mercoledì 27 marzo 2013

World Social Forum di Tunisi - 2013



Il 26 marzo si è aperto a Tunisi il Forum mondiale sociale che proseguirà nel Campus dell’Università di Tunisi fino al 30 marzo. Oltre il solito slogan “Un altro mondo è possibile” il tema centrale di quest’anno è la Dignità.  “Al centro del Forum, spiega il tunisino Fethi Dabako, c’è la parola DIGNITÀ che racchiude tutto quello che può volere un essere umano: libertà, diritto alla vita e a spostarsi liberamente”.
Questo è il terzo Forum che si celebra in Africa, il primo si è tenuto a Nairobi nel 2007 e  il secondo a Dakar nel 2011. I FMS hanno avuto inizio in Brasile dove si sono tenuti i primi tre a Porto Alegre, nel 2001 , nel 2003 e nel 2005  e sempre in Brasile, a Belem nel 2009. Solo uno si è tenuto in Asia a Mumbai nel 2004. Questo di Tunisi è il primo che si tiene in un paese quasi totalmente islamico.
Le  missionarie e missionari comboniani hanno iniziato a partecipato a questi Forum dal 2007 (Nairobi) e da allora sono sempre stati presenti perché ritengono i temi di giustizia, pace e integrità del creato come parte essenziale del loro fare missione.
A questo Forum partecipano una trentina di missionarie  e missionari comboniani, provenienti dai quattro continenti: Africa, Americhe, Europa e Asia. E’ la prima volta che sono presenti al Forum con un loro stand e con  sei workshops  inseriti nel programma di massima.
Oggi in preparazione al Forum Mondiale si è tenuto il Forum Comboniano, una giornata dove si è focalizzata l’attenzione sull’Islam, dato che il Forum si tiene in Tunisia, paese totalmente islamico e dove ha avuto  origine la prima delle “primavere arabe”.
Aiutati da due esperti comboniani P. Scattolin Giuseppe e P. Paul Hanis, che lavorano in Egitto, e da due comboniane, sr Anna Maria Sgaramella e sr Alicia Vacas, che operano a Gerusalemme, i partecipanti hanno affrontato il significato dell’Islam nel mondo contemporaneo.  
L’appello di questi esperti che lavorono sul campo è stato un pressante invito ad accostarci alla religione islamica con reverenza e ad accettare la sfida del dialogo a tutti i livelli. “Il dialogo interreligioso e interculturale, ha affermato Benedetto XVI, non può essere un optional”.
 I partecipanti sono stati poi invitati a leggere il fenomeno delle “primavere arabe” dentro l’ottica di un Islam che deve confrontarsi con la modernità: il dibattito su questa questione è molto forte nella comunità islamica e non è privo di forti tensioni.
E’ in questo contesto che il Forum sociale mondiale di Tunisi assume tutta una sua specificità. Interessante notare infatti che buona parte degli interventi nel programma del Forum vertono in prevalenza su questo argomento.
La giornata si è conclusa con una solenne eucarestia nella cattedrale di Tunisi in cui la chiesa locale  ha espresso la sua gioia per la partecipazione di cristiani e religiosi al Forum, insistendo sull’importanza del contributo cristiano che possono offrire in questo complesso momento storico.

Tunisia, 25 Marzo 2013
P. Alex Zanotelli, P. Bernardino Dias Frutuoso , sr Elisa Kidanè


A questo link trovate il programa completo del Forum Sociale Mondiale.
Il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua sarà presente con una propria delegazione.


martedì 26 marzo 2013

Le rivoluzioni gioiose di un missionario testardo

di Mauro Bonciani
in “Corriere Fiorentino” del 26 marzo 2013

«Era nervoso ma donava gioia». Don Renzo Rossi, anzi «Renzo Rossi prete» come firmava le sue lettere, nel 2011 ha scritto ad alcuni amici e — scherzando ma non troppo, come faceva sempre — ha spiegato che gli sarebbe piaciuta questa scritta sulla sua lapide. «Nervoso» e dal linguaggio colorito (imprecazioni comprese) come i veri fiorentini, ma soprattutto pieno di vita, amore per gli altri che non giudicava mai, e gioia. Per tutti era il prete dei poveri.
Era il prete del sorriso, il «mezzo matto» che dava schiaffi e nocchini affettuosi ai fedeli come ai religiosi, che dava di bischero anche ai potenti che lo amavano senza mezze misure (si narra che il presidente del Brasile, Lula, abbia interrotto un consiglio dei ministri per correre ad accoglierlo) come i poveri.
Era un prete della chiesa fiorentina, compagno di seminario di Piovanelli, don Cuba e don Milani, diventato parte integrante della città brasiliana di Salvador Bahia, che ieri all'alba sapeva già la notizia e lo piangeva. «Siamo entrati in seminario piccolini, nel 1938, anzi lui era di un anno e di una classe più piccolo di me — dice il cardinale emerito di Firenze, Silvano Piovanelli, che ieri è stato tra i primi ad arrivare al convitto per pregare sulla sua salma — Lui era più "indietro" di me, ma è stato avanti di me in tante cose, nella missione, nei rapporti con gli altri, in situazioni difficili...
È stato il primo prete fiorentino che ha aperto una missione all'estero e ha avuto tanti amici; era letichino ma generoso, un fiorentino, con una grande passione per la bicicletta tanto che una volta mentre ero in macchina sul Pordoi l'ho incontrato che saliva in bici, e aveva una grande serenità, anche negli ultimi giorni e anche se sapeva benissimo il male che aveva. Il suo segreto era l'amore di Gesù». Don Renzo era però anche un «rivoluzionario», un figlio del popolo, e dietro il sorriso nascondeva una forte personalità, la testardaggine anche. «Il Milani, il Cubattoli e il sottoscritto ci volevano buttare fuori dal seminario — ha raccontato — E questo perchè eravamo troppo vivaci.
Una volta organizzammo uno sciopero dei seminaristi, una cosa folle. Il rettore era sconvolto e si precipitò dal cardinale; Elia Dalla Costa gli sorrise e disse: "Ragazzate". E alla fine diventammo preti». Con don Cuba, con cui fu ordinato sacerdote lo stesso giorno, l'11 luglio 1948, l'amicizia fu immediata e ininterrotta e a Barbiana sarebbe dovuto andare lui, che era parroco a Vicchio, e non 'amico don Milani. Intanto — era il 1952 — don Rossi era diventato cappellano alla Italgas, accolto dall'ostilità degli operai, tutti «rossi» e mangiapreti. Con la sua fedele bicicletta, si presentava ai cancelli ogni settimana e alla fine si fece amici lì come in altre fabbriche, tanto che nel 1958 fu lui che portò al cardinale Dalla Costa l'appello per gli operai della Galileo, scritto da lui ed altri preti operai, appello che il cardinale accettò, finendo sui giornali e le tv di tutto il mondo (e contribuendo al salvataggio della fabbrica).
Dall'incontro con i comunisti, gli atei, don Renzo ricavò la necessità di farsi missionario e chiese ed ottenne di partire, destinazione Brasile (e sulla nave pianse a lungo, lui uomo della battuta e delle risate), sotto la dittatura militare. «Qui fu povero tra i poveri, incontrò i carcerati e i detenuti politici torturati, fu un grande prete perchè era un grande uomo — racconta don Piero Sabatini, oggi parroco dell'isolotto e per anni con lui a Salvador — Tutti lo amavano e c'era una legge non scritta nelle favelas che nessuno lo toccasse, anche se era un "gringos". Stamani ho ripensato a quando in seminario nell'ottobre del 1965 ci presentarono questo pretino dicendo che stava per partire per il Brasile... e venti anni dopo mi sono ritrovato con lui in un'esperienza che mi ha segnato positivamente la vita. E ho pianto per la perdita del mio padre spirituale». È ancora sconvolta anche madre Renata Saura: «Abbiamo camminato tanto insieme in Brasile — dice — Mi chiamava affettuosamente "scema" e la sua è una grande perdita. Aveva un rapporto particolare con tutti, dai giovani ai potenti, una semplicità che conquistava e disarmava. Era un bischeraccio anche lui... e ora è nella gloria del Signore». Tornato, per una malattia al cuore, a Firenze nel 1997 non si era mai fermato, andando in «missione» di nuovo alle Piagge come a Pontassieve, a fare il «tappabuchi» e facendosi amare ovunque. «Conoscere don Renzo era conoscere un prete amico — è il ricordo del vescovo ausiliare Claudio Maniago — di grande gioiosità, semplicità, che ti scaldava il cuore e intanto si rimboccava le maniche... era impossibile tenerlo fermo. Ha sempre avuto obbedienza e rispetto per i suoi vescovi — sorride Maniago — ma in privato dava del bischero anche a me... La sua cordialità e confidenza faceva bene al cardinale come al povero».
«Mi hanno accusato di essere comunista, guerrigliero, di essere troppo operaio e tifoso della Fiorentina — ricordava don Rossi — ho cercato solo di essere me stesso, anche nella mia bischeraggine. E ho ricevuto dagli altri molto più di quello che ho donato». C'è anche un altro Renzo: «Oltre alla sua esuberanza, nascondeva un lato più contemplativo. Spesso si ritirava per giorni interi per meditare, e appuntava i suoi pensieri sui suoi quaderni. Decine e decine, oggi conservati dai familiari», rivela don Sergio Merlini, con lui missionario per 23 anni. Questo era don Renzo, che domani la sua Firenze saluterà. «In Brasile spesso non ci vedevamo a lungo, e come usano fare lì i figli col padre quando lo vedono dopo un po' di tempo, anche io gli chiedevo la benedizione come fosse mio babbo; e lui mi rispondeva burbero e poi ci abbracciavamo — sorride don Piero — E in San Lorenzo gli dirò un'altra volta "A sua bênção pai" e lui mi abbraccerà da lassù».

