giovedì 31 gennaio 2013

Quel piano Beveridge che pare scritto oggi

Esattamente settant'anni fa prendeva avvio il "Piano Beveridge", il progetto di protezione sociale elaborato dal rettore dell'Univeristy College di Oxford, sir William Beveridge, che è alla base dei moderni sistemi di welfare. Ecco perchè le sue idee sono ancora attualissime.

 di Lucio Villari, da Repubblica, 28 Gennaio 2013


C’era una precisa intenzione politica nel fatto che tra le armi e l’equipaggiamento dell’Ottava Armata di Sua Maestà britannica e della Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate 1943, i reciproci uffici di informazione e di propaganda aggiungessero testi letterari e opuscoli politici. Gli americani preferivano regalare recenti romanzi e racconti in italiano e in formato rettangolare, gli inglesi diffondevano tra gli stupiti italiani, insieme ad un impeccabile The Remaking of Italy del 1942, testi più impegnativi.
Tra questi, un opuscolo edito dalla “Stamperia Reale” con la data 1943, dal titolo Il Piano Beveridge. In autunno l’Ottava Armata, risalendo la penisola e volendo aiutare gli italiani ad aprire gli occhi sul mondo, diffonderà anche Il Mese (edito dalla londinese “The Fleet Steet Press”), un compendio della stampa internazionale che sarà una efficace arma giornalistica di documentazione democratica.

Il Piano Beveridge aveva questo sobrio sottotitolo “La relazione di Sir William Beveridge al Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”: 116 pagine, in perfetto italiano, che riportavano 272 paragrafi, i più essenziali, dei 461 che componevano il Piano. Pochi grammi di dinamite culturale che avrebbero coinvolto e convinto gli italiani più consapevoli sui fondamenti della giustizia sociale, sulla solidarietà tra le classi, sulla tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei ceti più deboli, sui doveri dello Stato e dei poteri economici per assicurare e garantire libertà e democrazia. Mentre imperversava una guerra dall’esito incerto, l’opuscolo, scritto senza verbosità propagandistica e senza voler suggerire alcuna ipotesi di rivoluzione socialista, era una minuzioso catalogo di progetti, di programmi, di dati tecnici. Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore della protezione sociale e della libertà dal bisogno in un sistema di democrazia, vera, attiva.

Il Piano Beveridge era un piano pragmatico e funzionale diretto non ai settori guida dell’economia, industria, agricoltura, terziario, mondo finanziario, come accadeva negli Stati Uniti del New Deal, ma a quello della immediata, quotidiana esistenza delle persone. Il governo, presieduto da Winston Churchill, lo aveva annunciato alla Camera di Comuni il 27 gennaio 1942 come iniziativa di una “Commissione interministeriale per le assicurazioni sociali e servizi assistenziali” costituita nel giugno 1941 e alla cui guida era stato chiamato un economista liberale di sessantadue anni, rettore dell’University College di Oxford, Sir William Beveridge. Si faccia attenzione a questa ultima data: era l’inizio dell’operazione Barbarossa tedesca contro la Russia.
L’opinione pubblica inglese, anche la più moderata e liberale, aveva compreso che con l’estendersi in Europa della potenza tedesca, con i continui bombardamenti di Londra e i successi dell’Asse in Africa, la guerra aveva preso una piega pericolosa. Ma ottimismo e volontà di resistenza parvero prevalere in quei giorni. E non mancavano lampi di umorismo british come quelli del disegnatore satirico del Daily Express, Osbert Lancaster che pubblicò con la didascalia “June 1941” un disegno che ho rivisto con molto divertimento: un aristocratico e un ricco borghese si salutano, quasi sorpresi essi stessi, con il pugno chiuso. In questo clima fu elaborato il Piano che Beveridge consegnò a Churchill il 20 novembre 1942. Ai primi giorni di gennaio del 1943 il progetto di “protezione sociale e di politica sociale”, il Welfare State nel senso più razionale e umano del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’esecuzione.

Sono trascorsi esattamente settant’anni, ma l’idea che ha guidato Beveridge e i suoi collaboratori e esperti resta intatta ed attuale. Il piano implicava tre premesse: “sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e di riabilitazione, mantenimento degli impieghi”. Cioè una riforma politica totale della società. Delle tre premesse è superfluo ricordare l’importanza che ebbe il servizio sanitario nazionale (da esso dipende anche il nostro in vigore). Ma è importante anche la conclusione di Beveridge: “L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”.
Una premessa ideale al secondo Piano Beveridge consegnato il 18 maggio 1944: Full Employment in a Free Society. E’ questa la più vasta indagine che sia mai stata elaborata (oltre 600 pagine) sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno della pace, della piena occupazione in industria, agricoltura e terziario. Un sogno costruito su una diagnosi profonda e perfetta, oltre alcune formule keynesiane, sia del funzionamento dello Stato e delle sue strutture sia dell’efficienza del sistema produttivo capitalistico privato. “La piena occupazione produttiva in una società libera — scriveva nell’introduzione Beveridge — è possibile, ma non la si può realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria”.

“L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”
- Sir William Beveridg

martedì 29 gennaio 2013

Le parole escluse dalle agende



Nella nuova legislatura il vero tema sarà quello di una riforma del regime della proprietà pubblica, non la ridicola giaculatoria delle “dismissioni” di beni pubblici come bacchetta magica per risolvere i problemi del debito. Questa è una vera riforma istituzionale della quale abbiamo bisogno.
di Stefano Rodotà, la Repubblica, 28 gennaio 2013

Bisogna essere capaci di guardare oltre le nebbie delle varie “agende” politiche in circolazione; oltre il continuo degradarsi dei partiti in raggruppamenti personali; oltre quello che giustamente Massimo Giannini ha chiamato il “dissennato referendum sull’Imu”; oltre i vorticosi tour televisivi dei candidati. Bisogna farlo, perché all’indomani delle elezioni ci troveremo di fronte a una folla di problemi oggi ignorati, e che sarà vano pensar di cancellare tirando fuori di tasca un fazzoletto da strofinare su qualche poltrona. E soprattutto perché siamo immersi in mutamenti strutturali che esigono quella forte cultura politica e istituzionale finora mancata.

Le parole, per cominciare. Negli ultimi mesi sono stati in gran voga i riferimenti all’“equità”, presentata come la via regia per riequilibrare le durezze imposte da una attenzione rivolta unicamente all’economia, anzi a un mercato “naturalizzato”, portatore di regole presentate come inviolabili. Ma equità è termine ambiguo, che occulta o vuol rendere impronunciabili proprio le parole che indicano quali siano i principi oggi davvero ineludibili – eguaglianza e dignità. I nostri, infatti, sono i tempi delle diseguaglianze drammatiche e crescenti, che tra l’altro, come è stato più volte sottolineato, sono pure fonte di inefficienza economica. E la dignità ci parla di una persona che esige integrale rispetto, che non può essere abbandonata al turbinio delle merci.

