elettorale è naturalmente legata alla forma di governo, ma si possono sin da ora delineare gli obiettivi fondamentali. Innanzitutto, dobbiamo qui solennemente assumere l’impegno che quella dello scorso febbraio sia l’ultima consultazione elettorale che si svolge sulla base della legge elettorale vigente. Cambiarla serve non solamente per assicurare la formazione di maggioranze sufficientemente ampie e coese, in grado di garantire governi stabili; ma prima ancora per restituire legittimità al Parlamento ed ai singoli parlamentari. Non possiamo più accettare l’idea di parlamentari di fatto imposti con la stessa presentazione delle candidature, senza che i cittadini abbiano la possibilità di individuare il candidato più meritevole. Sono certo che le forze politiche siano in grado di trovare delle ottime soluzioni. Permettetemi di esprimere a livello personale che certamente migliore della legge attuale sarebbe almeno il ripristino della legge elettorale precedente.

LA NUOVA EUROPA
Rappresentare l’intera nazione oggi significa prima di tutto sapere e ribadire che le sorti dell’Italia sono intimamente correlate a quelle dell’Unione europea. Due destini che si uniscono. Nel 2012 tutti noi abbiamo vinto il premio Nobel anche se forse non ce ne siamo pienamente accorti. L’Unione Europea è stata premiata per un’alchimia politica senza precedenti: la trasformazione delle macerie di un continente di guerra in uno spazio di pace. Allora i nemici decisero di vivere insieme. Dopo insieme abbiamo promosso la democrazia e riunificato il continente dalle ferite della cortina di ferro. Insieme abbiamo dato vita al mercato unico. Insieme abbiamo concepito la cooperazione allo sviluppo, di cui siamo leader al mondo. Insieme ai ragazzi partiti nel 1987 per il primo Erasmus, abbiamo scoperto di avere nuove case e nuove famiglie. E insieme, nella crisi, dobbiamo ripartire da alcune verità, perché della verità non bisogna mai avere paura. Primo: il Nobel non è alla memoria. L’Europa non è il passato, è il viaggio nel quale ci siamo imbarcati per arrivare nel futuro. L’Europa è lo spazio politico con cui rilanciare la speranza che ha animato la nostra società nella ricostruzione del dopoguerra. È lo spazio politico con cui mettere fine a questa guerra di stereotipi, di sfiducia e di timidezza, mentre la tragedia della disoccupazione giovanile mette un’intera generazione in trincea. L’Europa esiste solo al presente e al futuro, solo se alla storia scritta dai nonni e dai padri si affiancano le azioni dei figli e dei nipoti. Secondo: l’Europa è il nostro viaggio. La sua storia non è scritta malgrado noi. È scritta da noi. L’orizzonte è europeo, con le università che devono diplomare laureati in grado di lavorare ovunque in Europa, e le imprese che devono inventare prodotti che siano competitivi a livello continentale se non globale. Pensare l’Italia senza l’Europa è la vera limitazione della nostra sovranità, perché porta alla svalutazione più pericolosa, quella di noi stessi. Vivere in questo secolo vuol dire non separare le domande italiane e le risposte europee, nella lotta alla disoccupazione e alla disuguaglianza, nella difesa e nella promozione di tutti i diritti. E soprattutto, l’abbattimento dei muri tra il Nord e il Sud del continente, così come tra il Nord e il Sud dell’Italia.
Terzo: il porto a cui il nostro viaggio è rivolto sono gli Stati Uniti d’Europa e la nostra nave si chiama democrazia. Guardiamo con ammirazione lo sviluppo delle altre nazioni, in particolare in Asia e in Africa, ma non vogliamo sognare i sogni degli altri. Abbiamo il diritto a sogno che si chiama Unione Politica e abbiamo il dovere di renderlo più chiaro. Possiamo avere «più Europa» soltanto con «più democrazia»: con partiti europei, con l’elezione diretta del Presidente della Commissione, con un bilancio coraggioso e concreto come devono essere i sogni che vogliono diventare realtà. L’Italia vive in un mondo sempre più grande, caratterizzato dall’arrivo sulla scena di nuove potenze emergenti che stanno modificando gli equilibri mondiali. Di fronte a giganti come Cina, India e Brasile, i singoli Stati europei non possono che sviluppare una politica comune per raggiungere la massa critica necessaria ad interagire con questi nuovi attori e influire sui processi globali. Questo significa un rinnovato impegno per una politica estera e di difesa comuni, tese a rinnovare l’impegno per il consolidamento dell’ordine internazionale, un impegno che vede le nostre Forze Armate in prima linea, con una professionalità e un’abnegazione seconda a nessuno. Lavoreremo per trovare una soluzione equa e rapida alla dolorosa vicenda dei due Fucilieri di Marina trattenuti in India, che ne consenta il legittimo rientro in Italia nel più breve tempo possibile. L’Italia è saldamente collocata nel campo occidentale, ma la sua posizione geopolitica proiettata verso altre civiltà, la sua cultura abituata al dialogo e la sua economia vocata all’esportazione possono consegnarle un ruolo di ponte tra l’Occidente e le nuove potenze emergenti. Questo è importante soprattutto nel Mediterraneo, dove il consolidamento delle primavere arabe, la risoluzione politica della crisi in Siria e la prosecuzione del processo di pace in Medio Oriente sono le questioni più urgenti.

CONCLUSIONE
In questi giorni ho pensato al personaggio biblico di Davide. Come lui, con lui, siamo nella valle di Elah, in attesa di affrontare Golia. Nella valle delle nostre paure di fronte a sfide che appaiono gigantesche. Anche la sfida di metterci insieme per affrontarle. Come Davide in quella valle, dobbiamo spogliarci della spada e dell’armatura che in questi anni abbiamo indossato e che ora ci appesantirebbero. Davide “prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nella sua sacca da pastore, nella bisaccia; prese in mano la fionda e si avvicinò a Golia”. Noi, dal “torrente” delle idee sulle quali ci siamo confrontati abbiamo scelto i nostri “ciottoli”, le nostre proposte di programma. La “fionda” l’abbiamo in mano insieme, governo e Parlamento. Ma di Davide ci servono il coraggio e la fiducia. Il coraggio di mettere da parte quella “prudenza politica” che spinge a evitare il confronto con le nostre paure, a rimanere nella valle e, se proprio decidiamo di muoverci, a farlo con indosso l’armatura. Il coraggio di affrontare la sfida liberandoci dell’armatura, forse lo abbiamo trovato. La fiducia è quella che chiediamo al Parlamento e agli italiani.

Camera dei Deputati, Roma, 29.04.2013

lunedì 29 aprile 2013

Appunti sul sacerdozio oggi

La persona del prete, le sue fragilità e la vicinanza della comunità: qualche riflessione nata da uno scambio di idee tra sacerdoti e laici a Crema
di Christian Albini, VinoNuovo.it | 22 aprile 2013


Il disagio del prete è un dato di fatto che oggi, a differenza del passato, è più evidente. Quali sono le situazioni personali ed ecclesiali che non aiutano a riconoscere i limiti relazionali del prete, ma possono anzi alimentarle, incoraggiando comportamenti che sono dannosi per gli altri e per se stesso? La manifestazione più grave ed evidente è quella dei casi di abusi sessuali. Ma ci sono molte altre problematiche meno appariscenti: dipendenze, autoritarismo, carrierismo, fissazione sul ruolo, isolamento...

Questi appunti per un discernimento sulla persona del prete e le sue fragilità nascono da uno scambio tra alcuni preti e laici e sono pensate per favorire una riflessione. L'idea di fondo è che il prete non va lasciato da solo, ma sostenuto e accompagnato, così come lui accompagna la sua comunità.