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La notizia della morte di Don Renzo Rossi è arrivata subito anche a Salvador Bahia e alle persone che don Rossi ha seguito e aiutato durante la loro prigionia politica in Brasile. "Ho fatto più di quarant'anni di vita insieme a lui, - scrive via mail Theodomiro Romeiro dos Santos - buona parte di questi, in situazione anche molto difficile, come quando ero detenuto nel Carcere Politico di Salvador e, più tardi, durante il mio esilio a Parigi. Non mi è mai mancata la sua presenza e il suo prezioso aiuto, sempre in modo generoso e allo stesso tempo, allegro".
"Noi, ex-prigionieri politici - continua la lettera - ci sentiamo orfani di padre, profondamente tristi in questo momento". A scrivere anche l'avvocato Rui Patterson, anche lui un ex-detenuto politico negli anni '70 in Brasile: "E' una enorme perdita per tutti noi, ex-detenuti politici del Brasile, ma anche per la Chiesa, senza paura di esagerare, una perdita per un numero significativo di esseri umani, ai quali don Renzo ha donato compassione, speranza, fede nei valori più elevati della persona umana".

Faccio baldoria, Gesù vuole così
di don Renzo Rossi

Il brano è tratto dalla Lettera di Pasqua dell'8 marzo 1966 contenuta nel libro «Lettere dal Brasile» di don Renzo Rossi, a cura di Matteo Del Perugia, edito dalla Società Editrice Fiorentina
 
Quaggiù, per noi italiani, esiste un'altra povertà; quella di essere totalmente a digiuno di notizie, è un modo anche questo per facilitare il nostro inserimento nel mondo brasiliano. Ogni tanto qualche notizia sul Governo che cade e poi si rialza. I risultati di calcio mi arrivano dopo venti giorni. Solo la grande vittoria della Fiorentina sull'Inter la seppi subito, come la notizia che Modugno ha rivinto il festival di San Remo che mi arrivò immediatamente. D'altra parte almeno una ventina di persone mi hanno scritto annunciandomi la nuova canzone di Modugno e mi fa piacere vedere che tanti amici quando ascoltano Modugno pensano a me. Ma le notizie che ora mi devono soprattutto interessare sono quelle brasiliane, devo amare il Brasile almeno quante l'Italia.
Stamani ho camminato per tre ore a piedi nella mia parrocchia. È stato un incontro bellissimo con tanta povera gente e tanti bambini. In quelle tre ore, pur soffrendo per tanta miseria e per tanto...piscio (letteralmente) che scorreva per le cosiddette strade piene di fango mi sentivo felice.
Ero tra la mia gente che ancora non riesco ad amare totalmente ma che presto avrei amato con tutto il cuore. Naturalmente fare il prete quaggiù non è una cosa facile, ma c'è la grazia di Dio e c'è la vostra amicizia. Continuo a far baldoria, a dire parolacce ed a fare delle belle risate. Sono contento che anche qui mi dicano che riesco a portare dappertutto un po' di gioia, sono un prete bischero ma se Gesù ha voluto che porti po' di gioia, sono felice.
Vi auguro una bellissima Pasqua ed una stupenda primavera, che Cristo Gesù che prima di farsi uomo e poi morire sulla croce pensò bene di crearsi un mondo pieno di sole e di luce, vi riempia della sua gioia. Un saluto a tutti i vostri cari. Vi penso uno per uno, prego per voi e per i vostri bambini e vi abbraccio con tanto affetto. 
 

"D'Aubuisson told me: take care of it"

Alle 18,25 del 24 marzo 1980 un cecchino appostato in un’automobile davanti alla cappella della Divina Provvidenza uccideva l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, mentre celebrava la messa. Ci furono subito pochi dubbi sui mandanti dell’omicidio: troppe volte l’arcivescovo aveva accusato i militari, i paramilitari e gli squadroni della morte di uccidere innocenti e insanguinare il paese. Il Salvador scivolava verso la guerra civile, che durerà fino al 1992 provocando almeno 75mila vittime. Trent’anni dopo il presidente Mauricio Funes ha ricordato la morte di Romero e le responsabilità del governo del tempo. 