Confrontata con queste altre parole, l’equità finisce con l’apparire meno esigente, accomodante, richiama quel “versare una goccia d’olio sociale” che nell’Ottocento veniva indicato come lo stratagemma per rendere accettabili scelte unilaterali e impopolari. In un contesto così costruito, l’eguaglianza deve farsi “ragionevole”, diviene negoziabile, e la dignità può essere sospesa, evocata solo in casi estremi. Queste non sono speculazioni astratte. Se si dà un’occhiata alla più blasonata tra le agende, quella che porta il nome del presidente del Consiglio, ci si imbatte nel riferimento a “un reddito di sostentamento minimo”, formula anch’essa portatrice di grande ambiguità. Essa, infatti, può riferirsi ad una sorta di reddito di “sopravvivenza”, a un grado zero dell’esistere che considera la persona solo nella dimensione del biologico, tant’è che viene agganciata all’esperienza non proprio felice della social card, dunque alla condizione di povertà. Nessuno, di certo, può trascurare l’importanza di misure contro la povertà in tempi in cui questa aggredisce fasce sempre più larghe della popolazione. Ma, considerata in sé, questa è una strategia che non corrisponde alle indicazioni costituzionali e che elude il tema dell’integrale rispetto della persona in un mondo segnato da mutamenti strutturali profondi.

L’articolo 36 della Costituzione, infatti, parla di “un’esistenza libera e dignitosa” da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia. E l’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non si riferisce soltanto alla povertà, ma pure all’esclusione sociale, e afferma anch’esso il dovere di “garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. Se la politica vuole ritrovare la sua nobiltà, e farsi pienamente politica “costituzionale”, deve seguire il cammino così nitidamente indicato, che ha come obiettivo il reddito di cittadinanza. Ripartire dal lavoro, come giustamente si torna a dire, significa proprio questo, sì che appare sorprendente il modo in cui è stata liquidata da quasi tutti i partiti e i sindacati la suggestione appena venuta da Jean-Claude Juncker che, pur parlando di salario minimo garantito, sostanzialmente si riferiva proprio alla prospettiva appena indicata. Possibile che non ci si renda conto del fatto che lo storico sistema degli ammortizzatori sociali, comunque bisognoso di revisione, nasce in un tempo in cui ad essi veniva affidato il compito di governare situazioni ritenute transitorie, mentre ora il rapporto reddito-lavoro-vita deve fronteggiare una situazione strutturalmente mutata? Possibile che non si avverta come il potere contrattuale del sindacato non sia intaccato dalla previsione ad ampio raggio di un reddito che rende la persona più libera, sottratta ai ricatti legati al bisogno?

La prospettiva non è quella del tutto e subito, ma bisogna avere chiara la direzione verso la quale si va. Proprio partendo dalla condizione materiale delle persone, oggi dovremmo avere consapevolezza piena che l’esclusione rende fragile la coesione sociale e mette sempre più a rischio la democrazia, mostrando una volta di più la lungimiranza dei costituenti che, nell’articolo 1, vollero la Repubblica democratica fondata sul lavoro. Siamo dunque di fronte ad una situazione che chiama in causa la cittadinanza e il modo in cui questa si costituisce. Sono proprio i diritti di cittadinanza l’asse intorno al quale, nei luoghi più diversi, si discute, non solo per affrontare il tema dei migranti nel mondo globale. La cittadinanza oggi significa un fascio di diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, in primo luogo la salute e l’istruzione, il lavoro e l’abitazione. Diritti ai quali bisogna guardare in una logica egualitaria, per evitare il ritorno della cittadinanza censitaria, respingendo le tentazioni di privatizzazioni dirette o indirette. Diritti che rinviano ai beni necessari per la loro attuazione, dall’acqua alla conoscenza, e che per questo sono detti “comuni”.

Di beni comuni si parla con tratti fortemente retorici nella campagna elettorale, mentre nella realtà d’ogni giorno si opera nella direzione opposta. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha approvato un nuovo metodo tariffario per l’acqua che viola l’esito del secondo referendum sull’acqua, reintroducendo sotto mentite spoglie quella remunerazione del 7% del capitale che il referendum aveva cancellato. Solo i Comuni di Napoli e Reggio Emilia hanno adottato l’indicazione referendaria riguardante la gestione pubblica del servizio idrico, mentre il sindaco grillino di Parma ha annunciato di voler vendere le quote di proprietà pubblica dei servizi locali. Nella nuova legislatura, dunque, il vero tema sarà quello di una riforma del regime della proprietà pubblica, non la ridicola giaculatoria delle “dismissioni” di beni pubblici come bacchetta magica per risolvere i problemi del debito.

Questa è una vera riforma istituzionale. E sempre la vicenda dei referendum sull’acqua, che hanno visto la più larga partecipazione dei cittadini con i 27 milioni di sì, indica la via di una riforma costituzionale che non ripercorra le vie ambigue della “governabilità”, ignorando il tema degli equilibri democratici. Se si vuole recuperare concretamente la fiducia dei cittadini, si devono quasi reinventare le istituzioni della partecipazione, a cominciare dal referendum e dall’iniziativa legislativa popolare, nella prospettiva di un ripensamento della rappresentanza. Se non si vogliono ancor più ridurre i diritti sociali, è indispensabile introdurre correttivi alla brutale subordinazione alle compatibilità economiche perseguita con le ultime modifiche alla Costituzione. Negli anni passati, il sistema politicoistituzionale è stato sconvolto in mille modi, a cominciare dalle manipolazioni della legge elettorale, e ha portato a una drammatica riduzione della tutela dei diritti. Questo è il mutamento strutturale che dovrà essere affrontato, e si dovrà cominciare proprio dalla ricostruzione dell’insieme degli equilibri e delle garanzie democratiche.
 