1. La teologia e la spiritualità del sacramento dell'ordine, espressioni di un volto di Chiesa
Quale teologia e spiritualità del sacramento? Se non lo si considera, a partire del sacramento del Battesimo, nel contesto della pluralità e comunione dei carismi in cui il ministero ordinato si configura come servizio, c'è il rischio di suscitare una percezione "magica" e individualistica del sacramento, per cui l'ordinato si pensa come un eletto che è più che uomo. Tutto ciò alimenta un senso distorto di sé e un'illusione di autosufficienza. Alla radice, c'è una visione di Chiesa. Il superamento dell'immagine del prete come "separato" e "preservato", in forza dell'ordine, dalle altrui fragilità corrisponde al modello di Chiesa promosso dal Vaticano II, centrata sull'ecclesiologia di comunione in cui fedeli e pastori appartengono al Popolo di Dio in fraternità e corresponsabilità (unità nella diversità). Alla radice ci sono la parabola degli operai nella vigna e l'allegoria della vite e dei tralci e il conseguente insegnamento di Gesù sugli apostoli a non seguire le logiche di potere e lavarsi i piedi a vicenda (cfr. Mc 10,35-45; Gv 13,1-17).

2. Il rapporto tra esperienza umana ed esperienza di fede
Gratia non tollit naturam sed perficit (Tommaso d'Aquino). Dio non fa niente senza la nostra libertà e responsabilità. Il cammino di fede va di pari passo con il cammino di crescita umana, secondo la logica dell'incarnazione. Come due sposi, i quali hanno pure ricevuto un sacramento, possono aver bisogno di un supporto qualificato dalle scienze umane per le proprie difficoltà relazionali, così il prete nella cui vocazione non entra solo la volontà, ma anche il vissuto psicologico. Respingere questi apporti in nome del sacramento ricevuto, può diventare una scusa per non fare verità su se stessi e non favorire una vera formazione della spiritualità. Un autentico cammino umano e un autentico cammino spirituale vanno di pari passo; altrimenti, si confonde la spiritualità con una successione di pratiche e di "doveri" di preghiera senza un vero cammino di conversione del cuore. In particolare, l'elaborazione di un rapporto positivo, sereno e maturo con la soggettività femminile è un passo indispensabile. Tutto ciò fa parte di quella custodia del cuore che il Signore ha insegnato come necessaria per la vera conversione (cfr. Mt 6,22-23; 15,18-19; Mc 7,20-22; Lc 6,45).

3. Il rapporto con la sessualità, il potere, il denaro
Là dove il cammino umano e spirituale rimane incompiuto, il prete rimane prigioniero del suo ego e delle idolatrie, per cui prevale in lui la ricerca della propria gratificazione o il patirne la frustrazione, nascosti dietro la maschera del proprio ruolo (rimuovendo i conflitti psicologici). Da qui derivano i comportamenti patologici e lesivi per sé e per gli altri. La forma più evidente e stigmatizzata è quella dei comportamenti sessuali, con i casi estremi, ma ne esistono anche altri che riguardano soprattutto il rapporto con il potere nelle sue diverse sfumature, con il denaro, la ricerca di qualche forma di rilevanza o il rifugio in un'identità forte (soprattutto a livello di immagine). Qui si richiede di prendere sul serio quella "lotta spirituale", il cui paradigma sono le tentazioni di Gesù nel deserto (cfr. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13). «Tu devi lottare in te stesso, perché la lotta procede dal profondo del tuo cuore» (Origene).
Bisogna fare attenzione a impostazioni educative, anche di "successo", che prediligono la guida carismatica e il verticalismo, perché nell'adesione a un leader e a un gruppo si può trovare una via di fuga dall'attenzione a se stessi.

4. Il rapporto tra i preti e con il vescovo
È indispensabile favorire una comunicazione il più possibile aperta e sincera, anche imparando le modalità di rispetto e ascolto che non sempre si riscontrano tra confratelli. In particolare, al vescovo spetta l'attenzione alle situazioni di disagio e ai comportamenti dannosi, così come la vigilanza verso quelle realtà in cui l'appartenenza particolare può offuscare la comunione e la diocesanità. Quali contesti e attenzioni possono favorire l'esercizio di una correzione fraterna in revisione di vita (cfr. Mt 18,15.21-22; Lc 17,3-4)? Non dovrebbe essere il Vangelo (in cui Gesù invia gli apostoli ad annunciare il Regno e a guarire in fraternità, povertà e gratuità) il metro di misura dello "stile" del prete, del suo modo di vivere e di comportarsi (cfr. Mt 10,7-10; Lc 9,1-6; 10,1-4)? In un orizzonte di comunione e fraternità presbiterale, la sincerità reciproca e il verificarsi su questo (con l'attenzione a forme che non opprimano e svalutino la persona) è indispensabile.

5. Il rapporto con la comunità
Il prete esercita il suo ministero pastorale "sulla" comunità o "nella" comunità? C'è l'abitudine a uno stile di relazioni, per cui si vive la comunità come una realtà di "famiglia" nella sua pluralità di soggetti, o prevale l'isolamento? Le decisioni sono prese "monarchicamente" o esercitando l'ascolto e il confronto per accogliere le diverse sensibilità e punti di vista?
Come educare i giovani preti alla comunità e come aiutare i preti già avanti nel ministero a rivedere le proprie abitudini? Come le unità pastorali possono essere un'occasione per favorire uno stile relazionali tra i preti e con la comunità? (cfr. Atti 2,42-47; Atti 4,32-35)

6. Le colpe dei fratelli
Quando si verificano fatti gravi, come può la Chiesa fare verità e giustizia, continuando nello stesso tempo a essere madre? Quali attenzioni, in una prospettiva evangelica, verso le vittime e quali verso chi è colpevole? (cfr. Mt 6,14-15; Mt18,21-22; Lc 6,36ss; Rom 15,7; Ef 4,32; Col 3,12ss).

 

sabato 27 aprile 2013

I beni comuni tra vecchi cliché e nuove sfide

Le aggressive pratiche di accaparramento delle risorse naturali da parte delle multinazionali tese alla sottrazione di beni alla collettività per piegarle alle spietate logiche di mercato, come il land grabbing, sembrano richiamare alla mente gli idilliaci processi del capitale già denunciati da Marx più di un secolo fa. Di fronte ad un siffatto scenario la tutela giuridica dei beni comuni potrebbe essere una rivoluzionaria via d’uscita da un sistema prigioniero dell’asfittica logica binaria pubblico/privato.
 di RICCARDO CAVALLO
(Micromega, 26 aprile 2013)

Riccardo Cavallo svolge attività didattica e di ricerca con la cattedra di Filosofia del Diritto presso il Dipartimento Seminario Giuridico dell’Università degli Studi di Catania. La sua tesi dottorale si è aggiudicata nel 2005 il Premio di filosofia “Viaggio a Siracusa”. Tra le sue pubblicazioni più rilevanti le monografie: L’antiformalismo nella temperie weimariana (Giappichelli, 2009) e Le categorie politiche del diritto. Carl Schmitt e le aporie del moderno (Bonanno, 2007).