Nel 2010 il capitano Álvaro Rafel Saravia – l’unico condannato per l’omicidio di Romero – ha raccontato in un’intervista al giornalista Carlos Dada, pubblicata nel giornale salvadoregno online El Faro, in che modo il maggiore dell’esercito Roberto D’Aubuisson, fondatore dell’Alianza republicana nacionalista (Arena, il partito di estrema destra che ha governato il paese dal 1989 al 2009) e membro della Lega anticomunista mondiale, organizzò l’omicidio dell’arcivescovo di San Salvador.
Saravia è un ex capitano delle forze militari aeronautiche del Salvador e amico di D’Aubuisson, con cui ricorda le “giornate in spiaggia a condividere un bicchiere di rum”. Oggi Saravia vive da fuggitivo e non vede i suoi figli da dieci anni. Su El Faro si legge che ha lavorato come fattorino di una pizzeria, e poi ha riciclato denaro sporco per un trafficante colombiano, infine ha gestito un centro di automobili usate in California.
Nel 2006 aveva ammesso il suo coinvolgimento nella morte di Romero, ma nell’intervista con Dada ha dichiarato di non aver mai ucciso o rapito nessuno. Ha confermato però le accuse del rapporto redatto nel 1993 dalla Comisión de la verdad nei confronti di D’Aubuisson, e ha parlato del coinvolgimento del figlio dell’ex presidente Arturo Armando Molina, accusato di aver assoldato il sicario disposto a sparare.
Ci sono però delle differenze tra la “confessione” di Saravia fatta a Dada e il rapporto della Comisión de la verdad, che lo accusa di essere coinvolto nella pianificazione dell’assassinio di Romero. “D’Aubuisson mi aveva convinto a entrare nel fronte anticomunista, ma io con l’omicidio non c’entro. Quel giorno non avevo nessuna arma con me”, ha detto al giornalista Saravia, che ha ammesso di aver fornito l’auto usata nell’omicidio. Secondo Saravia, è stato D’Aubuisson ad aver organizzato e pianificato l’uccisione dell’arcivescovo di San Salvador fin dall’inizio.
Secondo Saravia, inoltre, l’imprenditore Lemus O’Byrne, ex presidente dell’Asociación nacional de la empresa privada, è stato il “finanziatore” dell’omicidio. O’Byrne ha negato queste accuse.
(internazionale.it)

sabato 23 marzo 2013

Romero, la Voce dei senza Voce

Il 24 marzo 1980 è un lunedì, siamo nel tardo pomeriggio e un arcivescovo sta celebrando messa. Quando eleva il calice della comunione risuona un colpo di fucile, uno solo. Spara un tiratore scelto e colpisce l’arcivescovo alla giugulare. La chiesa è quella dell’ospedale della Divina Provvidenza, siamo a San Salvador, l’Arcivescovo muore pochi minuti dopo ed è Oscar Romero.
Romero temeva la morte e non si sentiva un eroe. Qualche mese prima, nel suo ultimo passaggio a Roma, confida ad un cardinale che sarebbe stato ucciso presto. Ma non chiede un posto in Vaticano, per salvarsi la vita, e torna alla sua diocesi, a San Salvador. E’ uno dei posti peggiori al mondo.
C’è la dittatura, la corruzione, i militari e l'oligarchia. Ci sono gli squadroni della morte.

Così tutte le omelie di Monsignor Romero terminano con i “Fatti della settimana”: un resoconto di omicidi, torture e violenze. Con nomi e cognomi di vittime e persecutori. Il giorno prima, domenica, nella messa in Cattedrale, tira le somme di “una settimana tremendamente tragica”, più della media. Parla delle decine di morti, dei saccheggi e dei soprusi. Poi si appella ai soldati: “Un soldato non è tenuto a obbedire ad un ordine che va contro la legge di Dio”. Probabilmente firma lì la sua condanna a morte.

La Chiesa anglicana, quella luterana e quella vetero-cattolica lo commemorano come martire. La Chiesa cattolica ha aperto la causa di beatificazione e lo chiama Servo di Dio. Trent’anni dopo il presidente del Salvador ha presentato le scuse ufficiali. Perché chi lo ha ucciso “ha agito con la collaborazione, la protezione, o la partecipazione di agenti dello Stato”.
Dicono che Monsignor Romero fosse una persona semplice, gli piaceva guardare i cartoni animati in TV.  Così, domani 24 marzo, Caterpillar si ricorda della forza dei semplici, quelli che guardano i cartoni animati e hanno il coraggio della verità.
  (Massimo Cirri)

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Roma, marzo 1979: dopo lunga attesa, mons. Oscar Arnulfo Romero viene ricevuto dal papa. Del colloquio che si svolse allora ha lasciato una impressionante testimonianza, nel suo bellissimo libro "Piezas para un retrato", la scrittrice María López Vigil, a cui Romero stesso riferì l'esito dell'incontro, "quasi piangendo", l'11 maggio 1979 a Madrid. Il colloquio era cominciato male, per l'insofferenza del papa di fronte alla voluminosa documentazione che l'arcivescovo gli aveva portato sul suo tormentato e insanguinato Paese e, ancor peggio, per la mancanza di compassione mostrata dal pontefice davanti alla foto di uno dei suoi sacerdoti massacrato poco prima dai militari, Octavio Ortiz. Ed era proseguito, secondo María López Vigil, in maniera martellante, su un'unica nota: "Lei, signor arcivescovo, deve sforzarsi di avere una relazione migliore con il governo del suo Paese"; "Un'armonia tra lei e il governo salvadoregno è quanto di più cristiano ci sia in questi momenti di crisi"; "Se lei superasse le proprie divergenze con il governo, potrebbe lavorare cristianamente per la pace". "Tanto insistette il Papa - riferisce l'autrice - che l'arcivescovo decise di smettere di ascoltare e chiese di essere ascoltato. Parlò timidamente, ma deciso: 'Ma, Santo Padre, Cristo nel Vangelo ci dice di non essere venuto a portare la pace, ma la spada'. Il Papa fissò Romero negli occhi: 'Non esageri, signor arcivescovo!'".
Romero sarebbe stato assassinato di lì a un anno, il 24 marzo del 1980. 25 anni dopo, le celebrazioni per l'anniversario del suo martirio sono state accompagnate, e inevitabilmente oscurate, dall'agonia e dalla morte del pontefice, che si è spento proprio nella giornata culminante delle celebrazioni, il 2 aprile, quando a San Salvador si svolgeva, in piazza, una grande messa presieduta dal cardinale honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, oggi indicato tra i papabili più accreditati, con successiva processione e veglia in cattedrale. Il tutto a conclusione di una ricca Settimana teologica in memoria dell'arcivescovo, organizzata dal 28 marzo all'1 aprile dal Centro Monsignor Romero dell'Università Centroamericana dei gesuiti (Uca), durante la quale mons. Samuel Ruiz ha letto la vibrante, appassionata "Lettera aperta al fratello Romero" scritta da mons. Pedro Casaldáliga (già autore del famosissimo componimento poetico "San Romero d'America"). "Avevi ragione tu - scrive il vescovo dal Mato Grosso -, e questo anche vogliamo celebrare, con giubilo pasquale. Sei resuscitato nel tuo popolo, che non permetterà che l'impero e le oligarchie continuino a sottometterlo, né si lascerà condurre dai rivoluzionari pentiti o dagli ecclesiastici spiritualizzati. E resusciti in questo Popolo di milioni di sognatori e sognatrici che crediamo che un altro mondo è possibile e che è possibile un'altra Chiesa. Perché, così come va oggi, fratello Romero, non va né il mondo, né la Chiesa"; perché "quelle rivoluzioni utopiche - belle e sventate come un'adolescenza della Storia - sono state tradite dagli uni, disprezzate olimpicamente dagli altri", e "rimpiante ancora dai molti e le molte che stiamo lì con te, pastore dell''accompagnamento', compagno di pianto e di sangue dei poveri della Terra".