lunedì 28 gennaio 2013

Un intenso anno elettorale per l’America latina

di Annalisa Melandri 
Il 2013 appena iniziato si profila un anno denso di appuntamenti elettorali per l’America latina. Si chiude invece il 2012, almeno per i venezuelani, con molta apprensione per le condizioni di salute del presidente Hugo Chávez Frias, che l’11 dicembre scorso è stato sottoposto a Cuba ad un nuovo intervento chirurgico (il quarto in un anno e mezzo) per rimuovere una lesione cancerosa al colon.
Il decorso post’operatorio di quest’ultimo intervento appare notevolmente più complicato dei precedenti per una serie di gravi complicazioni, tanto da far circolare in queste ore alcune agenzie rispetto ad un suo probabile ‘coma indotto’. Non è stato tuttavia sufficiente l’intervista rilasciata il 1 gennaio scorso da l’Avana del vicepresidente Nicolás Maduro appena dopo il suo incontro con Chávez, nella quale afferma di averlo visto con una “forza gigantesca” a tranquillizzare i venezuelani simpatizzanti del presidente.
Sicuramente della gravità della sua situazione è al corrente lo stesso Chávez, tanto da fargli dichiarare in una conferenza stampa tenuta qualche settimana prima dell’intervento, che se fosse stato necessario, nel caso si “fosse presentata qualche circostanza” che lo avesse inabilitato a continuare a governare, i venezuelani avrebbero dovuto scegliere come nuovo presidente (quindi in uno scenario di nuove elezioni) proprio Nicolàs Maduro.
Il 10 gennaio prossimo, anche se appare poco probabile, Chávez dovrebbe essere a Caracas per assumere formalmente il nuovo mandato dopo le recentissime elezioni del 7 ottobre scorso. Se ci fosse la necessità di indire nuove elezioni, il vicepresidente Maduro dovrebbe assumere la presidenza pro tempore. A questo punto si riaprirebbero i giochi elettorali in Venezuela che potrebbero riservare al chavismo, se non affronterà la situazione con la coesione e la maturità necessaria, molte sorprese. L’opposizione ricandiderebbe infatti sicuramente Henrique Capriles Radonski, probabilmente il migliore e il più onesto di tutti quelli che hanno tentato di incrinare il consolidato potere di Hugo Chávez.
In un clima sicuramente più sereno sarà l’Ecuador invece il primo dei paesi dell’America latina a presentarsi all’appuntamento elettorale, previsto per il prossimo 17 febbraio. Proprio oggi inizierà la campagna elettorale ed il presidente Rafael Correa ha già ottenuto autorizzazione dall’Assemblea Nazionale per poter cedere momentaneamente i poteri al vicepresidente Lenín Moreno e dedicarsi ad essa con il suo partito Alianza País.
L’ultimo sondaggio della società Perfiles de Opinión, concluso il 21 dicembre scorso, lo vede vincitore al primo turno con il 60,6 % delle intenzioni di voto, seguito dall’ex banchiere ed imprenditore Guillermo Lasso (11,2%) candidato del movimento di destra Creando Oportunidades (CREO). Correa deve inoltre affrontare gli sfidanti di sempre e cioè Lucio Gutierrez(4,5%), ex militare ed ex presidente (2003–2005) destituito da una ribellione popolare che si presenta con il centrista Partido Sociedad Patriotíca, e l’imprenditore bananiero Alvaro Noboa (1,8%), l’uomo più ricco del paese che per la quinta volta si candida alla presidenza, adesso con il neoliberista Partido Renovador Institucional Acción Nacional (PRINA).
Sono quattro gli altri candidati minori tra i quali Alberto Acosta (3,5%), rappresentante della sinistra alternativa a quella ufficialista, della quale almeno fino a poco tempo fa è stato parte integrante, essendo uno dei principali ideologi della Revolución Ciudadana, il progetto politico per il paese portato avanti da Rafael Correa.
Correa, al suo secondo mandato e governa fin dal 2006 si troverebbe così alla sua terza rielezione, ma ha dalla sua la realizzazione di molti degli obiettivi di governo soprattutto in tema di salute, sovranità popolare e riduzione della povertà. Non è stato esente da critiche soprattutto per i rapporti con i potenti mezzi di comunicazione privati del paese, ma anche da parte di alcuni settori intransigenti di sinistra e di associazioni indigene.
Il Paraguay esce invece da un anno politico abbastanza turbolento, in gran parte dovuto alle conseguenze internazionali a seguito del colpo di Stato parlamentare con il quale il Congresso, il 22 giugno scorso ha deposto nel giro di 24 ore, il presidente Fernando Lugo prendendo come scusa per il suo impeachment gravi incidenti avvenuti un mese prima tra tra polizia e contadini. Assunse il mandato in quell’occasione l’allora vicepresidente Federico Franco.
Da quel momento il Paraguay venne espulso dagli organismi economici e politici regionali quali l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) e il Mercato Comune del Sud (MERCOSUR), sospensione confermata almeno fino alla presa in carico del prossimo presidente. Le elezioni si terranno il 21 aprile prossimo e verranno eletti il presidente e il vicepresidente, membri del Congresso e governatori. Probabilmente tra tutte le elezioni del 2013 in America latina, queste in Paraguay saranno le più osservate visti gli avvenimenti di quest’anno e il malessere serpeggiante tra la popolazione.
In Paraguay fino alle ultime elezioni del 2008, vinte da Fernando Lugo alla testa di un’ampia ed eterogenea coalizione di vari partiti tra i quali il Partido Liberal Radical Auténtico (PLRA), la seconda forza politica del paese, aveva dominato egemonicamente per oltre 61 anni (anche durante i 35 anni della dittatura di Alfredo Stroessner) la Asociación Nacional RepublicanaPartido Colorado, di destra.
In queste prossime elezioni tutto lascia immaginare che il conservatore Partido Colorado tornerà al potere, il suo candidato infatti, l’imprenditore Horacio Cartes ha il 22,3% delle intenzioni di voto, seguito dal candidato del Partido Liberal Efraín Alegre con il 18,5%. Le forze di sinistra che si presentano divise, soltanto unendosi, potrebbero riuscire a diventare la terza forza politica del paese. L’ex presidente Lugo invece si è candidato come senatore con il Frente Guasú (una delle due coalizioni progressiste). Ancora poco chiari i programmi dei candidati presidenziali, per ora predomina la volontà soprattutto da parte di Horacio Cartes, sul quale pesano tra l’altro pesanti accuse di vincoli con il narcotraffico, da lui sempre smentite, di “riportare al potere il partido Colorado” ma la prossima sfida sarà, indipendentemente dal vincitore, quella di riuscire a riacquistare fiducia e credibilità con i partner regionali dopo la crisi politica del giugno scorso.
Il 10 novembre l’Honduras torna al voto dopo le discusse elezioni del novembre 2009 seguite al colpo di Stato di qualche mese prima, organizzato dal Congresso e dalla Corte Suprema di Giustizia e messo in atto dall’esercito, con il quale il presidente Manuel Zelaya fu espulso dal paese.
L’attuale presidente Porfirio Lobo, del Partido Nacional, di destra, si è trovato in questi anni a governare in mezzo ad una profonda crisi politica e sociale, seguita al colpo di Stato, del quale il paese sta ancora subendo le conseguenze. L’impunità ha caratterizzato l’atteggiamento del governo rispetto alle violazioni dei diritti umani commesse sia nei giorni del golpe che successivamente. Inoltre l’aumento vertiginoso del narcotraffico ha reso l’Honduras uno dei paesi più violenti in Amarica latina e Tegucigalpa, la sua capitale, una delle città più violente al mondo, con indici di omicidi per abitante anche superiori alla già tristemente nota Ciudad Juárez in Messico.
Il Partido Nacional si presenta con il candidato Juan Hernández, l’attuale presidente del Congresso, il Partido Liberal, l’altro attore dell’ormai secolare bipartitismo honduregno corre con l’avvocato Mauricio Villeda e la sinistra dopo il golpe è riuscita a riorganizzarsi intorno a Xiomara Castro, moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya, nel Partido Libre.
E’ ancora troppo presto per parlare di intenzioni di voto e di programmi elettorali, le forze politiche hanno a che fare con un clima interno attuale tutt’altro che sereno, con dispute anche con altri settori del potere, come la magistratura, pesano forti dubbi di infiltrazioni del narcotraffico sulla futura campagna elettorale e la sinistra ha il duro compito di incrinare il modello bipartitista sempre dominante nel paese.
Le elezioni presidenziali in Cile avranno luogo il 17 novembre. Due sono le novità per questo paese: per la prima volta il voto non sarà obbligatorio e i candidati verranno decisi da elezioni primarie da tenersi entro giugno. Sebastián Piñera, dopo quattro anni di governo (2009–2013) della Coaliciòn por el Cambio, una coalizione di partiti di destra con la quale nel 2009, per la prima volta dopo due decenni risultarono sconfitte le forze di centro sinistra riunite nella Concertacion de Partidos por la Democracia (con il candidato Eduardo Frei Ruiz — Tagle), lascia un paese che ha raggiunto importanti tassi di crescita economica anche molto superiori rispetto al resto dei paesi della regione. Il suo governo tuttavia sta registrando indici di gradimento molto bassi (a settembre era del 32%), soprattutto durante le proteste studentesche, represse duramente, che si sono susseguite tra il 2011 e il 2012.
I precandidati per la Coalición por el Cambio sono l’ingegnere Laurence Golborne, ex ministro delle Miniere ed attualmente Ministro dei Lavori Pubblici e Andrés Allamand, ex ministro della Difesa e fondatore del partito conservatore Renovación Nacional come candidato del quale si presenta alle elezioni nella Coalición por el Cambio.
A sinistra si ipotizza un possibile ritorno al governo di Michelle Bachelet, la quale sebbene non abbia confermato pubblicamente la sua candidatura appare come favorita già al primo turno nelle intenzioni di voto, con il 54%. Tutto lascia presagire quindi che con la Bachelet, che attualmente ricopre la carica di Direttore Esecutivo di UN Women (l’agenzia dell’ONU per le questioni di genere), la coalizione di sinistra della Concertación possa tornare al potere, il che confermerebbe anche la tendenza nella regione al ritorno dei vecchi gruppi di potere al governo.
Sarà comunque un anno di continuità nel quale l’ormai avviato processo di integrazione regionale impostato da Néstor Kirchner in Argentina e da Hugo Chávez in Venezuela si dimostra irreversibile anche per le relazioni economiche e politiche tra quei paesi diversi per ideologia dominante, come per esempio Colombia e Venezuela, notevolmente migliorate.
Vale la pena inoltre segnalare l’importante presenza femminile in questo panorama politico; se ipoteticamente dovessero raggiungere la presidenza Michelle Bachelet in Cile e Xiomara Castro in Honduras, insieme a Dilma Rousself attuale presidente del Brasile, Cristina Fernández presidente dell’Argentina e Laura Chinchilla Miranda presidente del Costa Rica darebbero all’ America latina una notevole impronta ‘rosa’ e oltremodo progressista.
Annalisa Melandri