Beni comuni: tragedia o farsa?
Da ‘acquabenecomune’ campagna portata avanti con successo dal Forum dei movimenti per l’Acqua contro la privatizzazione delle risorse idriche e conclusasi con la vittoria referendaria nel 2011 è stato un crescente proliferare di proclami ‘ariabenecomune’, ‘naturabenecomune’, ‘marebenecomune’, etc. fino a costituire uno dei punti cardine del ‘soggetto politico nuovo’ ALBA (acronimo per Alleanza, Lavoro, Beni comuni, Ambiente) o culminare nel motto di una coalizione politica (“Italia. Bene comune”). Il ‘benecomunismo’ come è stato ben presto etichettato sembra dunque essere diventata una sorta di virus che ha permeato tutti gli aspetti della nostra società, diventando il vessillo di nuovi movimenti più o meno politicizzati. Come sempre accade in questi casi, però, quando un termine viene utilizzato nei contesti più disparati può rimanere facilmente preda di malintesi, fino alla desemanticizzazione del termine stesso ‘beni comuni’: se ogni cosa che ci circonda è bene comune nulla lo è. Per evitare di cadere in pericolose semplificazioni è forse necessario fare un po’ di chiarezza, cercando innanzitutto di comprendere se il fenomeno dei beni comuni sia figlio dell’attuale società globalizzata o se, al contrario, sia qualcosa che affonda le sue radici in un passato ben più lontano. Non è un caso infatti che ci sia stato un fiorire di pubblicazioni e dibattiti, sia in ambito accademico che all’interno delle meno paludate assemblee di partiti e movimenti, sull’origine dei beni comuni. Mai come in questo caso il crescente interesse per questa tematica ha dato luogo a una serie eterogenea di significati e funzioni a volte anche in netta antitesi. Da un punto di vista filosofico-giuridico, ad esempio, le prime teorizzazione dei beni comuni vengono fatte risalire sia al diritto romano di epoca precristiana, sia alla filosofia di tradizione tomistica della ‘Seconda Scolastica’, o ancora, a quella che viene definita la prima Costituzione scritta della civiltà occidentale, la Magna Charta del 1215 e la sua meno conosciuta ‘sorella minore’ Charter of the Forest, che garantiva al popolo il libero accesso alle foreste e ai beni comuni, fino ad arrivare, con un salto di parecchi secoli, al codice civile napoleonico del 1804, in cui accanto all’art. 544 che definisce la proprietà privata, vengono disciplinati con l’art. 542 i beni comuni intesi come «quei beni la cui proprietà o sui cui frutti gli abitanti hanno un diritto acquisito». Com’è facile capire dunque, cercando di ripercorrere la genealogia dei beni comuni ci si può imbattere nei personaggi più disparati, da Guglielmo da Ockham a Thomas More, passando per Rousseau ed Hegel, per giungere fino a Toni Negri e Michael Hardt che elaborano una nuova proposta filosofico-politica tesa alla riappropriazione del ‘comune’ da parte della moltitudine, depredata dal sistema economico di stampo capitalistico. Tralasciando per il momento la questione, non certo dirimente, della derivazione, più o meno risalente, dei beni comuni, l’idea di sottrarre dei beni alla proprietà privata per rimetterli a disposizione della collettività, senza tuttavia che essi ricadano nei beni pubblici o demaniali (da qui lo slogan di successo ‘al di là del pubblico e del privato’) e di come tali beni possano materialmente essere fruiti ha dato luogo soprattutto ad un dibattito sviluppatosi in ambito economico a partire dal noto articolo del biologo Garrett Hardin The Tragedy of the Commons pubblicato su Science nel 1968. Tale articolo, il cui titolo è diventato negli anni una sorta di anatema nei confronti di chi volesse portare avanti politiche di incentivo dei beni comuni, occupandosi del problema della sovrappopolazione mondiale mette in evidenza il rapporto direttamente proporzionale tra la messa a disposizione in maniera illimitata di risorse in comune (ad esempio, la possibilità di far pascolare un gregge su un terreno) e la tendenza all’accaparramento di risorse da parte dei singoli fino all’impoverimento delle stesse. Quello che appariva un dilemma insanabile è stato risolto con efficacia da Elinor Ostrom, la quale dimostrando empiricamente come fosse possibile governare i commons grazie ad una accresciuta capacità di comunicazione tra i consociati, ha del tutto sovvertito la tesi pessimisticamente sostenuta da Hardin, con risultati così sorprendenti da farle conquistare il premio Nobel per l’economia (mai attribuito prima ad una donna) e riportare in auge la tematica dei beni comuni.

2. La rivoluzione dei beni comuni: il panorama italiano
Tra gli svariati tentativi di tematizzare in maniera più organica un concetto per sua natura sfuggente e variegato emerge, almeno nel nostro Paese, l’opera da diversi anni svolta da un gruppo di studiosi, per lo più giuristi ed economisti, che hanno lavorato in seno alla Commissione Rodotà con il precipuo scopo di elaborare principi e criteri direttivi che potessero fungere da base per una modifica radicale delle norme del codice civile in materia di beni pubblici. La Commissione, istituita presso il Ministero della Giustizia nel 2007 e presieduta dal noto civilista Stefano Rodotà, si è posta come obiettivo la regolamentazione, del tutto inesistente nel nostro codice civile, di determinate categorie di beni come quelli immateriali che rivestono ormai nell’attuale sistema economico una rilevanza fondamentale. Ben lungi dall’essere solo un mera operazione di ‘aggiornamento’ di una disciplina codicistica ormai per molti versi desueta, trattandosi di un codice approvato agli inizi degli anni Quaranta del Novecento, in realtà, l’obiettivo della Commissione Rodotà era molto più ambizioso. Posta la crescente scarsità di risorse naturali come l’acqua, l’aria e i boschi, si è ritenuto necessario puntare l’attenzione ad una maggiore tutela delle stesse mediante l’elaborazione di una nuova categoria di beni giuridici, per l’appunto quella di ‘beni comuni’ che avessero un nesso indissolubile con la tutela dei diritti della persona e degli interessi pubblici sostanziali per come stabiliti dalla nostra Costituzione. Da qui la definizione, per alcuni rivoluzionaria, per altri, al contrario, dai contorni troppo incerti, di beni comuni come «quei beni che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo». A dispetto di quanto si possa desumere da una lettura superficiale, non si tratta tanto di una riaffermazione del ‘pubblico’ a dispetto del ‘privato’ in quanto si discute di modificare il regime di appartenenza del bene, quanto le sue modalità di fruizione che, nell’ottica della Commissione, va collocata, al di là del pubblico e del privato. È necessario, quindi, elaborare una nuova categoria che riesca ad andare oltre le vecchie logiche pubblico/privato (Stato/mercato) per adeguarla ad un totale cambio di prospettiva che richiede la tutela dei beni comuni nell’attuale società. Infatti, questi ultimi dovrebbero rispondere ad una diversa forma di razionalità, in grado di fronteggiare i cambiamenti profondi che attraversano la contemporaneità investendo la dimensione sociale, economica, culturale, politica. In altre parole, occorre abbandonare quella logica che ha ‘condannato’ il nostro diritto a rimanere ancorato ad un sistema rigidamente binario, poiché, come ha affermato Rodotà già oltre trenta anni addietro, solo gli interessi collettivi e un’impostazione non proprietaria possono far «guadagnare al mondo istituzionale una terza dimensione, nella quale si muovono a disagio i cultori della geometria istituzionale piana». La battaglia portata avanti da Rodotà non è rimasta tuttavia confinata nell’alveo delle mere teorizzazioni giuridiche ricevendo persino l’avallo delle Sezioni Unite della Cassazione Civile (SSUU 14.02.2011, n. 3665) che con una decisione relativa alla proprietà delle valli da pesca della laguna di Venezia, ha affermato «oggi non è più possibile limitarsi all’esame della normativa codicistica del 1942, risultando indispensabile integrare la stessa specificamente con le norme costituzionali» che vengono individuate nell’articolo 2 (diritti della persona, intesa non solo singolarmente ma nelle formazioni sociali dove sviluppa la personalità), art. 9 (tutela del paesaggio) e art. 42 (proprietà pubblica e privata, di cui bisogna assicurare la finalità sociale). Da tali richiami la Suprema Corte esprime «l’esigenza interpretativa di “guardare” al tema dei beni pubblici oltre una visione patrimoniale-proprietaria per approdare ad una prospettiva personale-collettivistica» a partire, cioè, dal «dato essenziale della centralità della persona da rendere effettiva, oltre che con il riconoscimento di diritti inviolabili anche mediante l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Da tali premesse arriva la conclusione che laddove «un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale, come sopra delineato, detto bene è da ritenersi “comune” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato agli interessi di tutti i cittadini». Forte di questa vittoria la Commissione non sembra essersi fermata tant’è che è di questi giorni la notizia relativa alla sua ripresa dei lavori: dismessi i panni più prettamente istituzionali essa diviene “aperta” ed “itinerante”, quasi volendo anche nella forma incarnare lo spirito della tanto auspicata ‘rivoluzione dei beni comuni’. Composta in maniera più fluida da accademici afferenti a diverse discipline e attivisti dei movimenti sociali, essa procederà facendo tappa nei luoghi più significativi della battaglia per i beni comuni come il Teatro Valle Occupato, che il giurista Ugo Mattei, uno degli esponenti di punta di questo movimento, ha definito vera e propria «esperienza di legalità costituente».