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Signor Presidente (l'americano Carter, NdR),
in questi ultimi giorni è apparsa sulla stampa nazionale una notizia che mi ha vivamente preoccupato. Si dice che il suo governo stia studiando la possibilità di appoggiare ed aiutare economicamente e militarmente la Giunta di Governo.
Dal momento che lei è cristiano ed ha manifestato di voler difendere i diritti umani oso esporle il mio punto di vista pastorale su questa notizia e rivolgerle una petizione concreta. Mi preoccupa fortemente la notizia che il governo degli Stati Uniti stia studiando la maniera per favorire la corsa agli armamenti di El Salvador inviando equipaggiamenti militare e mezzi (addestrare tre battaglioni). Nel caso questa notizia giornalistica corrispondesse a realtà, il contributo del suo Governo invece di favorire una maggior giustizia e pace in El Salvador acuttizzarebbe senza dubbio l'ingiustizia e la repressione contro il popolo organizzato, che da lungo tempo lotta perché vengano rispettati i suoi diritti umani fondamentali.
L'attuale Giunta di Governo, e soprattutto le Forza Armate ed i corpi di sicurezza, disgraziatamente non hanno dimostrato la capacità di risolvere, nella pratica politica, i gravi problemi nazionali. In generale sono ricorsi alla violenza repressiva provocando un numero di morti e di feriti molto maggiore di quello dei regimi militari precedenti, la cui sistematica violazione dei diritti dell'uomo venne denunciata dalla stessa Commissione Interamericana dei Diritti dell' Uomo.
La forza brutale con cui i corpi di sicurezza hanno recentemente allontanato ed assassinato gli occupanti della sede della Democrazia Cristiana, nonostante che la Giunta di Governo ed il Partito non avessero autorizzato l' operazione, evidenzia che la Giunta e la Democrazia Cristiana non governano il paese ma che il potere politico è nelle mani di militare senza scrupoli che sanno solo reprimere il popolo e favorire gli interessi dell'oligarchia salvadoregna .
Se è vero che nel novembre scorso "un gruppo di sei americani distribuì in El Salvador duecentomila dollari in maschere a gas e giubbotti antiproiettile e ne insegnò l' uso durante le manifestazioni", lei se renderà conto che da allora i corpi di sicurezza , dotati di più efficace protezione personale, hanno represso con violenza ancora maggiore la popolazione utilizzando armi mortali.
Perciò, dal momento che, come salvadoregno ed Arcivescovo dell'Arcidiocesi di San Salvador, ho l'obbligo di vegliare perché regnino la fede e la giustizia nel mio Paese, le chiedo, se veramente vuole difendere i diritti dell'uomo di:

  • impedire che venga fornito questo aiuto militare al Governo salvadoregno;
  • garantire che il suo governo non interverrà direttamente o indirettamente con pressioni militare, economiche e diplomatiche, nella determinazione del destino del popolo salvadoregno.
Stiamo vivendo nel nostro paese momenti di gravi crisi economica, ma è indubbio che ogni giorno di più il popolo si organizza e si rende conto di essere responsabile del futuro del El Salvador e l'unico in grado di superare la crisi. Sarebbe ingiusto e deplorevole che per l'intromissione di potenze straniere il popolo salvadoregno venisse frustrato e represso e le venisse impedito di decidere una autonomia di tracciato economico e politico che deve seguire.
Significarebbe violare il diritto che il vescovi latino-americano riuniti a Puebla hanno riconosciuto pubblicamente: "La legittima autodeterminazioni dei nostri popoli permette loro di organizzarsi secondo il proprio carattere e scegliere il cammino della propria storia, cooperando al nuovo ordine internazionale" (Puebla 505).
Spero che i suoi sentimenti religiosi e la sua sensibilità nella difesa dei diritti dell' uomo la muovano ad accettare la mia petizione, evitando ulteriori spargimenti di sangue in questo paese che soffre tanto.