venerdì 25 gennaio 2013

Quel silenzio dei sindaci

LoSpiffero, Mercoledì 23 Gennaio 2013

Completamente disatteso il protocollo d'intesa sull'inceneritore del Gerbido, ma dai comuni limitrofi nessuno alza la voce. Ai cittadini non rimane che un senso di frustrazione e di rabbia di fronte al comportamento arrogante e irresponsabile delle amministrazioni

Il 30 aprile prossimo verrà avviato il famigerato inceneritore del Gerbido. Ad oggi, fatta eccezione per i comitati spontanei dei cittadini e qualche lodevole consigliere di opposizione, nessuna voce si è levata all’interno delle giunte comunali dei comuni limitrofi, né tanto meno dai sindaci per sottolineare l’inganno di un protocollo d’intesa stipulato e totalmente disatteso. Non è stata rispettata l’intesa per cui il trasporto dei rifiuti sarebbe avvenuto con la ferrovia e non con i ben oltre 140 camion giornalieri che andranno ad intasare ed inquinare le strade, non è stata rispettata la dismissione e il riallocamento della Servizi Industriali, non il mantenimento della maggioranza azionaria da parte del Comune di Torino e la non cessione ai privati dell'inceneritore, non la possibilità di un controllo della qualità dell'aria da parte di organismi che fossero indipendenti dal controllato, non quella di opere di compensazione veramente rivolte alla tutela della salute dei cittadini, come per esempio la creazione di ambulatori indipendenti in grado di controllare costantemente la salute degli abitanti.
Altri sindaci, veramente attenti alla salute dei cittadini e al rispetto degli accordi, di fronte a questa chiara presa in giro che mortifica non solo la loro dignità, ma ancora di più la tutela dei loro amministrati, non avrebbero desistito dal consegnare le fasce e stracciare le tessere di partito. Ma evidentemente questi sono comportamenti virtuosi che non appartengono a quelli che siedono sugli scranni dei comuni coinvolti in questa tragica farsa dell’inceneritore di Torino. Ai cittadini non rimane che un senso di frustrazione e di rabbia di fronte all’ennesimo arrogante e irresponsabile comportamento delle amministrazioni che, nei casi migliori, non sono andate al di là di blande affermazioni di facciata e patetici tentativi di sminuire la gravità degli impatti ambientali e dei danni alla salute che questa infame scelta comporterà negli anni a venire. Oltre il danno la beffa, ma come l’Eternit insegna, dopo il danno e la beffa viene anche il momento di pagare i conti.

mercoledì 23 gennaio 2013

A rischio fulmine i jet F-35 che compra l'Italia

** Il Pentagono: "Volate lontano dai temporali"**

Da mesi sono oggetto di discussioni e la campagna elettorale ha rilanciato la questione: è il caso che lo Stato acquisti i nuovi cacciabombardieri F-35 quando non ha i soldi per pagare la cassa integrazione? Il quesito, caro soprattutto ai partiti del centrosinistra, ma non in esclusiva, è stato ribadito stamattina da Antonio Di Pietro alla luce di un clamoroso rapporto del Pentagono, secondo il quale i nuovi aerei potrebbero saltare in aria se colpiti da un fulmine.
"E' gravissimo - dice Di Pietro - che si sperperino soldi pubblici per acquistare i cacciabombardieri F-35 e i sommergibili mentre le famiglie italiane non arrivano a fine mese, gli operai restano senza lavoro e troppe imprese chiudono. Il professor Monti, che parla tanto d'Europa, lo ha letto il Sunday Telegraph? Lo sa questo governo dimissionario e guerrafondaio che gli F-35, oltre ad essere costosissimi, sono anche delle vere e proprie bombe volanti? Non siamo noi a denunciarlo, ma un rapporto del Pentagono".
Ma cosa dice il rapporto citato da Di Pietro? Secondo il Sunday Telegraph, che ne ha rivelato l'esistenza, l'avveniristico e costosissimo caccia-bombardiere Usa di ultima generazione, l'F-35 Jsf Lockheed Martin, potrebbe esplodere se venisse colpito non solo da fuoco nemico, ma anche da un fulmine. La causa di questa vulnerabilità sarebbe legata al serbatoio del carburante. I tecnici della Difesa, scrive il Telegraph, avrebbero scoperto che nella continua ricerca di soluzioni per alleggerire il jet i progettisti e le aziende costruttrici hanno ridotto anche lo spessore dell'involucro del serbatoio, rendendolo così più vulnerabile, rispetto ai jet di vecchia generazione, sia al fuoco nemico che ai fulmini.
Il giornale cita il rapporto dell'Operational Test and Evaluation Office del Pentagono, affermando che esso vieta ai 63 F-35 finora realizzati (il progetto complessivo è di 2.443 esemplari per un costo di 396 miliardi di dollari, con la partecipazione dell'Italia) di volare a meno di 45 km da un temporale. Almeno finché non sarà ripristinata la "corazza" del serbatoio.
L'Italia ha già finanziato l'acquisto di 90 caccia F-35 (inizialmente erano 131) per l'aviazione e per la Marina: due terzi sono modelli 'tradizionali' Lightning 2; un terzo invece F-35B a decollo corto ed atterraggio verticale, quelli sui quali finora si sono registrati i problemi maggiori durante i test. I primi tre esemplari, secondo il programma, saranno consegnati quest'anno. Allo Stato dovrebbero costare inizialmente circa 80 milioni di dollari l'uno per una spesa finale di oltre 12 miliardi di euro. L'incertezza sui costi finali, però, è talmente alta che diversi Paesi partecipanti al progetto "Joint Strike Fighter" hanno fatto un passo indietro. Non così l'Italia. L'adesione venne decisa nel 2002 dal governo Berlusconi e gli impegni sugli acquisti - con relativi stanziamenti - sono stati confermati l'anno scorso dal governo Monti che ha però ridotto l'ordine di 41 esemplari per un risparmio di 5 miliardi di euro. Secondo Finmeccanica, impegnata direttamente con Alenia Aermacchi, il progetto consentirà di creare 2500 posti di lavoro a regime dal 2018.
(Fonte: La Repubblica - FabioNews)