3. Il futuro alle nostre spalle
Ma se si mettono per un attimo da parte sia l’entusiasmo movimentista degli ultimi anni, sia l’ambizioso tentativo di enucleare un concetto di beni comuni necessariamente agganciato alla tutela dei diritti fondamentali, non si può non scorgere nell’idea di ‘riappropriazione’ a beneficio dei consociati sottesa al ‘benecomunismo’ attuale – nonostante la complessità della tematica dei beni comuni e le ovvie diversità di contesto storico-sociale – gli echi di quanto già affermato da Karl Marx nei suoi scritti giovanili da sempre ritenuti, forse a torto ‘minori’ e, in particolare, quelli riguardanti i dibattiti della Dieta renana sulla legge contro i furti di legna. Il filosofo di Treviri, all’epoca caporedattore della Rheinische Zeitung, incomincia a misurarsi con i conflitti economico-sociali che caratterizzano la società tedesca dell’Ottocento come si evince dalla lettura di questi articoli pubblicati nell’autunno del 1842. Con la consueta prosa ironica Marx si avventura nei meandri della scienza giuridica, schierandosi a difesa del diritto consuetudinario dei non proprietari. La forza ermeneutica del suo discorso sta nella capacità di svelare l’arcano che si nasconde dietro il paravento giuridico dove si celano dei veri e propri rapporti di forza tra classi antagoniste. Difatti, la legge che estende la qualifica di furto alla raccolta di legna, fino allora considerata del tutto legittima in base agli usi civici consolidatisi nel tempo come diritto consuetudinario, era in realtà una sorta di grimaldello utilizzato dai possidenti per scardinare il diritto consuetudinario al fine di sanzionare, addirittura con i lavori forzati, il comportamento della plebe che in stato di necessità, a causa della crescente povertà, si procurava la legna necessaria al soddisfacimento dei bisogni primari. L’argomentazione di Marx risulta sorprendente per la sua abilità nell’utilizzare le conoscenze giuridiche a sostegno della propria tesi. Come in un’ideale aula di giustizia Marx veste i panni di un beffardo avvocato che riesce a demolire la tenuta giuridica della legge sui furti di legna, evidenziando l’insostenibilità della nuova fattispecie di reato. Ad esempio Marx contestava come fosse impossibile equiparare due fatti materiali del tutto diversi come l’asportazione o raccolta di legna caduta dagli alberi alla sottrazione furtiva di legna verde dagli alberi (c.d. taglio furtivo di piante). I sostenitori di tale equiparazione, con la conseguente criminalizzazione di condotte prima consentite, affermavano che fosse necessario porre un argine al comportamento doloso che molti ‘raccoglitori’ erano soliti porre in essere: intaccare gli alberi verdi per farli perire e, successivamente, trattare il legname da essi derivato come ‘legna caduta’. A tale obiezione che lo stesso Marx giudica ‘acuta’, oppone un altro argomento difficile da contestare: se si pongono sul piatto della bilancia la salute di ‘giovani alberi’ e quella degli uomini chi è necessario salvare? Marx ovviamente non ha dubbi sul suo propendere a favore di questi ultimi e inveisce con vivo sarcasmo: «trionfino gl’idoli di legno e cadano le vittime umane!». Già da tali riferimenti è facile intuire come nelle sue parole fosse racchiuso il dilemma che avrebbe arrovellato, a distanza di più di secolo, economisti e giuristi di ogni parte del globo: la ben nota tragedia dei beni comuni e il suo interconnesso problema del rapporto tra sostenibilità ambientale e sostentamento dell’uomo. Nonostante la costante causticità, Marx sembra ben comprendere qual è la posta in gioco, anche in una questione limitata territorialmente come quella degli usi civici del legnatico nella Renania. Ben prima che i tempi fossero maturi per poter sviluppare una vera e propria coscienza ecologista, egli aveva colto che il rapporto tra natura e uomo non poteva che svolgere un ruolo cruciale, malgrado egli scelga di propendere per quest’ultimo, cosa che alle nostre menti ormai avvezze alle battaglie ambientaliste può apparire come un tragico errore (del resto erano ancora inimmaginabili i danni che la deforestazione selvaggia o le piogge acide avrebbero prodotto in futuro ma erano, al contrario, ben evidenti le miserrime condizioni degli uomini e, in particolare, dei lavoratori appartenenti al gradino più basso della scala sociale). È chiaro allora che l’obiettivo di Marx non era (non poteva esserlo!) quello di uno ‘sviluppo sostenibile’ ma di una lotta senza remore non alla proprietà privata tout court ma a quella borghese troppo idealizzata ed idolatrata, come si evince dalla lettura del Manifesto dove la sua critica assurge a vero e proprio tratto portante della teoria comunista. Quello che viene prima solo abbozzato (la riappropriazione di qualcosa che spetta ai consociati liberamente) viene ribadito con forza nelle taglienti pagine del capitolo XXIV del Capitale sulla cosiddetta accumulazione originaria. Qui Marx intende confutare ab imis gli ‘idilliaci processi’ che hanno caratterizzato l’accumulazione originaria, cioè la tanto celebrata accumulazione primitiva intesa come frutto del lavoro e del risparmio dei lavoratori. Non c’è nulla di ‘idilliaco’ afferma Marx con fermezza, portando alla luce una realtà ben diversa da quella descritta dagli economisti classici (e, in particolare da Adam Smith): «il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà dei clan in proprietà privata moderna». In altri termini, una storia violenta di soprusi perpetrati da chi si è arricchito a dismisura nei confronti degli ‘spossessati’. Le espropriazioni forzate delle terre a danno della popolazione rurale e, più in generale, la pratica delle enclosures, ovvero la recinzione delle terre comuni destinati al pascolo a favore dei proprietari terrieri, comportavano l’arricchimento dei proprietari e l’impoverimento dei contadini non proprietari, costretti alla fame e ben presto trasformati nella forza lavoro salariata. «Questi metodi – sottolinea Marx – conquistarono il campo all’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra nel capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege».