17 Febbraio 1980

Oscar A. Romero, Arcivescovo



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giovedì 21 marzo 2013

Crisi: cosa sta succedendo a Cipro

La parte meridionale di Cipro è la repubblica ufficiale riconosciuta dall’Onu ed è la Cipro greca, parte integrante della Ue e la cui moneta ufficiale è l’euro. Cipro rappresenta appena lo 0,2% del Pil dell’Eurozona, ma ha la particolarità di avere un ipertrofico sistema bancario con depositi che raccolgono risparmi per una cifra superiore a circa 6 volte quella del Pil. La protezione del segreto bancario e la fiscalità bassa per le imprese ne hanno fatto una delle più importanti piazze d’affari del Mediterraneo, nonché una centrale internazionale del riciclaggio di denaro sporco soprattutto russo e britannico. La Gran Bretagna possiede due enclavi sul suo territorio: Akrotiri e Dhekelia, basi militari sovrane. Greci, russi, turchi e inglesi gravitano intorno alla piccola isola del Mediterraneo, ancora più strategica dopo la scoperta di enormi giacimenti di gas naturale.
La crisi per Cipro arriva dopo la ristrutturazione del debito greco. Le banche cipriote erano molto esposte ai titoli e all’economia greca in generale. Come ovvio, sono state martoriate dal crac del paese ellenico. A quel punto si rendono necessari gli aiuti internazionali per sostenerne il sistema finanziario. Nell’estate 2011 arriva il prestito di 2,5 miliardi di euro dalla Russia, uno dei giocatori principali di questa partita. Secondo alcune stime Cipro rappresenta un deposito offshore di circa 20 miliardi di euro per cittadini e società russe. Il prestito di Putin non basta, ad oggi servono altri 10 miliardi per evitare il crac del sistema finanziario cipriota.
Al dicembre 2012 il rapporto debito/Pil cipriota ammontava a circa l’86%. Con una immissione di 10 miliardi di denaro pubblico, sarebbe schizzato al 142%. Insostenibile per una qualsiasi economia. La Bce e l’Eurogruppo propongono allora un bailout vincolato ad alcune rigidissime condizioni. Per bailout si intende la situazione in cui un soggetto vicino alla bancarotta riceve un'iniezione di liquidità, al fine di soddisfare i suoi obblighi a breve termine. Il prestito di 10 miliardi del Fondo Salva Stati potrà essere erogato se e soltanto se i cittadini ciprioti pagheranno immediatamente 5,8 miliardi di euro. A quel punto quei geniacci dei tecnocrati europei avranno pensato: e cosa c'è di meglio di un prelievo forzoso sui conti corrente?
E infatti propongono a Cipro questa pistola puntata alla tempia. Per sbloccare il prestito da 10 miliardi, si devono trovare 5,8 miliardi attraverso un prelievo forzoso del 6,75% sui depositi fino ai 100mila euro e del 9,90% su quelli superiori, si badi bene su tutti i depositi, non solo quelli dei cittadini ciprioti. Questo ha generato il panico e manifestazioni di protesta a Cipro, con i cittadini impossibilitati a recuperare i propri risparmi alle banche e ai bancomat, perché per questo blitz è stato scelto un periodo di festività religiosa in cui gli esercizi pubblici sono chiusi.
Nel frattempo il governo ha disposto il congelamento dei conti per evitare fughe di capitali ed ha imposto alle banche la chiusura fino a giovedì 21. Durissime le reazioni dalla Russia, dove Putin denuncia l’ingiustizia del provvedimento e Medvedev rincara la dose affermando: ”è una decisione controversa e assomiglia a una confisca di fondi stranieri”. Dalla Germania invece il ministro delle finanze Wolgang Schauble nega ogni responsabilità tedesca per l’imposizione del prelievo forzoso sui redditi inferiori ai 100mila euro. Una mezza ammissione in pratica. A suffragare la tesi della “manina tedesca" sulla decisione dell’Eurogruppo ci pensa il settimanale Der Spiegel, che mostra dei dati incontrovertibili. Le banche tedesche sarebbero esposte per 5,9 miliardi nei confronti di Cipro, all’incirca lo stesso ammontare richiesto col prelievo. In caso di default, questi crediti diverrebbero inesigibili. Ecco, spiegato il giochetto. Io ti salvo con 10 miliardi ma tu garantisci il mio credito con i tuoi depositi. Semplice no?
Nel frattempo nello scacchiere si è mossa anche la Gran Bretagna. Per garantire i propri concittadini di stanza nelle enclavi di Akrotiri e Dhekelia, ha inviato il 19 marzo un aereo con un milione di euro in contanti da distribuire ai propri soldati nel caso dovesse essere approvato il prelievo forzoso. Il Tesoro britannico ha inoltre sospeso il pagamento delle pensioni ai cittadini britannici che vivono a Cipro, per evitare gli effetti del prelievo. Nello stesso giorno a sorpresa, il premier cipriota Nicos Anastasiades non è riuscito a convincere la maggior parte dei parlamentari della bontà del piano. Con 39 voti contrari, il parlamento ha bocciato il diktat della Troika con i voti dell’opposizione e del partito più piccolo della maggioranza. Il piano non è stato approvato, perciò ad oggi non ci sarà nessun programma di aiuto.
Questa situazione ha creato il panico nei mercati europei, tra borse in picchiata, spread in rialzo, ma soprattutto ha generato una paura diffusa negli investitori mondiali, una crescente instabilità nell’area euro, ed il terrore che il prelievo forzoso sui depositi possa toccare agli altri paesi europei in sofferenza. Intanto secondo indiscrezioni trapelate su “Il Sole 24 Ore”, Cipro sta guardando “oltre Bruxelles” per la ricerca di ulteriori aiuti. Il ministro delle Finanze cipriota Sarris avrebbe offerto alla Russia una quota della nascente società energetica cipriota e benefici strategici nel settore del gas naturale in cambio di una tassa sui depositi russi nelle banche cipriote.

Francesco Berni, Il Corsaro

mercoledì 20 marzo 2013

PERU: Susana Villarán resta sindaco di Lima

Susana Villarán, la prima donna sindaco di Lima, nonché la prima, nel 2011, a riportare al governo della capitale la sinistra dopo 27 anni di assenza, resterà al suo posto: lo confermano gli ultimi dati, sebbene ancora parziali, diffusi dall’Ufficio nazionale dei processi elettorali (Onpe) sul referendum revocatorio del mandato del primo cittadino celebrato domenica.
Conteggiato il 40% delle schede, il ‘no’ alla destituzione di Villarán, distintasi per aver condotto una lotta frontale contro la corruzione principalmente nel nevralgico settore dei trasporti e contro il commercio informale, è al 48,8%; il ‘sì’, promosso dal suo predecessore, Luis Castañeda, del partito di centro-destra Solidaridad Nacional e dall’ex presidente Alan García, leader del partito Apra, è al 45,8%.
La differenza di voti a favore di Villarán – sono finora 37.835 – è considerata definitiva da media e analisti, secondo i quali si garantisce così la stabilità politica della capitale, motore economico del Perù a cui contribuisce con il 50% del Prodotto interno lordo.
Già ministro della Donna e candidata presidenziale, 63 anni, Villarán è stata sostenuta dal Partito Popolare Cristiano (Ppc), di centro-destra, di Lourdes Flores, anch’ella ex candidata alla massima carica dello Stato, alleatasi con lo schieramento di centro-sinistra Fuerza Social guidato dalla stessa Villarán.

Fonte: Misna

martedì 19 marzo 2013

Il Sudamerica alla conquista del papato

C'è un asse argentino-brasiliano che sorprendentemente è andato al governo nella Chiesa di Roma la sera del 13 marzo. Necessità storiche, provvidenza, contingenze del momento o comunque lo si voglia chiamare, è un fatto che il Papa appena eletto è figlio di quest'alleanza fra i due grande Paesi del cono sud dell'America. Qualche elemento lo ha dato in proposito lo stesso Francesco ieri mattina nel corso dell'incontro con la stampa di tutto il mondo quando ha ricordato i momenti culminanti della sua elezione.
"Nell'elezione - ha detto - io avevo accanto a me l'arcivescovo emerito di San Paolo, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico"."Quando la cosa è diventata un po' 'pericolosa', lui mi ha confortato. E quando i voti sono saliti a due terzi c'è stato il consueto applauso perché è stato eletto il Papa" Allora "lui mi ha abbracciato, mi ha baciato e mi ha detto: 'Non dimenticarti dei poveri!'". Quella parola, ha proseguito Bergoglio, mi è entrata nella testa: "i poveri, i poveri". Il nome stesso, scelto dal Pontefice, oltre al santo di Assisi, ha dunque un'altra ascendenza: Hummes infatti è un francescano, rappresentante di una Chiesa, quella brasiliana, dove l'ordine ha una storia di presenza nelle favelas e nelle regioni più povere del Paese. Hummes del resto ha convogliato su Bergoglio, il primo papa dell'America Latina, molti dei voti del suo Paese de dell'intero continente, un lavoro che ha condiviso con i cardinali americani e tedeschi.
L'ex arcivescovo di San Paolo ha poi rilasciato un'intervista non formale alla "Folha do Sao Paulo", grande quotidiano brasiliano, nella quale ha detto senza mezzi termini: "la chiesa così non funziona". Quindi ha spiegato che sì, Bergoglio è stato eletto anche per cambiare le cose in Vaticano. Fra i cardinali, ha spiegato il porporato, si è parlato anche di questo: "della Curia romana, che deve essere riformato strutturalmente. E' troppo grande, ma bisogna studiare come, non abbiamo molte coordinate". "La Chiesa - ha aggiunto - non funziona più. Tutto quanto è accaduto di recente mostra come questo sia vero". Inoltre una volta fatto questo nuovo disegno per la Curia, è necessario cercare le persone adatte al governo".
Infine Hummes ha rilevato che la teologia della liberazione apparteneva a una certa fase storica e che però ha rafforzato la coscienza della necessità della giustizia sociale in favore dei poveri. Un doppio messaggio, dunque, arriva dalle parole del cardinale che è stato anche prefetto della congregazione del clero qualche anno fa. Da una parte la conferma che il tema del ridimensionamento della centralità romana è stato al centro del dibattito fra i cardinali, dall'altra è stato posto l'accento sui temi di un'evangelizzazione aperta ai temi sociali più caldi. Hummes, in proposito, ha spiegato che tuta la Chiesa ha bisogno "di nuovi metodi" a cominciare dall'evangelizzazione.
Così uno dei leader della più grande chiesa cattolica del continente americano, quella del Brasile, ha abbracciato il papa argentino, il che ha anche un significato politico non irrilevante. Il conflitto fra Bergoglio e la presidenza Kirchner in Argentina, infatti, va avanti da diversi anni. E' cominciato sotto il mandato di Néstor e proseguito con la moglie Cristina che gli è succeduta la quale vedrà Papa Francesco lunedì prossimo. Si è trattato di uno scontro fra personalità forti segnato da una lunga offensiva di Bergoglio sui temi sociali, della prostituzione, del narcotraffico. Le contestazioni sono state respinte dalla coppia presidenziale che ha definito l'arcivescovo di Buenos Aires il "capo dell'opposizione" in anni passati. Poi l'approvazione dei matrimoni omosessuali da parte del Parlamento argentino ha di nuovo rinfocolato la polemica, e ora il Papa e la presidente si troveranno faccia a faccia per cercare di trovare un accordo. Nel frattempo, però, Bergoglio è stato 'adottato' dal Brasile - dove andrà quest'estate per la giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro - e da Hummes che è stato fra gli educatori religiosi e sociali di Ignacio Lula da Silva, l'ex presidente di tradizione sindacale del Paese latinoamericano.
Infine, sul fronte ecclesiale, le organizzazioni ultraconservatrici della Chiesa latinoamericana, che hanno preso piede nei lunghi anni del pontificato wojtyliano, vivono oggi una stagione di attesa e rischiano ora di subire una decisa messa in discussione del loro ruolo e del potere che ancora esercitano in diversi Paesi dell'area.