Elezioni 2013: la posizione del Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

COMUNICATO STAMPA

Il dibattito politico di questo avvio di 2013 si apre, inevitabilmente, sulle imminenti elezioni politiche. In questo contesto, spesso, si associa il Forum Italiano dei Movimenti dell'acqua e la battaglia che portiamo avanti, al nomi di candidati o partiti.
A tal proposito vogliamo ribadire che il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua nasce dall'incontro tra comitati territoriali e organizzazioni sociali e associative; da sempre, si caratterizza per la propria autonomia da qualunque soggetto partitico e di conseguenza non è organico a nessuna forza politica esistente o in via di costruzione, ma si relaziona politicamente, in modo trasversale, con tutte le forze politiche e istituzionali sensibili alle istanze dell'Acqua Bene Comune.
Per questo motivo non smetteremo di interloquire e richiedere chiare prese di posizione rispetto a alla gestione del servizio idrico e al rispetto dell'esito referendario. A tal proposito a breve ci accingiamo a diffondere una nostra lettera aperta in cui ribadiremo le nostre proposte per una gestione pubblica e partecipativa dell'acqua.

Proprio in questi giorni ci scontriamo con la recente emissione della nuova tariffa da parte dell'AEEG. Sostanzialmente con un atto amministrativo si cancella il referendum e si garantiscono i profitti sull'acqua. Assolutamente in linea con i grigi tecnicismi del governo Monti. Per questo il Forum ha lanciato una mobilitazione nazionale nei giorni 25-26 gennaio, che vedrà tutti i territori mobilitati in difesa dell'acqua e della democrazia

Il percorso politico e culturale del Forum prosegue quindi, come sempre è stato, in piena autonomia rispetto alle scelte delle forze politiche o da scelte di tipo elettorale; siamo collettivamente convinti che ognuno abbia la legittimità delle scelte che compie, così come la responsabilità che ne consegue.
I percorsi che abbiamo costruito in questi anni hanno parlato, e continuano a farlo, di partecipazione diretta per una radicale trasformazione del servizio idrico che vogliamo partecipato e ripubblicizzato.
La nostra volontà e le nostre prospettive sono ben chiare e ci sentiamo parte di un ragionamento diffuso che, da qualche anno, sta affermando la necessità di un nuovo paradigma basato proprio sulla riappropriazione sociale dei beni comuni, sulla loro gestione partecipativa e sul protagonismo diretto dei cittadini.

Questa è la centralità del nostro percorso che tiene aperto il suo confronto con tutti nella nostra autonomia ed indipendenza, costruendo, ostinatamente, una via d'uscita dalla miseria del presente e una strada per costruire un futuro differente.

Roma, 22 gennaio 2013

venerdì 11 gennaio 2013

Due anni di acqua pubblica a Parigi: risparmiati 70 milioni e bollette più basse

Da quando la capitale francese è passata a una gestione totalmente pubblica della rete idrica la bolletta dell'acqua si è abbassata dell'8% e sono stati risparmiati 35 milioni di euro l'anno

di Piero Riccardi, Ernesto Pagano
Il Corriere della Sera, Giovedì 10 Gennaio 2013
Passare a una gestione totalmente pubblica dell'acqua conviene, lo dimostrano i conti di Eau de Paris, che dal 1 gennaio 2010 ha rilevato dalle due multinazionali Veolià e Suez la gestione della rete idrica di Parigi, risparmiando 35 milioni di euro l’anno e abbassando dell’8 per cento la bolletta dell’acqua.
Eau de Paris è un ente di diritto pubblico presieduto da Anne Le Strat, braccio destro del sindaco socialista Bertrand Delanoë che ha fatto della ripubblicizzazione dell'acqua uno dei suoi cavalli di battaglia nella campagna elettorale del 2008.
Per Le Strat la ricetta è semplice: risparmiare assumendo la gestione diretta di tutti i servizi, dalla captazione fino alla fatturazione (mentre prima la stessa acqua poteva cambiare anche dieci volte gestore prima di arrivare al rubinetto); eliminare l'obbligo di remunerare gli azionisti, fattore tipico delle società di diritto privato, in più godendo di vantaggi fiscali legati agli enti pubblici.
Il successo di Eau de Paris fa riflettere sulla validità delle politiche di libero mercato legate all'acqua. Un mercato che, secondo Le Strat, è libero solo di nome, ma di fatto Parigi è stata per decenni «un esempio emblematico di finto liberismo economico applicato all'acqua».
A partire dal 1985 (e per volontà dell’allora sindaco Jacques Chirac) i due colossi Suez e Veolià si sono infatti divisi la gestione della rete idrica parigina assumendo il controllo, rispettivamente, della rive gauche e della rive droite. «Gli utenti parigini – ha commentato Le Strat – si sono trovati di fronte a una non scelta, mentre i gestori avevano una rendita garantita da contratti di concessione di 20 – 25 anni spesso rinnovati senza concorrenza».
D'altronde, come spiega Le Strat, un ente di diritto pubblico come Eau de Paris può andare incontro al libero mercato anche meglio di un gestore privato. I lavori di manutenzione o le opere di canalizzazione, ad esempio, vengono affidate da Eau de Paris a ditte private tramite appalti pubblici, cosa che di fatto favorisce la concorrenza e il risparmio. Veolià e Suez invece affidavano quasi sempre questi lavori a delle società controllate, senza concorrenza e con fatture più salate.
Il paradosso è che, mentre il comune di Parigi mette da parte i due colossi mondiali dell’acqua per tornare alla gestione pubblica, in Italia le stesse Suez e Veolià si dividono da Nord a Sud fette cospicue del mercato idrico del nostro Paese.

videointervista: http://www.corriere.it/inchieste/reportime/interviste/due-anni-acqua-pubblica-parigi-risparmiati-70-milioni-bollette-piu-basse/6cd46262-5b6f-11e2-b99a-09ab2491ad91.shtml