4. Contro nuovi idilliaci processi
Le enclosures tuttavia non sono da relegare ad un passato ormai lontano, poiché oggi stiamo assistendo a nuovi e forse ancora più devastanti fenomeni di recinzione, come il c.d. land grabbing (incetta di suoli o furto della terra). Si tratta di un processo in forte espansione messo in atto da multinazionali, fondi immobiliari e persino governi dei Paesi economicamente più forti (si pensi alla Cina e alla Corea del Sud) che hanno iniziato a comprare enormi estensioni di suoli fertili e le relative risorse idriche ed energetiche a prezzi risibili dai Paesi più poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Ad esempio, solo in Madagascar la metà dei terreni agricoli del Paese, cioè circa 1.300.000 ettari, è stata acquistata dalla Corea del Sud che destinerà queste terre alla coltivazione di mais e altri prodotti da esportazione. Queste spregiudicate operazioni hanno portato alla sottrazione ‘legale’ di milioni di ettari di terreni, destinati ad una forma di agricoltura industrializzata ed intensiva a discapito delle popolazioni locali che avevano in quelle terre le loro uniche fonti di sostentamento. Invero chi compra queste terre non è minimante interessato alla sorte di chi ci vive da sempre che, nei paesi più poveri sono addirittura privi di qualunque documento legale che comprovi la loro proprietà. La vendita avviene in questi casi a livello governativo e dunque all’insaputa dei suoi abitanti che si ritrovano improvvisamente spossessati e scacciati dalle proprie terre mentre i più ‘fortunati’ vengono assunti come bracciati a bassissimo costo nelle stesse. Il land grabbing si può considerare come una vera e propria forma di ‘rapina’ del mondo ‘ricco’ nei confronti di quello ‘povero’. Allo stesso modo, anche le legislazioni di alcuni Paesi operano contro i loro stessi abitanti con il risultato di favorire un saccheggio di terre e risorse senza fine. È il caso delle Cina, dove negli ultimi decenni più di settanta milioni di contadini hanno subito gli effetti di una privatizzazione selvaggia dei loro terreni agricoli, destinati dal governo ad opere di urbanizzazione. Un quadro ancora più sconsolante è quello presentatosi in Messico, dove grazie ad una modifica legislativa agli inizi degli anni Novanta è stato eliminato il sistema delle terre comuni (ejjdos), prima garantite addirittura dalla Carta costituzionale, in quanto ritenute poco redditizie, con il risultato di ‘sfrattare’ milioni di contadini a vantaggio di una privatizzazione sfrenata che ha favorito solo investitori stranieri senza scrupoli. Non si può non scorgere pertanto nell’accumulazione di risorse nelle mani di pochi e nella conseguente sempre maggiore pauperizzazione di intere masse, la stessa logica criminale denunciata, a suo tempo, da Marx. Anzi attualmente quegli effetti deleteri che egli metteva in evidenza non possono che risultare, in una società globale, amplificati fino a raggiungere proporzioni, a dir poco, allarmanti, tali da far assumere ad un fenomeno ristretto come quello delle recinzioni verificatosi originariamente in Inghilterra dimensioni mondiali. È proprio la globalizzazione e la logica di profitto sfrenato ad essa sottesa imposta dalle multinazionali a concepire l’intero pianeta in termini di proprietà privata da sfruttare fino al collasso. Le privatizzazioni e le ‘nuove recinzioni’ effettuate più o meno legalmente dalle multinazionali dell’agrobusiness stanno non solo mettendo in ginocchio intere popolazioni ma stanno distruggendo ogni forma di diversità, sia biologica che culturale, finendo col trasformare, come ha efficacemente osservato Vandana Shiva, il mondo in un «gigantesco supermercato, in cui beni e servizi prodotti con costi ecologici, economici e sociali estremamente alti vengono rivenduti a prezzi stracciati». Le nuove forme di enclosures of the commons figlie della ‘filosofia di morte’ dell’economia neoliberista conducono non solo ad una sorta di neocolonialismo che trasforma in merce ogni risorsa, ma ad un impoverimento oltre che di tipo strettamente economico anche culturale e politico. Per tale ragione è più che mai necessario non sprecare l’occasione offertaci dalla possibilità di tutelare i beni comuni. Sarà possibile farlo proseguendo il percorso più che virtuoso, ma anche irto di pericoli, della Commissione Rodotà? Molti sono ancora i nodi irrisolti, ad esempio: se sia possibile muoversi dentro la tradizione giuridica occidentale utilizzando le categorie della tradizione romanistica (come l’actio popularis o la res communis omnium) o se sia necessario elaborare delle categorie ex novo. E ancora: come risolvere le questioni relative alle decisioni sull’erogazione di una risorsa e la distribuzione dei costi del suo utilizzo e mantenimento? In ogni caso, la strada da percorrere è ancora lunga e per andare avanti sarà necessario operare un cambio radicale di paradigma che implichi una reale alternativa alla deriva neoliberista. Per fare ciò è necessario non dimenticare la lezione di Marx: mettendo da parte le implicazioni più smaccatamente ideologiche, sarebbe opportuno oggi riprendere in mano le ‘armi del diritto’, come fece egli stesso utilizzando il diritto consuetudinario contro il diritto dei ‘potenti’. Per porre in essere una chiara inversione di tendenza alle logiche di mercato e alla ‘dittatura proprietaria’, tuttavia, non è più possibile utilizzare il diritto consuetudinario che, come abbiamo visto nei casi di land grabbing risulta, nient’altro che un’arma spuntata rispetto al diritto ‘forte’ delle multinazionali. Il diritto del resto, come si evince non solo da questi recenti fenomeni di ‘espropriazione legale’ delle terre, ma anche dalla lettura dello stesso Marx, è un’arma a doppio taglio utilizzabile in senso regressivo o progressivo, per consolidare le pretese dei ‘forti’ o per tutelare le istanze dei più ‘deboli’. I tempi sono ormai maturi affinché un uso alternativo del diritto nel campo dei beni comuni possa imporre un reale cambiamento riuscendo ad incanalare positivamente la ‘violenza creatrice del diritto’ di cui parlava Walter Benjamin a favore della collettività e non delle logiche di mercato.


Bibliografia minima di riferimento
AA.VV., Oltre il pubblico e il privato, a cura di M.R. Marella, Ombre Corte, Verona 2012;
AA.VV., La società dei beni comuni, a cura di P. Cacciari, Ediesse, Roma 2010;
AA.VV., Lessico marxiano, Manifestolibri, Roma 2008;
AA.VV., L’uso alternativo del diritto, a cura di P. Barcellona, Laterza, Roma-Bari 1973;
D. Bensaïd, Gli spossessati, Ombre Corte, Verona 2009;
A. Ciervo, I beni comuni, Ediesse, Roma 2012;
A. Lucarelli, La democrazia dei beni comuni, Laterza, Roma-Bari 2013;
D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007;
S. Liberti, Land grabbing, Minimum Fax, Roma 2011;
P. Linebaugh, M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico, Feltrinelli, Milano 2004;
K. Marx, Scritti politici giovanili, Einaudi, Torino 1975;
K. Marx, Il Capitale, La Città del Sole, Napoli 2011;
U. Mattei, Beni Comuni, Laterza, Roma-Bari 2011;
U. Mattei, L. Nader, Il saccheggio, Bruno Mondadori, Milano 2010;
E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2009;
S. Rodotà, Il terribile diritto, Il Mulino, Bologna 1981;
S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012;
S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino 2012;
V. Shiva, Il bene comune della Terra, Feltrinelli, Milano 2006.

giovedì 25 aprile 2013

CS del Coordinamento Rifiuti Zero

"Il Gerbido ha avviato le sue attività ma nessuno lo sa!"

Comunicato stampa del Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino del 24.04.2013 
L’inceneritore di Torino ha avviato le sue attività ormai da alcuni giorni. Appare piuttosto grave che neanche i componenti del CLdC (Comitato Locale di Controllo), siano stati avvisati dell'accensione, così come il tecnico di fiducia del Comune di Rivalta, che aveva espressamente chiesto di essere avvertito per poter eventualmente assistere e controllare.
Si trattava solo dell’“avviamento tecnico” di una linea per poter produrre la prima energia elettrica così da ricevere i certificati verdi: nulla di così importante da dover essere tenuto nascosto, quindi. Ma allora - ci domandiamo - cosa succederà quando “inizieranno a fare sul serio”?