  Francesco Peloso, articolo apparso anche sul Secolo XIX

sabato 16 marzo 2013

Il Patto delle Catacombe

Il 16 novembre del 1965, tre settimane prima della chiusura del Concilio Vaticano II, una quarantina di vescovi di varia nazionalità, concelebrarono, nelle catacombe di Domitilla a Roma, una Eucaristia, presieduta da Mons. Charles-Marie Himmer, vescovo di Tournai (Belgio). Al termine della celebrazione, i vescovi sottoscrissero un documento che prese il nome di “Patto delle Catacombe”, con cui si impegnavano, in unione con  tutti i fratelli nell’episcopato, a condurre una vita di povertà, rinunciando a tutti i simboli, titoli, privilegi del potere, e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. All’epoca i nomi di quanti sottoscrissero il Patto - o vi aderirono in seguito - non vennero pubblicizzati per evitare ogni tipo di personalizzazione. Oggi sappiamo che almeno la metà erano vescovi latino-americani (otto brasiliani), tra cui Dom Helder Câmara, Dom Antonio Fragoso, Dom José Maria Pires,  Mons. Leonidas Proaño. Altri venivano dall’Africa, dal Vietnam, dall’Indonesia, e da diversi paesi d’Europa. Di italiani, era presente mons. Luigi Bettazzi, allora ausiliare del card. Lercaro. Erano presenti anche Paul Gauthier e Marie Thérèse Lescaze, i due francesi animatori della Fraternità di Jesus Charpentier a Nazareth e del gruppo della Chiesa dei Poveri al Concilio. Il documento, pur privo di ogni ufficialità, ci pare rappresenti comunque (anche alla luce dell'incipit del pontificato di Papa Francesco)  uno dei testi più significativi per intendere lo spirito del Vaticano II, che mirava a rinnovare radicalmente la vita della Chiesa.
 
Ecco il testo:

Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo;
sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione;
in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi;
ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi;
nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:

- Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.
- Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
- Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.
- Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
- Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
- Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
- Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1 Cor 4,12 e 9,1-27.
- Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
- Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.
- Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità –
ci impegniamo: – a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
- a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
- Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: – ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro; – formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo; – cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…; – saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci Dio ad essere fedeli.