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giovedì 10 gennaio 2013

Naciribwa, la bella nascosta

Questa favola è narrata alla sera attorno al fuoco nei villaggi karimojong (popolazione di pastori del nord-est dell’Uganda). Traspaiono da essa il piacere del narrare, la fantasia e la ricchezza dei dettagli, ma anche alcuni valori caratteristici come la fede nel trionfo del bene sul male.
MISNA, Racconti

C’era una volta una ragazza che si chiamava Naciribwa; il suo secondo nome era Kiyo. Il suo corpo era splendido e la pelle era bronzea e liscia. Gli occhi erano di un nero splendente, bellissimi a vedersi. Vestiva una pelle adornata di magnifiche perline. Il suo capo era adorno di fili multicolori di perline e attorno al collo portava una collana di bianche scaglie di uova di struzzo. Naciribwa era ricca e sana.Un giorno venne data una grande festa e tutti correvano per parteciparvi. Naciribwa vi si recò col fratello. Si pettinò magnificamente e mise un campanellino alla caviglia destra. Lungo la strada si divertì tantissimo in compagnia delle altre ragazze che andavano alla festa. A sera, i giovani del posto cominciarono a corteggiare le ragazze, cercando tra loro la più bella. Ma nessuna eguagliava in bellezza Naciribwa che conquistò tutti, compreso il fratello. Tornato a casa, il ragazzo raccontò ai genitori come erano andate le cose e come anch’egli si fosse innamorato pazzamente della sorella al punto di volerla in moglie. A sentire questo, tutti rimasero male e Naciribwa andò fuori di sé dalla vergogna. Decise di scappare di casa e la sua amica del cuore andò con lei.
Pur slanciata e di un bel colore nero, l’amica non era bella come Naciribwa e, temendo che i nemici si sarebbero interessati solo di lei, magari battendosi tra loro per averla, cercò di trovare una soluzione al problema. Mentre stava pensando a ciò, s’imbatterono in una femmina d’elefante che stava partorendo. L’amica prese la placenta dell’ animale e con essa rivestì Naciribwa che divenne sporca e brutta. Ora, l’amica pareva veramente bella. Trovarono un tamarindo e lo salirono portando con sé la zucca d’acqua. I nemici si stavano avvicinando e vennero a sedersi proprio sotto l’albero. Naciribwa sputò di sotto e uno degli uomini guardò in su ma non vide le ragazze che erano salite molto in alto.
Naciribwa sputò di nuovo e l’uomo pensò che fosse lo spirito e lo disse agli amici. Mentre tutti guardavano in su, le ragazze lasciarono cadere la zucca dell’acqua. Grande fu lo spavento degli uomini che ben presto si accorsero delle ragazze. Naciribwa, con la placenta secca addosso, appariva veramente brulla e gli uomini si dettero ben presto da fare per raggiungere l’amica.
Uno di loro riuscì a prenderla, mentre gli altri decisero di ammazzare Naciribwa tanto era brutta. Ma uno ebbe compassione di lei e volle tenerla con sé per custodire il bestiame. Furono condotte al kraal di quella gente. L’amica di Naciribwa trovò tutti i favori di questo mondo, mentre Naciribwa fu considerata come una schiava. Il suo lavoro consisteva nel badare alle vacche assieme ad un  pastore e si cibava di ciò che veniva gettato ai cani.
Quando andava a fare il bagno, Naciribwa si toglieva la placenta di dosso . Un giorno il pastore la vide e rimase incantato dalla sua bellezza. Nel kraal non c’era nessuna ragazza che potesse starle alla pari. La sera stessa il giovane corse dal padre e raccontò il fatto, ma nessuno gli credette. Mentre Naciribwa stava mangiando con i cani, il giovane improvvisò un canto per declamarne la bellezza: a Kiyo vien dato da mangiare con cani, Kiyo! a Naciribwa Kiyo con i cani, Kiyo! Kiyo dai bianchi denti, con i cani, Kiyo! Kiyo dalle belle mani, con cani, Kiyo! A Kiyo vien dato da mangiare con i cani, Kiyo!
Il ragazzo ripeté la cosa al padre che finalmente si decise ad andare a vedere con i suoi occhi. Naciribwa andò a bagnarsi, si tolse le pelli di placenta e incominciò a versarsi acqua sul corpo. Mentre stava per rimettersi la pelle della placenta, il padre del ragazzo corse verso di lei e riuscì a trattenerla. Era certamente la più bella ragazza che si fosse mai vista. Venne portata al kraal e tutti rimasero meravigliati della storia. Da quel momento non dovette più mangiare con i cani perché tutti le volevano bene. Sposò il giovane che l’amava ed ebbe figli bellissimi.

martedì 8 gennaio 2013

Democrazia sott'acqua


Mentre i principali media si concentrano, senza eccezioni degne di nota, sulle incipienti scadenze elettorali e sulle discese - o salite - in campo di nuovi o vecchi soliti noti, l'AEEG, Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas, assesta indisturbata un ulteriore e spudorato colpo alla volontà popolare espressa per via referendaria.
Con la delibera 585/2012/R/IDR, varata con tempismo encomiabile il 28 dicembre, e titolata "Regolazione dei servizi idrici: approvazione del metodo tariffario transitorio per la determinazione delle tariffe 2012-2013" l'AEEG ha infatti reintrodotto sotto mentite spoglie la remunerazione del capitale investito nella bolletta del servizio idrico, violando palesemente il risultato emerso dal referendum del giugno 2011.
Con la seducente nomenclatura di "costo della risorsa finanziaria", l'Autorità permette di fatto di reinserire nella tariffa una percentuale di profitto per il gestore, possibilità invece abrogata dal secondo dei quesiti referendari promossi dal Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua e che ha avuto l'avallo di oltre il 95% dei 27 milioni di cittadini che hanno espresso il proprio voto.
La deliberazione è stata resa possibile dal fatto che l'AEEG, organismo indipendente istituito nel '95 col compito di "tutelare gli interessi dei consumatori e promuovere concorrenza, efficienza e livelli di qualità nella fornitura dei servizi" ha acquisito grazie all'arcinoto decreto Salva Italia, convertito poi in legge, competenze specifiche anche in materia di servizi idrici.
Si discute da mesi di come allargare la base democratica della partecipazione attraverso primarie, parlamentarie e consultazioni popolari più o meno rappresentative, dimenticando - guarda un pò - che un primo passo dovuto sarebbe garantire il rispetto della volontà popolare espressa attraverso l'unico strumento vincolante di democrazia diretta previsto nella nostra costituzione: il referendum abrogativo.
Non è la prima volta che in periodo di ferie, con una soglia di attenzione mediatica più bassa, si tenta invece di ribaltare il risultato referendario. Era già accaduto con il decreto del governo Berlusconi nell'agosto 2011, dichiarato in seguito incostituzionale, che appena due mesi dopo il referendum reintroduceva nella sostanza lo stesso precetto abrogato dal primo quesito dando nuova spinta ai processi di privatizzazione del servizio idrico.
Contro la decisione dell'AEEG è in mobilitazione il Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua - FIMA, che ha diffuso tempestivamente un comunicato di denuncia sulla decisione accusando l'autorità di palese violazione del portato referendario. A ciò si unisca che nulla era stato fatto dai gestori del servizio idrico per adeguarsi al referendum stornando dalla bolletta il 7% previsto come remunerazione del capitale. Un'inattività colpevole cui il FIMA aveva a suo tempo risposto lanciando una "campagna di obbedienza civile" per l'autoriduzione delle bollette da parte dei cittadini.
Oltre alla violazione del referendum, il meccanismo previsto dall'AEGG, basato sul mercato creditizio, metterebbe inoltre a rischio gli ingenti investimenti necessari al servizio idrico, stimati in circa 2 miliardi annui per i prossimi 20/30 anni.
Il FIMA ha definito, nell'ultima riunione nazionale di coordinamento tenutasi poco prima di Natale, un'agenda di azioni e mobilitazioni da mettere in campo per fronteggiare quella che definisce "una sospensione democratica gravissima". Tra esse, una giornata di mobilitazione nazionale prevista per il 25 gennaio prossimo con manifestazioni e presidi in tutti i territori e due giornate di pressione sulle forze politiche a livello locale e nazionale fissate per l'8 e 9 febbraio. Infine, il via ad una istruttoria legale per verificare i termini del ricorso legale da presentare al Tar della Lombardia, dove l'AEEG ha sede.
In definitiva è evidente la volontà di imporre con lo strumento "tecnico" della delibera amministrativa un indirizzo politico preciso: un'impostazione fortemente orientata alle privatizzazioni e di stampo fulgidamente neoliberista, rafforzata ulteriormente dai provvedimenti del governo Monti e base politica dell'agenda con la quale il professore si candida a guidare nuovamente il paese.
Poco importa alle forze politiche e ai media che ciò avvenga in barba alla grande movimentazione sociale che da anni in Italia discute di beni comuni e di come gestirli in maniera pubblica e partecipata, sottraendoli alle logiche di mercato e agli imperativi del profitto. Un campo, quello dei beni comuni, che è pronto ad affilare le sue armi e a rilanciare attraverso una campagna di informazione e di mobilitazione che difenda e approfondisca il grande (e disatteso) portato politico del referendum del 2011.