Il consiglio di mantenere “il silenzio” pare sia giunto dagli organi di Polizia: la motivazione è stata che sussisteva, in caso di diffusione della notizia dell’accensione, il rischio di disordini. È stata richiesta un’appropriata documentazione per tale affermazione. Questo fatto costituisce un precedente, che mette ulteriormente in dubbio la fiducia che come cittadini ci viene chiesto di riporre in coloro che continuano a vantarsi di costituire garanzia di trasparenza. Un accadimento di tale gravità giunge, tra l’altro, proprio nelle fasi iniziali di vita dell’impianto del Gerbido, occasione in cui diventa ancor più importante la funzione di "controllo” insita nella costituzione del CLdC. Di fronte alle presuntuose e arroganti affermazioni e accuse del sindaco di Grugliasco Roberto Montà rispetto alle tesi sostenute dal Comune di Rivalta, contrarie all’incenerimento, vi è stata una comprensibile reazione da parte del pubblico presente in sala, il quale valuta positivamente il parere dell'amministrazione rivaltese, rappresentata nel corso della seduta dall’Assessore all’Ambiente Gianna De Masi, accompagnata da un tecnico.

I rivaltesi hanno risposto alle affermazioni lanciate nei loro confronti, “smontandole” e rinviando al mittente le accuse di immobilismo e sabotaggio del lavoro del CLdC. Ora, almeno, siamo a conoscenza del pensiero del sindaco Montà nei confronti dei propri “colleghi”, sindaci nei comuni limitrofi, e di come ritenga di poter criticare, manipolare e strumentalizzare scelte democraticamente corrette che - a questo punto ne siamo sicuri - lui e la sua giunta non compiranno mai. Siamo solo dispiaciuti per i cittadini grugliaschesi.
Diventa a questo punto indispensabile per TRM dare prova della ricezione dell'imposizione di tacere a TUTTI la data dell'accensione, dimostrando quanto meno la sua buona fede e acclarando chi siano i responsabili dei mancati controlli, siano essi funzionari di Polizia o amministratori zelanti.

Altro argomento trattato, il destino delle scorie di combustione: Paolo Foietta (presidente di ATOR), ha dichiarato che le ceneri non saranno destinate alla Servizi Industriali di Orbassano, nonostante la stessa azienda abbia vinto il relativo bando di gara. Restano però senza risposta i tanti quesiti inerenti il destino delle scorie: cosa nasconde questo silenzio? Quali patti sono intercorsi con la Servizi Industriali per farle fare un passo indietro rispetto al diritto acquisito?

mercoledì 24 aprile 2013

Paraguay: il narcopresidente

di Mario Lombardo, Altrenotizie

Con la vittoria del discusso imprenditore miliardario Horacio Cartes nelle elezioni presidenziali di domenica scorsa, il Partito Colorado conservatore è tornato al potere in Paraguay dopo la sconfitta nel voto del 2008 che aveva interrotto 61 anni consecutivi di dominio assoluto nel secondo paese più povero di tutto il Sudamerica. Cartes ha ottenuto il 46% dei consensi contro il 37% andati all’altro favorito della vigilia, il senatore Efraín Alegre, candidato di un altra formazione politica di destra, il partito Radicale Liberale.
Il 56enne neo-presidente appartiene alla ristrettissima élite paraguayana ed è entrato a far parte del Partito Colorado soltanto nel 2009. Tra le sue svariate proprietà spiccano banche, fondi di investimento, aziende agricole, piantagioni di tabacco e una delle più importanti squadre di calcio del paese.
I due candidati conservatori hanno staccato nettamente gli aspiranti alla presidenza di centro-sinistra. L’ex presentatore TV Mario Ferreiro dell’alleanza Avanza País si è fermato al 5,5%, mentre il candidato del Fronte Guasú, Aníbal Carrillo, ha raccolto appena il 3,5%. Quest’ultima coalizione è guidata dall’ex presidente e neo-senatore Fernando Lugo, in grado cinque anni fa di sconfiggere per la prima volta dopo oltre sei decenni il Partito Colorado.
Proprio la vicenda dell’ex vescovo paraguayano nell’estate del 2012 aveva posto le basi per il ribaltamento degli equilibri politici ad Asunción. Alleandosi con il Partito Radicale Liberale, nel 2008 Lugo aveva conquistato la presidenza grazie all’entusiasmo suscitato dalla promessa di riforme sociali e, soprattutto, di mettere mano alla riforma agraria in un paese dove l’1% della popolazione controlla il 77% delle terre coltivabili.
La presidenza Lugo era apparsa però da subito problematica. Alla mancanza di una vera e propria maggioranza politica in Parlamento si erano aggiunti ben presto i ripetuti scandali scoppiati in seguito alle rivelazioni di alcune donne che avevano sostenuto di avere dato alla luce figli illegittimi dell’ex vescovo cattolico.
Nonostante i modesti risultati concreti ottenuti dal suo governo, Lugo ha dovuto fare i conti inoltre con l’irriducibile opposizione dei poteri forti paraguayani e degli Stati Uniti, entrambi responsabili della sua rimozione dalla guida del paese lo scorso anno.
Utilizzando come pretesto i violenti scontri tra le forze di polizia e un centinaio di contadini che avevano occupato alcune terre di proprietà di un membro del Partito Colorado, nel giugno del 2012 la maggioranza di centro-destra del Parlamento aveva infatti aperto un rapido procedimento di impeachment contro Fernando Lugo, estromettendolo dal potere in quello che da molti è stato definito come un “golpe legislativo”, portato a termine con il tacito consenso di Washington.
Al posto di Lugo venne così installato il suo vice, Federico Franco, del Partito Radicale Liberale e il Paraguay, su iniziativa dei governi di sinistra al potere nei paesi vicini, è stato subito sospeso dalle organizzazioni latino-americane Mercosur (Mercato Comune del Sud), UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) e CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi) di cui è membro.
Dopo l’annuncio dei risultati del voto di domenica scorsa, Horacio Cartes ha però ricevuto i complimenti, tra gli altri, dei presidenti di Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela. Da Buenos Aires, in particolare, Cristina Kirchner ha espresso al neo-presidente paraguayano la speranza di vedere riammesso il suo paese nel Mercosur. Lo stesso Cartes, da parte sua, ha già fatto sapere di essere entrato in contatto con i vertici del Mercosur per ottenere la riammissione del Paraguay prima del suo insediamento ufficiale, previsto per il prossimo 15 agosto. Si potrebbe obiettare che l’elezione di Capriles é comunque stata la puntata finale di un film iniziato con il golpe istituzionale contro Lugo, ma va evidenziato come il processo unitario latinoamericano ha bisogno di non essere accusato di politicizzazione estrema nella scelta dei paesi che lo compongono
Il Paraguay, comunque, non rappresentando nessun peso politico particolare, all’interno dei fori della democrazia latinoamericana sarà del tutto ininfluente e si limiterà a svolgere il ruolo di ventriloquo di Washington, come già del resto già fa – e con molto maggior peso – il Messico, senza che ciò possa mettere in discussione l’impianto politico generale indipendentista del nuovo corso del subcontinente.
Per quanto attiene invece alla vicnda politica interna del Paraguay, Cartes ha un passato non esattamente immacolato, dal momento che è stato coinvolto in più di una vicenda giudiziaria ed è al centro di molti dubbi e sospetti. Come hanno rivelato alcuni documenti diplomatici pubblicati da WikiLeaks, ad esempio, Cartes venne identificato dalla DEA americana (Drug Enforcement Administration) come il vertice di un’organizzazione dedita al riciclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico e strettamente legata ai narcotrafficanti brasiliani. Nel 2000, inoltre, la polizia paraguayana sequestrò un aereo con un carico di cocaina e marijuana che era atterrato su una delle sue proprietà. Già nel 1989, invece, Cartes era finito in carcere per quasi un anno con l’accusa, successivamente caduta, di riciclaggio.
Nel 2004, infine, era stato il governo brasiliano ad accusarlo di essere a capo di un’organizzazione dedita al contrabbando di sigarette, mentre la sua ascesa politica sarebbe dovuta al sostegno del senatore del Partito Colorado, Juan Carlos Galaverna, coinvolto secondo le polizie e i servizi di intelligence stranieri nelle attività delle reti del narcotraffico attive in Paraguay.
Con queste credenziali, Horacio Cartes ha avuto il sostegno di un partito che è espressione dei grandi proprietari terrieri e del business agricolo del paese. Con quasi il 40% della popolazione che vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà, il nuovo Presidente intende dedicarsi ora alla trasformazione dello stato in uno strumento volto a “creare le condizioni ideali perché il settore privato possa prosperare”.
Un’agenda improntata al neo-liberismo quella di Cartes che rischia di scontrarsi precocemente sia con i settori più tradizionalisti del partito che fu del dittatore Alfredo Stroessner (1954-1989) sia con la massa di contadini senza terra, alimentando uno scontro sociale già esploso in numerosi episodi di violenza. Di Stroessner, del resto, Capriles ha cantato le lodi a più riprese, a dimostrazione di come la continuità tra la dittatura e la democradura paraguayana si dispiega modificando solo la forma giuridica del suo dominio.
Il Presidente paraguayano potrà comunque contare sulla maggioranza assoluta conquistata sempre domenica dal Partito Colorado nella Camera bassa del Parlamento, mentre al Senato i seggi ottenuti dalla sua formazione politica sono stati 19 sui 45 complessivamente in palio.
Il voto di domenica è stato monitorato da delegazioni inviate dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), dall’Unione Europea e dall’UNASUR, le quali, malgrado qualche isolato episodio, non hanno rilevato significative irregolarità nell’accesso ai seggi. Ciononostante, alla vigilia delle elezioni presidenziali molti giornali avevano descritto il diffuso tentativo di comprare il voto degli elettori paraguayani da parte del Partito Colorado e di quello Radicale Liberale. Nulla che non fosse già ampiamente noto. Narcotrafficante, padrone di mezzo paese e amico di dittatori agli ordini di Washington, Cartes non poteva che vincere le elezioni.