Sarajevo 1992 –2012: Vent’anni

La forza dell’amore - La tenerezza dei popoli


Storia di un trauma aperto da una guerra con l’odiosa connotazione etnica, collegata all’identità religiosa. E a Sarajevo: guerra con assedio.
Storici, giornalisti, scrittori, fotografi, registi hanno dato ampio conto della peculiarità e della crudeltà di quella guerra, dei ritardi e delle ipocrisie della Comunità internazionale.
Sarajevo rimane il cuore e il simbolo della realtà bosniaca. Tornare è sempre un’emozione.
Le conseguenze della guerra e il permanere della logica di guerra sono ben visibili. A Sarajevo ancora si ritrovano geograficamente concentrati i problemi irrisolti, la fatica di molti per la sopravvivenza, la mancanza di prospettive per il futuro, la spaccatura tra la realtà della popolazione e la classe politica corrotta; soprattutto una memoria difficile, divisa su quanto avvenuto, dove nessuno può esprimere la propria verità senza offendere altri. I più giovani non vogliono che nemmeno venga ricordata la guerra; per gli adulti rimane anche una memoria ingombrante.
Anche per noi la realtà di quella guerra comporta una memoria divisa e una narrazione molto diversificata.
La pace di Dayton è stata implementata solo sulla cessazione dello scontro armato, non sugli altri punti qualificanti. Di fatto è continuato il processo di radicalizzazione della divisione etnica, disattendendo al ritorno dei profughi alle case di loro proprietà, marcando il territorio con i simboli religiosi e civili. La Bosnia dovrebbe risultare un unico Stato; di fatto si configura con due realtà governative autonome e separate con ordinamenti legislativi e giudiziari diversi. Il sistema di potere è farraginoso invasivo, con una pletora di istituzioni di governo locale con burocrazie clientelari ingessate.
Sarajevo 1992 –2012: vent’anni, Sarajevo per molti di noi non è solo guerra di Bosnia. Proprio a causa della guerra e dentro l’assedio è la città testimone della forza dell’amore e della tenerezza dei popoli.
E’ la storia della resistenza della popolazione per mantenere la convivenza, nella condivisione dell’aiuto reciproco per la sopravvivenza, senza cedere alle logiche etniche. E’ l’opera delle organizzazioni caritative delle diverse entità religiose con tutta la popolazione circostante; il funzionamento degli ospedali pur con le strutture colpite, il quotidiano Oslobodenje che esce regolarmente ogni giorno grazie ai giornalisti accampati di settimana in settimana nel sotterraneo dell’edificio bombardato, l’attività coraggiosa e rischiosa di singole persone per il servizio a tutti.
Sarajevo è il terminal di una mobilitazione senza precedenti della società civile internazionale, di quella italiana in particolare.
Impossibile non far emergere dal cuore la memoria di quel primo viaggio in 500, proprio in questi giorni di dicembre, organizzato attorno alla giornata mondiale dei diritti umani. Don Tonino Bello ne è stato l’interprete più carismatico.
E’ stata l’esperienza che ha aperto storicamente la pratica della nonviolenza a tutti senza particolari competenze, anche nelle situazioni ritenute impossibili e negli spazi proibiti, come il territorio di guerra. Da quel momento, superato il senso di impotenza, è stato un fiorire di iniziative personali e collettive per creare coscienza nella società, per coinvolgere gli enti locali nella pressione politica e nell’accoglienza. Sono state attivate nuove forme di interposizione nonviolenta per fermare la guerra e per stabilire solidarietà diretta a fianco di chi si è trovato costretto per anni in balìa di una condizione crudele non voluta. I volontari a Sarajevo sono rimasti in Città anche nei momenti più rischiosi, quando tutti gli stranieri erano invitati a uscire. Assieme a piccoli servizi essenziali, si è garantito un servizio postale che mantenesse il filo della vita con i familiari e gli amici sparsi nel mondo e che rompesse quell’isolamento e quell’abbandono in cui tutti pensavano di trovarsi.
Si sono sperimentate nuove forme di organizzazione di democrazia diretta con il metodo del consenso fondato sulla fiducia reciproca.
Si è imparato a percorrere tutte le strade, sia materiali delle zone del conflitto armato, che istituzionali della diplomazia popolare stabilendo rapporti con i comandi militari, con il Governo italiano, il Vaticano e con l’ONU di Ginevra.
L’interposizione nonviolenta e la diplomazia popolare diventano strumenti della società civile per portare solidarietà e sostegno alle popolazioni sofferenti dentro al territorio di guerra e per sperimentare nuovi rapporti con le Nazioni Unite e con la Comunità internazionale per fermare la guerra e avviare processi di pace. Questa storia ci ha profondamente cambiato tutti.
Qualcuno di noi ha trovato la direzione e il senso complessivo della vita. Le strade della Bosnia, Sarajevo in special modo, hanno conosciuto, nonostante la guerra, il cammino coraggioso di tanti volontari, l’amore e la tenerezza dei popoli.
Di tutto questo, a vent’anni della cosiddetta Marcia dei 500: “Solidarietà di pace a Sarajevo”, non esiste narrazione storica, né valutazione politica. Esiste solo memoria frammentata delle persone e dei gruppi direttamente coinvolti.
Non torniamo a Sarajevo come “reduci”, né come protagonisti nostalgici. Torniamo perché vogliamo iniziare la narrazione di questa storia.
Bisognerà pur provare con i fatti che la guerra complica, non risolve i conflitti e che solo la pratica della nonviolenza è capace, anche dentro all’inferno dell’assedio, mantenere in vita, dare fiducia all’umanità che è in tutti e aprire la speranza di futuro.
Ancor oggi il mantenimento della logica di guerra blocca la possibilità di democrazia e di futuro in Bosnia.
Stiamo sperimentando una crisi che è più stabile e profonda del previsto. Tutti per la nostra parte siamo in difficoltà.
Anche oggi, come allora, solo la convivenza nell’accoglienza reciproca e nel riconoscimento dei diritti comuni, solo le strade della nonviolenza e della tenerezza dei popoli apriranno prospettive di vita, di pace e possibilità di futuro per tutti.
Per questo siamo convinti sia giusto e doveroso collegare e fare memoria di quanto abbiamo vissuto, perché questo e non la guerra ci fa incontrare con gioia e riconoscenza reciproca e dà ancora fiducia per camminare insieme.

martedì 12 marzo 2013

La sinodalità prima di tutto

I cattolici di base: “Il conclave elegga un papa impegnato a realizzare la sinodalità nella Chiesa”

Associazioni, riviste di ispirazione cristiana, realtà ecclesiali di base, comunità ecclesiali firmano insieme un appello affinché dal Conclave che sta per iniziare esca una nuova idea di Chiesa, oltre che un nuovo papa: il testo chiede infatti che nella Chiesa si riprenda in mano lo strumento che il Concilio Vaticano II aveva individuato come essenziale per affiancare il papa nel governo della Chiesa, ossia il Sinodo dei Vescovi.
Oggi però il Sinodo ha un potere solo consultivo; farlo diventare un reale strumento di partecipazione delle Chiese locali alla vita della Chiesa perché dotato di poteri decisionali, appare ai firmatari una precondizione affinché si possa dare inizio a tutta una serie di riforme, auspicate da larga parte del popolo di Dio ma bloccate da un sistema di potere ecclesiastico che finora è stato verticistico ed autoreferenziale. Inoltre, al Sinodo potrebbero essere attribuiti quei poteri di controllo sul funzionamento della Curia e sullo Ior che renderebbero possibile l'inizio di una trasparente gestione finanziaria dei beni della Chiesa.
Ma l'esigenza di sinodalità nella Chiesa va al di là della istituzione di un vero Sinodo a Roma. Una gestione con metodi sinodali deve estendersi a tutta la vita delle Chiese locali. L'origine greca della parola syn (con, insieme) e odòs (strada, cammino), rende bene l'idea di una ekklesìa, di una comunità in cammino. Il Concilio stesso ha unito questa immagine a quella del popolo di Dio: la Chiesa è un popolo che cammina insieme nella storia, per essere segno del regno di Dio offerto a tutta l’umanità.

Di seguito, il testo dell'appello, con le realtà cristiane che lo hanno sottoscritto.

LA SINODALITÀ PRIMA DI TUTTO

La rinuncia al pontificato di Benedetto XVI determinata dal riconoscimento della propria inadeguatezza ad esercitare il ministero petrino per l’ingovernabilità della curia impone al prossimo conclave di affidare al futuro pontefice il mandato prioritario di un radicale rinnovamento della gestione del governo centrale della Chiesa ispirato al dettato conciliare. Il Concilio infatti con l’istituzione del Sinodo dei vescovi per affiancare l’opera del papa aveva avviato una radicale riforma, subito bloccata prima dall’esitazione di Paolo VI, poi dalla decisa riaffermazione dell’esclusività del primato papale di Giovanni Paolo II.

In tempo di secolarizzazione, solo una piena collegialità ed un esercizio non esclusivo e verticistico del potere può evitare che il papa, attorniato da collaboratori da lui stesso scelti, diventi inadeguato a interpretare i diversi e sempre più accelerati processi sociali e culturali che nei cinque continenti costituiscono i contesti in cui oltre un miliardo di fedeli professano la loro fede e vivono la loro esperienza comunitaria.

Il Sinodo, dopo un radicale rinnovamento della struttura che gli è stata imposta e delle norme che ne regolano il funzionamento, può invece consentire che le diverse sensibilità e le sempre nuove esperienze ecclesiali, diffuse sul territorio, abbiano ascolto e cittadinanza anche nelle scelte pastorali e di governo della Chiesa.

Al tempo stesso il Sinodo si potrà dotare di strumenti di controllo sul funzionamento della Curia e della gestione delle risorse affidate allo Ior ed agli altri organismi che gestiscono le finanze vaticane.

