martedì 26 marzo 2013

Le rivoluzioni gioiose di un missionario testardo

di Mauro Bonciani
in “Corriere Fiorentino” del 26 marzo 2013

«Era nervoso ma donava gioia». Don Renzo Rossi, anzi «Renzo Rossi prete» come firmava le sue lettere, nel 2011 ha scritto ad alcuni amici e — scherzando ma non troppo, come faceva sempre — ha spiegato che gli sarebbe piaciuta questa scritta sulla sua lapide. «Nervoso» e dal linguaggio colorito (imprecazioni comprese) come i veri fiorentini, ma soprattutto pieno di vita, amore per gli altri che non giudicava mai, e gioia. Per tutti era il prete dei poveri.
Era il prete del sorriso, il «mezzo matto» che dava schiaffi e nocchini affettuosi ai fedeli come ai religiosi, che dava di bischero anche ai potenti che lo amavano senza mezze misure (si narra che il presidente del Brasile, Lula, abbia interrotto un consiglio dei ministri per correre ad accoglierlo) come i poveri.
Era un prete della chiesa fiorentina, compagno di seminario di Piovanelli, don Cuba e don Milani, diventato parte integrante della città brasiliana di Salvador Bahia, che ieri all'alba sapeva già la notizia e lo piangeva. «Siamo entrati in seminario piccolini, nel 1938, anzi lui era di un anno e di una classe più piccolo di me — dice il cardinale emerito di Firenze, Silvano Piovanelli, che ieri è stato tra i primi ad arrivare al convitto per pregare sulla sua salma — Lui era più "indietro" di me, ma è stato avanti di me in tante cose, nella missione, nei rapporti con gli altri, in situazioni difficili...
È stato il primo prete fiorentino che ha aperto una missione all'estero e ha avuto tanti amici; era letichino ma generoso, un fiorentino, con una grande passione per la bicicletta tanto che una volta mentre ero in macchina sul Pordoi l'ho incontrato che saliva in bici, e aveva una grande serenità, anche negli ultimi giorni e anche se sapeva benissimo il male che aveva. Il suo segreto era l'amore di Gesù». Don Renzo era però anche un «rivoluzionario», un figlio del popolo, e dietro il sorriso nascondeva una forte personalità, la testardaggine anche. «Il Milani, il Cubattoli e il sottoscritto ci volevano buttare fuori dal seminario — ha raccontato — E questo perchè eravamo troppo vivaci.
Una volta organizzammo uno sciopero dei seminaristi, una cosa folle. Il rettore era sconvolto e si precipitò dal cardinale; Elia Dalla Costa gli sorrise e disse: "Ragazzate". E alla fine diventammo preti». Con don Cuba, con cui fu ordinato sacerdote lo stesso giorno, l'11 luglio 1948, l'amicizia fu immediata e ininterrotta e a Barbiana sarebbe dovuto andare lui, che era parroco a Vicchio, e non 'amico don Milani. Intanto — era il 1952 — don Rossi era diventato cappellano alla Italgas, accolto dall'ostilità degli operai, tutti «rossi» e mangiapreti. Con la sua fedele bicicletta, si presentava ai cancelli ogni settimana e alla fine si fece amici lì come in altre fabbriche, tanto che nel 1958 fu lui che portò al cardinale Dalla Costa l'appello per gli operai della Galileo, scritto da lui ed altri preti operai, appello che il cardinale accettò, finendo sui giornali e le tv di tutto il mondo (e contribuendo al salvataggio della fabbrica).
Dall'incontro con i comunisti, gli atei, don Renzo ricavò la necessità di farsi missionario e chiese ed ottenne di partire, destinazione Brasile (e sulla nave pianse a lungo, lui uomo della battuta e delle risate), sotto la dittatura militare. «Qui fu povero tra i poveri, incontrò i carcerati e i detenuti politici torturati, fu un grande prete perchè era un grande uomo — racconta don Piero Sabatini, oggi parroco dell'isolotto e per anni con lui a Salvador — Tutti lo amavano e c'era una legge non scritta nelle favelas che nessuno lo toccasse, anche se era un "gringos". Stamani ho ripensato a quando in seminario nell'ottobre del 1965 ci presentarono questo pretino dicendo che stava per partire per il Brasile... e venti anni dopo mi sono ritrovato con lui in un'esperienza che mi ha segnato positivamente la vita. E ho pianto per la perdita del mio padre spirituale». È ancora sconvolta anche madre Renata Saura: «Abbiamo camminato tanto insieme in Brasile — dice — Mi chiamava affettuosamente "scema" e la sua è una grande perdita. Aveva un rapporto particolare con tutti, dai giovani ai potenti, una semplicità che conquistava e disarmava. Era un bischeraccio anche lui... e ora è nella gloria del Signore». Tornato, per una malattia al cuore, a Firenze nel 1997 non si era mai fermato, andando in «missione» di nuovo alle Piagge come a Pontassieve, a fare il «tappabuchi» e facendosi amare ovunque. «Conoscere don Renzo era conoscere un prete amico — è il ricordo del vescovo ausiliare Claudio Maniago — di grande gioiosità, semplicità, che ti scaldava il cuore e intanto si rimboccava le maniche... era impossibile tenerlo fermo. Ha sempre avuto obbedienza e rispetto per i suoi vescovi — sorride Maniago — ma in privato dava del bischero anche a me... La sua cordialità e confidenza faceva bene al cardinale come al povero».
«Mi hanno accusato di essere comunista, guerrigliero, di essere troppo operaio e tifoso della Fiorentina — ricordava don Rossi — ho cercato solo di essere me stesso, anche nella mia bischeraggine. E ho ricevuto dagli altri molto più di quello che ho donato». C'è anche un altro Renzo: «Oltre alla sua esuberanza, nascondeva un lato più contemplativo. Spesso si ritirava per giorni interi per meditare, e appuntava i suoi pensieri sui suoi quaderni. Decine e decine, oggi conservati dai familiari», rivela don Sergio Merlini, con lui missionario per 23 anni. Questo era don Renzo, che domani la sua Firenze saluterà. «In Brasile spesso non ci vedevamo a lungo, e come usano fare lì i figli col padre quando lo vedono dopo un po' di tempo, anche io gli chiedevo la benedizione come fosse mio babbo; e lui mi rispondeva burbero e poi ci abbracciavamo — sorride don Piero — E in San Lorenzo gli dirò un'altra volta "A sua bênção pai" e lui mi abbraccerà da lassù».