Napolitano bis: discorso di insediamento

Signora Presidente, onorevoli deputati, onorevoli senatori, signori delegati delle Regioni,
lasciatemi innanzitutto esprimere – insieme con un omaggio che in me viene da molto lontano alle istituzioni che voi rappresentate – la gratitudine che vi debbo per avermi con così largo suffragio eletto Presidente della Repubblica. E’ un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze : e apprezzo in modo particolare che mi sia venuto da tante e tanti nuovi eletti in Parlamento, che appartengono a una generazione così distante, e non solo anagraficamente, dalla mia.
So che in tutto ciò si è riflesso qualcosa che mi tocca ancora più profondamente : e cioè la fiducia e l’affetto che ho visto in questi anni crescere verso di me e verso l’istituzione che rappresentavo tra grandi masse di cittadini, di italiani – uomini e donne di ogni età e di ogni regione – a cominciare da quanti ho incontrato nelle strade, nelle piazze, nei più diversi ambiti sociali e culturali, per rivivere insieme il farsi della nostra unità nazionale.
Come voi tutti sapete, non prevedevo di tornare in quest’aula per pronunciare un nuovo giuramento e messaggio da Presidente della Repubblica.
Avevo già nello scorso dicembre pubblicamente dichiarato di condividere l’autorevole convinzione che la non rielezione, al termine del settennato, è “l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica”. Avevo egualmente messo l’accento sull’esigenza di dare un segno di normalità e continuità istituzionale con una naturale successione nell’incarico di Capo dello Stato.
A queste ragioni e a quelle più strettamente personali, legate all’ovvio dato dell’età, se ne sono infine sovrapposte altre, rappresentatemi – dopo l’esito nullo di cinque votazioni in quest’aula di Montecitorio, in un clima sempre più teso – dagli esponenti di un ampio arco di forze parlamentari e dalla quasi totalità dei Presidenti delle Regioni. Ed è vero che questi mi sono apparsi particolarmente sensibili alle incognite che possono percepirsi al livello delle istituzioni locali, maggiormente vicine ai cittadini, benché ora alle prese con pesanti ombre di corruzione e di lassismo. Istituzioni che ascolto e rispetto, Signori delegati delle Regioni, in quanto portatrici di una visione non accentratrice dello Stato, già presente nel Risorgimento e da perseguire finalmente con serietà e coerenza.
E’ emerso da tali incontri, nella mattinata di sabato, un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento in seduta comune nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezione del Capo dello Stato. Di qui l’appello che ho ritenuto di non poter declinare – per quanto potesse costarmi l’accoglierlo – mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese.
La rielezione, per un secondo mandato, del Presidente uscente, non si era mai verificata nella storia della Repubblica, pur non essendo esclusa dal dettato costituzionale, che in questo senso aveva lasciato – come si è significativamente notato – “schiusa una finestra per tempi eccezionali”. Ci siamo dunque ritrovati insieme in una scelta pienamente legittima, ma eccezionale. Perché senza precedenti è apparso il rischio che ho appena richiamato : senza precedenti e tanto più grave nella condizione di acuta difficoltà e perfino di emergenza che l’Italia sta vivendo in un contesto europeo e internazionale assai critico e per noi sempre più stringente.
Bisognava dunque offrire, al paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi : passando di qui una ritrovata fiducia in noi stessi e una rinnovata apertura di fiducia internazionale verso l’Italia.
E’ a questa prova che non mi sono sottratto. Ma sapendo che quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Ne propongo una rapida sintesi, una sommaria rassegna. Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti : hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Ecco che cosa ha condannato alla sterilità o ad esiti minimalistici i confronti tra le forze politiche e i dibattiti in Parlamento.
Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato dunque facilmente ignorato o svalutato : e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento, sono state con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono. Attenzione : quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme.
Imperdonabile resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005. Ancora pochi giorni fa, il Presidente Gallo ha dovuto ricordare come sia rimasta ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi.
La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti.
Non meno imperdonabile resta il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione, faticosamente concordate e poi affossate, e peraltro mai giunte a infrangere il tabù del bicameralismo paritario.
Molto si potrebbe aggiungere, ma mi fermo qui, perché su quei temi specifici ho speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale. Ma ho il dovere di essere franco : se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese.
Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana.
Parlando a Rimini a una grande assemblea di giovani nell’agosto 2011, volli rendere esplicito il filo ispiratore delle celebrazioni del 150° della nascita del nostro Stato unitario : l’impegno a trasmettere piena coscienza di “quel che l’Italia e gli italiani hanno mostrato di essere in periodi cruciali del loro passato”, e delle “grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo”. E aggiunsi di aver voluto così suscitare orgoglio e fiducia “perché le sfide e le prove che abbiamo davanti sono più che mai ardue, profonde e di esito incerto. Questo ci dice la crisi che stiamo attraversando. Crisi mondiale, crisi europea, e dentro questo quadro l’Italia, con i suoi punti di forza e con le sue debolezze, con il suo bagaglio di problemi antichi e recenti, di ordine istituzionale e politico, di ordine strutturale, sociale e civile.”
Ecco, posso ripetere quelle parole di un anno e mezzo fa, sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della verità – fuori di ogni banale distinzione e disputa tra pessimisti e ottimisti – sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l’avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile.
E’ un discorso che – anche per ovvie ragioni di misura di questo mio messaggio – posso solo rinviare ai documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo scorso. Documenti di cui non si può negare – se non per gusto di polemica intellettuale – la serietà e concretezza. Anche perché essi hanno alle spalle elaborazioni sistematiche non solo delle istituzioni in cui operano i componenti dei due gruppi, ma anche di altre istituzioni e associazioni qualificate. Se poi si ritiene che molte delle indicazioni contenute in quei testi fossero già acquisite, vuol dire che è tempo di passare, in sede politica, ai fatti; se si nota che, specie in materia istituzionale, sono state lasciate aperte diverse opzioni su varii temi, vuol dire che è tempo di fare delle scelte conclusive. E si può, naturalmente, andare anche oltre, se si vuole, con il contributo di tutti.
Vorrei solo formulare, a commento, due osservazioni. La prima riguarda la necessità che al perseguimento di obbiettivi essenziali di riforma dei canali di partecipazione democratica e dei partiti politici, e di riforma delle istituzioni rappresentative, dei rapporti tra Parlamento e governo, tra Stato e Regioni, si associ una forte attenzione per il rafforzamento e rinnovamento degli organi e dei poteri dello Stato. A questi sono stato molto vicino negli ultimi sette anni, e non occorre perciò che rinnovi oggi un formale omaggio, si tratti di forze armate o di forze dell’ordine, della magistratura o di quella Corte che è suprema garanzia di costituzionalità delle leggi. Occorre grande attenzione di fronte a esigenze di tutela della libertà e della sicurezza da nuove articolazioni criminali e da nuove pulsioni eversive, e anche di fronte a fenomeni di tensione e disordine nei rapporti tra diversi poteri dello Stato e diverse istituzioni costituzionalmente rilevanti.