Adista – Appunti alessandrini – Cem Mondialità – Chiccodisenape, Torino – Comunità Cascina Contina, Rosate (Mi) - Comunità Cristiane di Base Italiane – Comunità Cristiana della Piana, Avellino – Comunità di Base delle Piagge, Firenze – Comunità La Collina di Serdiana – Comunità di S. Rocco, Cagliari – Esodo – L'altrapagina, Città di Castello – Gruppo di Controinformazione Ecclesiale, Roma – Il tetto – Le radici e i frutti, Cagliari – Missione Oggi – Noi Siamo Chiesa – Nuova Proposta, Roma – Orientamenti Sociali Sardi – Piccola Comunità Nuovi Orizzonti, Messina – Progetto Gionata – Pretioperai – Qol – Scuola popolare Oscar Romero, Cagliari – Tempi di fraternità – Viottoli, semestrale di formazione comunitaria, Pinerolo (To)

mercoledì 6 marzo 2013

L'onda lunga dell'acqua bene comune


"Grazie ad una deliberazione di iniziativa popolare, la Smat SpA, la società che gestisce l’acquedotto torinese, potrebbe diventare una società speciale consortile. Il documento è stato approvato questo pomeriggio dal Consiglio comunale. A favore hanno votato 20 consiglieri, 1 contrario, 16 astenuti" spiega un comunicato stampa del Comune di Torino, diffuso dopo che -lo scorso 4 marzo- era stata votata la delibera promossa dal Comitato acqua pubblica Torino (ne avevamo dato conto qui).
L'onda lunga del referendum tocca anche la città delle Mole, e punta a mettere "paletti" alle possibili scelte di un ente locale fortemente indebitato, che ha già dimostrato l'interesse a svendere le proprie partecipazioni azionarie per far cassa. 
 
Smat spa, una società per azioni controllata al 100 per cento dagli enti locali, potrebbe diventare la più grande utility italiana a trasformarsi in soggetto di diritto pubblico: "Lunedì 4 marzo un incerto consiglio comunale di Torino è stato costretto ad approvare la delibera di iniziativa popolare sotto la spinta democratica dei cittadini -ha spiegato il Comitato, in un comunicato-. Emendamenti dell’ultimo minuto hanno comunque introdotto due elementi che giudichiamo negativamente. Il PD ha voluto cancellare gran parte della cosiddetta 'narrativa' che esprimeva le motivazioni che avevano portato alla proposta. La maggioranza di centro sinistra del Consiglio Comunale non ha avuto il coraggio di condividere il senso critico di larga parte della cittadinanza. Nel dispositivo si sono introdotti ulteriori passaggi di valutazione e analisi per l’effettiva applicazione della delibera, che -ricordiamo- viene discussa a distanza di sei mesi dalla sua presentazione".
Alle critiche del Comitato fanno da contraltare le dichiarazioni del sindaco della cittò, Pietro Fassino, che spiega quali siano le due condizioni che l'ente intende verificare, in un tempo di tre mesi, prima di procedere alla "trasformazione di Smat in società consortile". "In primo luogo -ha spiegato Fassino-, qualunque sia la forma societaria, bisogna garantire alla società che gestisce l’acqua adeguati flussi finanziari per investimenti, altrimenti nel tempo il servizio deperirebbe e il costo per i cittadini salirebbe. In secondo luogo, bisogna poi essere consapevoli che Smat ha già fatto cospicui investimenti finanziati da credito bancario: è necessario che la società sia in grado di onorare quegli impegni, che altrimenti ricadrebbero su tutti i 230 Comuni. E i piccoli Comuni non potrebbero sostenerli".
 
A Torino, e in tutto l'Ambito territoriale ottimale numero 3 del Piemonte, potrebbe partire un processo simile a quello che hanno avviato i sindaci della provincia di Reggio Emilia, dopo aver votato una mozione d'indirizzo volta alla ri-pubblicizzazione all'interno dell'Agenzia territoriale per i servizi idrico e rifiuti (ne abbiamo parlato su Altreconomia di febbraio 2013).
L'esempio reggiano potrebbe trovare presto una eco emiliana anche a Piacenza, dove il prossimo 14 marzo l'assemblea dei 48 sindaci della provincia sarà chiamata a decidere sul futuro affidamento della gestione dell'acqua (nel dicembre 2011 è scaduta la concessione a Iren).
"Si tratta di una scelta storica -spiega in un comunicato il comitato Abc Piacenza- tra due alternative agli antipodi, che condizionerà la gestione dell'acqua per i prossimi 30 anni". 
"Abbiamo chiesto di poter intervenire ad inizio assemblea per illustrare ai sindaci le nostre proposte -continua il comitato-, ma questa possibilità ci è stata negata. Continuiamo ad attendere il percorso partecipativo annunciato dal Sindaco Dosi appena prima di capodanno. Speriamo che venga avviato presto, e magari allargato all'ambito provinciale.
Le due alternative tra cui scegliere: 
1) affidare direttamente , 'in house', la gestione dell'acqua a un ente completamente pubblico, in ossequio alla volontà popolare espressa dal risultato referendario del giugno 2011. 
2) una gara europea per la scelta del gestore privato o del socio privato con il quale gestire il servizio, in spregio alla volontà popolare.
L'ipotesi della gara, non certamente priva di incognite e alti costi, tradirebbe palesemente l'esito referendario.
La gara potrebbe essere vinta da qualche multiutility privata straniera, e anche qualora venisse vinta da Iren il quadro a cui si andrebbe incontro è quello di una privatizzazione sempre maggiore del servizio idrico integrato, in spregio al risultato referendario.
Iren infatti nel suo ultimo piano industriale, oltre a prevedere di continuare nel taglio degli investimenti previsti, prospetta chiaramente la privatizzazione totale del servizio, affermando che l'impegno della società si concentrerà nel consolidamento della partnership con F2i", il fondo d'investimenti guidato da Vito Gamberale

Intanto, come anticipato da Altreconomia a febbraio, il Coordinamento romano acqua pubblica avvia il dibattito nella Capitale intorno allo studio di fattibilità economica per la ripubblicizzazione di Acea Ato2 Spa,  redatto avvalendosi di consulenti professionisti. "Su questa base il Coordinamento romano acqua pubblica ha articolato una proposta che intende condividere con tutte le realtà interessate -spiega il Crap in un comunicato-: a partire dai lavoratori del settore, passando per i cittadini dei comuni dell'Ato2, arrivando fino al consiglio comunale di Roma, principale azionista di Acea. Con la consapevolezza che questo possa essere un primo passo verso la ripubblicizzazione di tutti i servizi pubblici, sempre più aggrediti da speculazioni e privatizzazioni". L'appuntamento per un primo momento di confronto pubblico sui temi sarà venerdì 22 marzo alle ore 18.00 presso il Cinema America Occupato (Via Natale del Grande 6- Zona Trastevere). Mercoledì 6 marzo, invece, alle ore 17.30 presso il Rialto S.Ambrogio (Via S.Ambrogio, 4) il Coordinamento romano acqua pubblica organizza un incontro di autoformazione sulla proposta di ripubblicizzazione di AceaAto2.

Luca Martinelli, Altreconomia

Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo


L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia. È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.