Bilancio dell'Anno: stiamo andando di male in peggio

di Leonardo Boff
(traduzione: Antonio Lupo)

La realtà mondiale è complessa. É impossibile fare un unico bilancio.
Tenterò di farne uno relativo alla macro-realtà e un altro alla micro.
Se consideriamo il modo in cui i padroni del Potere stanno affrontando la crisi sistemica del nostro tipo di civilizzazione, organizzata nello sfruttamento illimitato della natura, nell'accumulazione anch'essa illimitata e in una conseguente creazione di una doppia ingiustizia: quella sociale, con le perverse disuguaglianze a livello mondiale, e quella ecologica, con la destrutturazione della rete della vita che garantisce la nostra sopravvivenza, e se prendiamo anche come punto di riferimento la COP 18 sul riscaldamento globale, realizzata alla fine di questo anno a Doha in Qatar, possiamo dire, senza esagezione: stiamo andando di male in peggio.
Proseguendo su questa strada, ci troveremo di fronte, e non manca molto, a un “Abisso Ecologico”. Finora non si sono prese le misure necessarie per cambiare il corso delle cose.
La economia speculativa continua a proliferare , i mercati sono sempre più competitivi, che equivale a dire sempre meno regolati, e l'allarme ecologico, rappresentato nel riscaldamento globale, viene posto praticamente di lato.
A Doha è mancato solo che si desse l'estrema unzione al Trattato di Kyoto.
E per ironia nella prima pagina del documento finale, che nulla ha risolto, rimandando tutto al 2015, è scritto:”il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta e questo problema deve essere affrontato urgentemente da tutti i paesi”.
E non lo si sta affrontando. Come ai tempi di Noé, continuiamo a mangiare, bere e apparecchiare le tavole del Titanic che sta affondando, ascoltando musica per di più.
La Casa sta prendendo fuoco e mentiamo agli altri dicendo che non è niente.
Ho due motivi per arrivare a questa conclusione realista che sembra pessimista.
Voglio dire con José Saramago: ”non sono pessimista; é la reltà che é pessima; io sono realista”.
Il primo motivo è la falsa premessa che sostiene e alimenta la crisi: l'obbiettivo è la crescita materiale illimitata (l'aumento del PIL), realizzato sulla base dell'energia fossile e con il flusso totalmente libero dei capitali, specialmente quelli speculativi.
Questa premessa è presente nei programmi di tutti i paesi, compreso quello del Brasile.
La falsità di questa premess sta nel fatto che non tiene per nulla in considerazione i limiti del sistema-Terra. Un Pianeta limitato non sopporta progetti illimitati, che non possiedono sostenibilità.
Aliás, si evita la parola sostenibilità che proviene dalla scienze della vita; la vita é non-lineare, è organizzata in reti di interdipendenza di tutti con tutti, reti che mantengono attivi i fattori che garantiscono il perpetuarsi della vita e della nostra civilizzazione.
Si preferisce parlare di sviluppo sostenibile, senza tener conto che si tratta di un concetto contradditorio perchè é lineare, sempre crescente, che suppone il dominio della natura e la rottura dell'equilibrio ecosistemico.
Non si arriva ad alcun accordo sul clima perchè le potenti multinazionali del petrolio influenzano politicamente i governi e boicottano qualsiasi misura che faccia dimunuire i loro lucri e per questo non appoggiano le energie alternative.
Cercano soltanto di aumentare ogni anno il PIL.
Questo modello è rifiutato dai fatti: non funziona più né nei paesi centrali, come dimostra la crisi attuale, né in quelli periferici.
O si trova un altro tipo di crescita che sia essenziale per il sistema-vita, ma che per noi deve rispettare la capacità della Terra e i ritmi della natura, o incontreremo l'innominabile.
Il secondo motivo, per il quale mi sto battendo da oltre 30 anni, è più di ordine filiosofico.
Esso implica conseguenze paradigmatiche: il riscatto dell'intelligenza cordiale o emozionale per equilibrare il potere distruttore della ragione strumentale, sequestrata da secoli dal processo produttivo accumulatore.
Come ci dice il filosofo francese Patrick Viveret “ la ragione strumentale senza l'intelligenza emozionale ci può portare perfettamente alle peggiori barbarie”(Por uma sobriedade feliz, Quarteto 2012, 41); basta considerare il ridisegno dell'umanità , progettato da Himmler e che culminò nella shoah, nella eliminzioni di zingari e deficienti.
Se non incorporiaro l'intelligenzia emozionale alla ragione strumentale-analitica, non sentiremo mai il grido degli affamati, il gemito della Madre Terra, il dolore delle foreste abbattute e la devastazione attuale della biodiversità, nell'ordine di quasi centomila specie all'anno (E.Wilson).
Con la sostenibilità deve venire la cura, il rispetto e l'amore per tutto quello che esiste e che vive. Senza questa rivoluzione della mente e del cuore andremo, si, di male in peggio.