Né si trascuri di reagire a disinformazioni e polemiche che colpiscono lo strumento militare, giustamente avviato a una seria riforma, ma sempre posto, nello spirito della Costituzione, a presidio della partecipazione italiana – anche col generoso sacrificio di non pochi nostri ragazzi – alle missioni di stabilizzazione e di pace della comunità internazionale.
La seconda osservazione riguarda il valore delle proposte ampiamente sviluppate nel documento da me già citato, per “affrontare la recessione e cogliere le opportunità” che ci si presentano, per “influire sulle prossime opzioni dell’Unione Europea”, “per creare e sostenere il lavoro”, “per potenziare l’istruzione e il capitale umano, per favorire la ricerca, l’innovazione e la crescita delle imprese”.
Nel sottolineare questi ultimi punti, osservo che su di essi mi sono fortemente impegnato in ogni sede istituzionale e occasione di confronto, e continuerò a farlo. Essi sono nodi essenziali al fine di qualificare il nostro rinnovato e irrinunciabile impegno a far progredire l’Europa unita, contribuendo a definirne e rispettarne i vincoli di sostenibilità finanziaria e stabilità monetaria, e insieme a rilanciarne il dinamismo e lo spirito di solidarietà, a coglierne al meglio gli insostituibili stimoli e benefici.
E sono anche i nodi – innanzitutto, di fronte a un angoscioso crescere della disoccupazione, quelli della creazione di lavoro e della qualità delle occasioni di lavoro – attorno a cui ruota la grande questione sociale che ormai si impone all’ordine del giorno in Italia e in Europa. E’ la questione della prospettiva di futuro per un’intera generazione, è la questione di un’effettiva e piena valorizzazione delle risorse e delle energie femminili. Non possiamo restare indifferenti dinanzi a costruttori di impresa e lavoratori che giungono a gesti disperati, a giovani che si perdono, a donne che vivono come inaccettabile la loro emarginazione o subalternità.
Volere il cambiamento, ciascuno interpretando a suo modo i consensi espressi dagli elettori, dice poco e non porta lontano se non ci si misura su problemi come quelli che ho citato e che sono stati di recente puntualizzati in modo obbiettivo, in modo non partigiano. Misurarsi su quei problemi perché diventino programma di azione del governo che deve nascere e oggetti di deliberazione del Parlamento che sta avviando la sua attività. E perché diventino fulcro di nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze – in primo luogo nel mondo del lavoro e dell’impresa – che “appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa e a disagio di fronte all’innovazione che è invece il motore dello sviluppo”. Occorre un’apertura nuova, un nuovo slancio nella società ; occorre un colpo di reni, nel Mezzogiorno stesso, per sollevare il Mezzogiorno da una spirale di arretramento e impoverimento.
Il Parlamento ha di recente deliberato addirittura all’unanimità il suo contributo su provvedimenti urgenti che al governo Monti ancora in carica toccava adottare, e che esso ha adottato, nel solco di uno sforzo di politica economico-finanziaria ed europea che meriterà certamente un giudizio più equanime, quanto più si allontanerà il clima dello scontro elettorale e si trarrà il bilancio del ruolo acquisito nel corso del 2012 in seno all’Unione europea.
Apprezzo l’impegno con cui il movimento largamente premiato dal corpo elettorale come nuovo attore politico-parlamentare ha mostrato di volersi impegnare alla Camera e al Senato, guadagnandovi il peso e l’influenza che gli spetta : quella è la strada di una feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento. Non può, d’altronde, reggere e dare frutti neppure una contrapposizione tra Rete e forme di organizzazione politica quali storicamente sono da ben più di un secolo e ovunque i partiti.
La Rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all’aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all’imperativo costituzionale del “metodo democratico”.
Le forze rappresentate in Parlamento, senza alcuna eccezione, debbono comunque dare ora – nella fase cruciale che l’Italia e l’Europa attraversano – il loro apporto alle decisioni da prendere per il rinnovamento del paese. Senza temere di convergere su delle soluzioni, dal momento che di recente nelle due Camere non si è temuto di votare all’unanimità. Sentendo voi tutti – onorevoli deputati e senatori – di far parte dell’istituzione parlamentare non come esponenti di una fazione ma come depositari della volontà popolare. C’è da lavorare concretamente, con pazienza e spirito costruttivo, spendendo e acquisendo competenze, innanzitutto nelle Commissioni di Camera e Senato. Permettete che ve lo dica uno che entrò qui da deputato all’età di 28 anni e portò giorno per giorno la sua pietra allo sviluppo della vita politica democratica.
Lavorare in Parlamento sui problemi scottanti del paese non è possibile se non nel confronto con un governo come interlocutore essenziale sia della maggioranza sia dell’opposizione. A 56 giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio – dopo che ci si è dovuti dedicare all’elezione del Capo dello Stato – si deve senza indugio procedere alla formazione dell’Esecutivo. Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si chiacchiera. Al Presidente non tocca dare mandati, per la formazione del governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione se non quella voluta dall’art. 94 della Costituzione : un governo che abbia la fiducia delle due Camere. Ad esso spetta darsi un programma, secondo le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune.
E la condizione è dunque una sola : fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto, sapendo quali prove aspettino il governo e quali siano le esigenze e l’interesse generale del paese. Sulla base dei risultati elettorali – di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no – non c’è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto – se si preferisce questa espressione – si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale.
D’altronde, non c’è oggi in Europa nessun paese di consolidata tradizione democratica governato da un solo partito – nemmeno più il Regno Unito – operando dovunque governi formati o almeno sostenuti da più partiti, tra loro affini o abitualmente distanti e perfino aspramente concorrenti.
Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione – fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile – come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti.
Lo dicevo già sette anni fa in quest’aula, nella medesima occasione di oggi, auspicando che fosse finalmente vicino “il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza” : che significa anche il tempo della maturità per la ricerca di soluzioni di governo condivise quando se ne imponga la necessità. Altrimenti, si dovrebbe prendere atto dell’ingovernabilità, almeno nella legislatura appena iniziata.
Ma non è per prendere atto di questo che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come Presidente della Repubblica. L’ho accolto anche perché l’Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno. E farò a tal fine ciò che mi compete : non andando oltre i limiti del mio ruolo costituzionale, fungendo tutt’al più, per usare un’espressione di scuola, “da fattore di coagulazione”. Ma tutte le forze politiche si prendano con realismo le loro responsabilità : era questa la posta implicita dell’appello rivoltomi due giorni or sono.
Mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione “salvifica” delle mie funzioni ; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno. Inizia oggi per me questo non previsto ulteriore impegno pubblico in una fase di vita già molto avanzata ; inizia per voi un lungo cammino da percorrere, con passione, con rigore, con umiltà. Non vi mancherà il mio incitamento e il mio augurio.
Viva il Parlamento! Viva la Repubblica! Viva l’Italia!

Giorgio Napolitano