venerdì 30 novembre 2012

Diciotto grandi impianti fuorilegge e l'Unione europea ci condanna

Non solo Ilva. Da nord a sud sono una ventina le installazioni industriali che non hanno ancora l'Aia, l'autorizzazione integrata ambientale. La denuncia del rapporto di Legambiente "Mal'aria". La vicenda di Gela

In Italia ci sono 18 impianti industriali, alcuni di enormi dimensioni, che per l'Unione Europea sono "fuorilegge".  Non hanno ancora ottenuto l'Aia, l'Autorizzazione integrata ambientale, che deve essere rilasciata dalla Commissione istruttoria Ippc del ministero dell'Ambiente. Una certificazione dal 2005 obbligatoria per il controllo degli inquinanti prodotti dagli stabilimenti industriali.

Non ce l'ha ancora, ad esempio, la raffineria di Gela, la vera "altra Ilva" d'Italia, su cui la procura siciliana indaga da circa un decennio per varie ipotesi di inquinamento ambientale. Per ora l'unica cosa certa sono i dati ministeriali, risalenti al 2010, secondo i quali la raffineria gelese risulta essere l'impianto primo in Italia per immissioni in atmosfera di inquinanti quali ossido di zolfo (16.700 tonnellate, il doppio della raffineria di Augusta della Esso, che in questa classifica è seconda), benzene (26,5 tonnellate), mercurio (237 kg), oltre a cromo, ossido di azoto, arsenico, monossidio di carbonio e nichel, categorie in cui viene "battuta" proprio dall'Ilva di Taranto.

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E non hanno l'Aia nemmeno le centrali termoelettriche di Porto Torres, Vado Ligure, Mirafiori e la Spezia, l'impianto di produzione di acido solforico del nuovo polo di Portoscuso, lo stabilimento di Piombino delle acciaierie Lucchini, l'impianto chimico Versalis di Priolo (gruppo Eni) e quello della Tessenderlo a Verbania, uno degli ultimi a utilizzare ancora la tecnologia a mercurio. La lista delle istruttorie ancora aperta è riportata nell'ultimo dossier "Mal'Aria" di Legambiente, che mette nero su bianco lo stato dell'arte delle autorizzazioni Aia, i certificati che integrano in un unico documento i vari permessi preesistenti al 2005, con la finalità di ridurre, controllare e monitorare gli inquinanti prodotti. Secondo la direttiva europea 96/61 dovevano essere tutte rilasciate entro il 30 ottobre del 2007. Ma l'Italia è in forte ritardo.

Al 22 ottobre di quest'anno, 160 provvedimenti Aia nazionali giacevano in fase istruttoria alla Commissione Ippc del ministero (formata da 23 soggetti tra cui docenti universitari, magistrati, fisici, ingegneri, geologi e chimici), a fronte di 153 autorizzazioni già concesse. Tra le pratiche ancora da chiudere ci sono 121 aggiornamenti, 4 riesami, 13 rinnovi e soprattutto 18 impianti esistenti senza Aia, e che quindi non rispettano gli standard di esercizio ed emissione previsti dall'Ue. "E' evidente l'inefficienza di questa Commissione Ippc  -  commenta Stefano Ciafani, vicepresidente di Legambiente  -  che è già costata all'Italia una condanna alla Corte di giustizia europea il 31 marzo del 2011. Non è possibile che una situazione esplosiva come quella di Gela (dove il tasso di bambini malformati è sei volte di quello del resto dell'Italia e i casi di tumore e malattie renali hanno un'incidenza doppia rispetto alla media nazionale, ndr) non sia ancora regolamentata".

Commissione che in questi giorni è finita in un ginepraio di polemiche per alcune intercettazioni dell'ex capodipartimento del ministero dell'Ambiente Luigi Pelaggi e dell'ex responsabile delle relazioni industriali di Ilva Girolamo Archinà, risalenti al periodo precedente il rilascio della prima Aia all'acciaieria pugliese nell'agosto del 2011, poi annullata e nuovamente concessa il mese scorso. Conversazioni contenute nel fascicolo del pm di Taranto Franco Sebastio che sembrerebbero indicare pressioni subite dalla Commissione per "aggiustare" l'istruttoria. "In attesa di conoscere i risultati dell'inchiesta giudiziaria  -  aggiunge Ciafani  -  ci sembra opportuno chiedere le dimissioni di Pelaggi dalla commissione Via e di Dario Ticali dalla presidenza della Commissione Ippc".