Vedi il mio libro: Proteger a Terra-cuidar da vida: como escapar do fim do mundo, Record 2010 (Trad. Proteggere la Terra-aver cura della vita: come evitare la fine del mondo).

lunedì 7 gennaio 2013

Il grande deserto dei diritti

Si può avere una agenda politica che ricacci sullo sfondo, o ignori del tutto, i diritti fondamentali? Dare una risposta a questa domanda richiede memoria del passato e considerazione dei programmi per il futuro.
Ma bilanci e previsioni, in questo momento, mostrano un’Italia che ha perduto il filo dei diritti e, qui come altrove, è caduta prigioniera di una profonda regressione culturale e politica. Le conferme di una valutazione così pessimistica possono essere cercate nel disastro della cosiddetta Seconda Repubblica e nelle ambiguità dell’Agenda per eccellenza, quella che porta il nome di Mario Monti. Solo uno sguardo realistico può consentire una riflessione che prepari una nuova stagione dei diritti.

Vent’anni di Seconda Repubblica assomigliano a un vero deserto dei diritti (eccezion fatta per la legge sulla privacy, peraltro pesantemente maltrattata negli ultimi anni, e alla recentissima legge sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio). Abbiamo assistito ad una serie di attentati alle libertà, testimoniati da leggi sciagurate come quelle sulla procreazione assistita, sull’immigrazione, sul proibizionismo in materia di droghe, e dal rifiuto di innovazioni modeste in materia di diritto di famiglia, di contrasto all’omofobia. La tutela dei diritti si è spostata fuori del campo della politica, ha trovato i suoi protagonisti nelle corti italiane e internazionali, che hanno smantellato le parti più odiose di quelle leggi grazie al riferimento alla Costituzione, che ha così confermato la sua vitalità, e a norme europee di cui troppo spesso si sottovaluta l’importanza.

La considerazione dei diritti permette di andare più a fondo nella valutazione comparata tra Seconda e Prima Repubblica, oggi rappresentata come luogo di totale inefficienza. Alcuni dati. Nel 1970 vengono approvate le leggi sull’ordinamento regionale, sul referendum, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, sulla carcerazione preventiva. In un solo anno si realizza così una profonda innovazione istituzionale, sociale, culturale. E negli anni successivi verranno le leggi sul diritto del difensore di assistere all’interrogatorio dell’imputato e sulla concessione della libertà provvisoria, sulla delega per il nuovo codice di procedura penale, sull’ordinamento penitenziario; sul nuovo processo del lavoro, sui diritti delle lavoratrici madri, sulla parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro; sulla segretezza e la libertà delle comunicazioni; sulla riforma del diritto di famiglia e la fissazione a 18 anni della maggiore età; sulla disciplina dei suoli; sulla chiusura dei manicomi, l’interruzione della gravidanza, l’istituzione del servizio sanitario nazionale. La rivoluzione dei diritti attraversa tutti gli anni ’70, e ci consegna un’Italia più civile.
Non fu un miracolo, e tutto questo avvenne in un tempo in cui il percorso parlamentare delle leggi era ancor più accidentato di oggi. Ma la politica era forte e consapevole, attenta alla società e alla cultura, e dunque capace di non levare steccati, di sfuggire ai fondamentalismi. Esattamente l’opposto di quel che è avvenuto nell’ultimo ventennio, dove un bipolarismo sciagurato ha trasformato l’avversario in nemico, ha negato il negoziato come sale della democrazia, si è arresa ai fondamentalismi. È stata così costruita un’Italia profondamente incivile, razzista, omofoba, preda dell’illegalità, ostile all’altro, a qualsiasi altro. Questo è il lascito della Seconda Repubblica, sulle cui ragioni non si è riflettuto abbastanza.
Le proposte per il futuro, l’eterna chiacchiera su una “legislatura costituente” consentono di sperare che quel tempo sia finito?

Divenuta riferimento obbligato, l’Agenda Monti può offrire un punto di partenza della discussione. Nelle sue venticinque pagine, i diritti compaiono quasi sempre in maniera indiretta, nel bozzolo di una pervasiva dimensione economica, sì che gli stessi diritti fondamentali finiscono con l’apparire come una semplice variabile dipendente dell’economia. Si dirà che in tempi difficili questa è una via obbligata, che solo il risanamento dei conti pubblici può fornire le risorse necessarie per l’attuazione dei diritti, e che comunque sono significative le parole dedicate all’istruzione e alla cultura, all’ambiente, alla corruzione, a un reddito di sostentamento minimo. Ma, prima di valutare le questioni specifiche, è il contesto a dover essere considerato.
In un documento che insiste assai sull’Europa, era lecito attendersi che la giusta attenzione per la necessità di procedere verso una vera Unione politica fosse accompagnata dalla sottolineatura esplicita che non si vuole costruire soltanto una più efficiente Europa dei mercati ma, insieme una più forte Europa dei diritti. Al Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, si era detto che solo l’esplicito riconoscimento dei diritti avrebbe potuto dare all’Unione la piena legittimazione democratica, e per questo si imboccò la strada che avrebbe portato alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, sì che diviene una indebita amputazione del quadro istituzionale europeo la riduzione degli obblighi provenienti da Bruxelles a quelli soltanto che riguardano l’economia. Solo nei diritti i cittadini possono cogliere il “valore aggiunto” dell’Europa.

Inquieta, poi, l’accenno alle riforme della nostra Costituzione che sembra dare per scontato che la via da seguire possa esser quella che ha già portato alla manipolazione dell’articolo 41, acrobaticamente salvata dalla Corte costituzionale, e alla “dissoluzione in ambito privatistico” del diritto del lavoro grazie all’articolo 8 della manovra dell’agosto 2011. Ricordo quest’ultimo articolo perché si è proposto di abrogarlo con un referendum, unico modo per ritornare alla legalità costituzionale e non bieco disegno del terribile Vendola. Un’agenda che riguardi il lavoro, oggi, ha due necessari punti di riferimento: la legge sulla rappresentanza sindacale, essenziale strumento di democrazia; e il reddito minimo universale, considerato però nella dimensione dei diritti di cittadinanza. E i diritti sociali, la salute in primo luogo, non sono lussi, ma vincoli alla distribuzione delle risorse.

Colpisce il silenzio sui diritti civili. Si insiste sulla famiglia, ma non v’è parola sul divorzio breve e sulle unioni di fatto. Non si fa alcun accenno alle questioni della procreazione e del fine vita: una manifestazione di sobrietà, che annuncia un legislatore rispettoso dell’autodeterminazione delle persone, o piuttosto un’astuzia per non misurarsi con le cosiddette questioni “eticamente sensibili”, per le quali il ressemblement montiano rischia la subalternità alle linee della gerarchia vaticana, ribadite con sospetta durezza proprio in questi giorni? Si sfugge la questione dei beni comuni, per i quali si cade in un rivelatore lapsus istituzionale: si dice che, per i servizi pubblici locali, si rispetteranno “i paletti posti dalla sentenza della Corte costituzionale”, trascurando il fatto che quei paletti li hanno piantati ventisette milioni di italiani con il voto referendario del 2011.

Queste prime osservazioni non ci dicono soltanto che una agenda politica ambiziosa ha bisogno di orizzonti più larghi, di maggior respiro. Mostrano come un vero cambio di passo non possa venire da una politica ad una dimensione, quella dell’economia. Serve un ritorno alla politica “costituzionale”, quella che ha fondato le vere stagioni riformatrici.




articolo di Stefano Rodotà
(la Repubblica, 3 gennaio 2013)