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La notizia della morte di Don Renzo Rossi è arrivata subito anche a Salvador Bahia e alle persone che don Rossi ha seguito e aiutato durante la loro prigionia politica in Brasile. "Ho fatto più di quarant'anni di vita insieme a lui, - scrive via mail Theodomiro Romeiro dos Santos - buona parte di questi, in situazione anche molto difficile, come quando ero detenuto nel Carcere Politico di Salvador e, più tardi, durante il mio esilio a Parigi. Non mi è mai mancata la sua presenza e il suo prezioso aiuto, sempre in modo generoso e allo stesso tempo, allegro".
"Noi, ex-prigionieri politici - continua la lettera - ci sentiamo orfani di padre, profondamente tristi in questo momento". A scrivere anche l'avvocato Rui Patterson, anche lui un ex-detenuto politico negli anni '70 in Brasile: "E' una enorme perdita per tutti noi, ex-detenuti politici del Brasile, ma anche per la Chiesa, senza paura di esagerare, una perdita per un numero significativo di esseri umani, ai quali don Renzo ha donato compassione, speranza, fede nei valori più elevati della persona umana".

Faccio baldoria, Gesù vuole così
di don Renzo Rossi

Il brano è tratto dalla Lettera di Pasqua dell'8 marzo 1966 contenuta nel libro «Lettere dal Brasile» di don Renzo Rossi, a cura di Matteo Del Perugia, edito dalla Società Editrice Fiorentina
 
Quaggiù, per noi italiani, esiste un'altra povertà; quella di essere totalmente a digiuno di notizie, è un modo anche questo per facilitare il nostro inserimento nel mondo brasiliano. Ogni tanto qualche notizia sul Governo che cade e poi si rialza. I risultati di calcio mi arrivano dopo venti giorni. Solo la grande vittoria della Fiorentina sull'Inter la seppi subito, come la notizia che Modugno ha rivinto il festival di San Remo che mi arrivò immediatamente. D'altra parte almeno una ventina di persone mi hanno scritto annunciandomi la nuova canzone di Modugno e mi fa piacere vedere che tanti amici quando ascoltano Modugno pensano a me. Ma le notizie che ora mi devono soprattutto interessare sono quelle brasiliane, devo amare il Brasile almeno quante l'Italia.
Stamani ho camminato per tre ore a piedi nella mia parrocchia. È stato un incontro bellissimo con tanta povera gente e tanti bambini. In quelle tre ore, pur soffrendo per tanta miseria e per tanto...piscio (letteralmente) che scorreva per le cosiddette strade piene di fango mi sentivo felice.
Ero tra la mia gente che ancora non riesco ad amare totalmente ma che presto avrei amato con tutto il cuore. Naturalmente fare il prete quaggiù non è una cosa facile, ma c'è la grazia di Dio e c'è la vostra amicizia. Continuo a far baldoria, a dire parolacce ed a fare delle belle risate. Sono contento che anche qui mi dicano che riesco a portare dappertutto un po' di gioia, sono un prete bischero ma se Gesù ha voluto che porti po' di gioia, sono felice.
Vi auguro una bellissima Pasqua ed una stupenda primavera, che Cristo Gesù che prima di farsi uomo e poi morire sulla croce pensò bene di crearsi un mondo pieno di sole e di luce, vi riempia della sua gioia. Un saluto a tutti i vostri cari. Vi penso uno per uno, prego per voi e per i vostri bambini e vi abbraccio con tanto affetto. 
 

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