"Le Fabbriche dei veleni, sei milioni a rischio":  LEGGI L'INCHIESTA

F 35, un memorandum per Bersani (bugiardo o distratto?)



Il nostro magazine è stato il primo a dedicare una copertina allo scandalo F 35, era l’11 settembre 2011 (qui a lato una riproduzione). Il Governo Berlusconi-Tremonti aveva appena varato una manovra di sacrifici e tagli eppure stanziava un copioso gruzzolo di miliardi per degli aerei da guerra. Con il Governo Monti-Grilli le cose, se possibile, sono andate peggi, sia in fatto di lacrime e sangue sia per lo stanziamento degli F 35 sia per il peso delle bugie raccontate in questi mesi.
Da un anno la società civile è mobilitata sul tema. Sulla base di un ragionamento semplice: che senso ha spendere tutti questi soldi mentre si costringono milioni di italiani a fare enormi sacrifici e mancano i soldi per il lavoro, la scuola, la lotta alla povertà, i servizi degli enti locali, la protezione civile, la polizia e la giustizia, la sanità? Contro questa decisione irresponsabile, la Tavola della pace, la Rete Italiana per il Disarmo e la Campagna Sbilanciamoci! hanno anche promuovono una Giornata nazionale di mobilitazione contro gli F-35 lo scorso 25 febbraio 2012 nell’ambito della campagna “Taglia le ali alle armi” lanciata dalle tre organizzazioni.
In decine di città (tra cui Torino, Bari, Perugia, Napoli, Milano, Roma, Novara, Trieste, Cagliari, Trento…) si sono raccolte migliaia le firme dei cittadini contro l’acquisto degli F-35 che sono state consegnate al Parlamento, dove si discuteva la riforma delle Forze Amate. E gli stessi parlamentari sono stati chiamati, collegio per collegio, a prendere una posizione pubblica. In molti lo hanno fatto e in Parlamento sono state presentate  interrogazioni. Interrogazioni che hanno costretto nel febbraio del 2012, nel bel mezzo di una crisi economica senza precedenti, il ministro “tecnico” della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola ad annunciare pomposamente che l’Italia avrebbe acquistato solo 90 F35, invece dei 131 inizialmente prenotati, così da ottenere un risparmio di cinque miliardi di euro. Una balla clamorosa smentita poi dalla preoccupante escalation dei costi prevista nel rapporto americano, di cui il ministro “tecnico” (?) Di Paola era già a conoscenza e che ha volutamente omesso. Se l’ammiraglio a febbraio dice “l’areo costa 80 milioni” (di dollari), ma a settembre si corregge e dice che in verità i milioni sono 127 (!), voi Parlamento che fareste? Lo chiamereste per farvi spiegare come mai il costo di un aereo in sette mesi possa aumentare da 80 a 127 milioni. Un genio: un costo previsto e staanziato di 17 miliardi di euro (di cui 2 miliardi e mezzo già pagati alle imprese).
Di tutto queste polemiche, mobilitazioni, interrogazioni, figuracce Pierluigi Bersani non se ne deve essere accorto e nulla deve essere arrivato alle sue orecchie (forse era intento a pettinare bambole visto che si è perso anche Crozza) se ieri sera nel confronto televisivo con Renzi, alla domanda: “Nel primo incontro con Obama cosa gli direste?” se n’è uscito in questo modo orrendo. Ecco la trascrizione dello scambio di battute:
Bersani: “Innanzitutto, l’Afghanistan: il 2013 deve essere l’anno di chiusura di questga avventura; poi, gli F35: con questa crisi non mi sembra il caso…”. Renzi a quel punto non si trattiene: “Scusa segretario, ma sull’Afghanista la ‘road map’ già prevede l’uscita nel 2013; e gli F35 dipendono da noi, non da loro…”. Eh già caro Bersani, invece di chiedere a Obama magari prendi uno specchio e fatti qualche domanda.
Il mattino dopo, non posso tacere di fronte a questo modo di far politica fatto da bugie o mezze verità (sono la stessa cosa), di grigiore ammiccante su temi cosi importanti. Ma Bersani dov’eri questi anni??? Eddai! Non so se sei bugiardo o distratto, ma le due cose sono entrambe gravissime!

In ogni caso per un ripasso da 4 minuti:

Il Vangelo secondo fratel Arturo

Che sia un giorno di quiete, nella tempesta quotidiana dalla quale tutti noi proviamo a sopravvivere, lo si capisce salendo i tornanti, incorniciati dal verde argentato degli uliveti, che da Lucca conducono a Pieve Santo Stefano. È qui, nella chiesa con annessa canonica messagli a disposizione dall’arcivescovo Italo Castellani, che dopo mezzo secolo, passato ad attraversare il deserto e in soccorso degli ultimi, è voluto tornare fratel Arturo Paoli. Ad aprire la porta della casa è Paola, mamma di due figli e «Vado a preparare il pranzo». Seduta al lungo tavolo, accanto a colui che sembra un magnifico ulivo nodoso e secolare – fratel Arturo domani compie 100 anni –, sta Benedetta, universitaria alle prese con la tesi sul cantautorato di Carmen Consoli e un impiego da commessa al supermercato per sbarcare il lunario. Benedetta è una dei giovani degli "incontri del martedì", quelli dedicati alla lettura e al commento del Vangelo guidati dal sacerdote e piccolo fratello della Congregazione fondata da Charles de Foucauld. Fratel Arturo finisce di leggere con voce attoriale una lettera appena recapitata: «È dello psicanalista Luigi Zoja… Anche io, sa, scrivo solo lettere di mio pugno», poi alza lo sguardo e ci tiene a precisare: «L’idea di un gruppo che si ritrovasse a leggere e a commentare il Vangelo me l’ha data un libro geniale, La prima generazione incredula di don Armando Matteo. Trovo che sia un approccio assolutamente straordinario per loro…». "Loro" sono i ragazzi, proprio come quelli che qui in questo momento sono alle prese con il Vangelo di Matteo. Si incontrano alla sera dopo la scuola o il lavoro e vanno avanti fino a notte fonda, quando fratel Arturo si ritira nella sua cameretta per salutare il nuovo giorno. «Alle 4 sono sul mio letto che aspetto l’aurora, senza di me il sole non se la sente mica di sorgere», sorride divertito e si fa scuro solo quando il ricordo lo riporta a quelle «brevi ore di un pomeriggio d’inverno del 1920», quando a Lucca, in piazza San Michele, vide le "camicie nere" fasciste sparare e uccidere due uomini che assistevano a un comizio socialista. Un trauma, come la morte della giovane amata e poi quella della madre che lo condussero al sacerdozio, «anche se non riuscivo a pensarmi parroco». È diventato un prete spesso "scomodo", che ha cercato di conciliare impegno politico e testimonianza di fede concreta.

Dinanzi alla banalità del male, rispose con l’impegno totale, adempiendo alla richiesta dell’allora arcivescovo di Lucca, Antonio Torrini, che a lui e altri tre giovani sacerdoti disse: «Dedicatevi a tutti i perseguitati della terra». In quel periodo della seconda guerra, che definisce «straordinario», riuscì a mettere in salvo centinaia di ebrei, pagando con il carcere. Il 6 agosto, giorno in cui venne liberato da un anonimo tenente tedesco, ancora oggi lo commemora con una Messa. Nella sua memoria sono scolpiti i nomi dei tanti salvati che ne hanno fatto un "Giusto fra le nazioni", a cominciare dallo scrittore ebreo e tedesco, Ludwig Greve, che della scampata deportazione racconta nel libro dedicato a fratel Arturo, Un amico a Lucca. Ricordi d’infanzia e d’esilio. «Ludwig veniva da Cuneo, dopo che suo padre e la sorella erano spariti nel nulla… Appena arrivato, a muso duro mi disse: "Non crederà mica di convertirmi?". Tre giorni dopo, vivendo assieme a noi, rideva di quello che aveva detto. Si salvò vestendosi da prete. Le sue figlie, che ha fatto battezzare in Germania, quando passano per l’Italia non mancano mai di venirmi a trovare». E anche oggi è giorno di visite. Dal Brasile sono atterrati tre amici, parte di quelle comunità di base che fratel Paoli contribuì a creare tra i campesinos e gli affamati dell’America Latina, «dove ho visto realizzato il Concilio Vaticano II. Qui da noi invece, molto spesso li abbiamo dimenticati... Laggiù è ancora accesa la scintilla della sana "ribellione" cristiana. E quella l’ho toccata con mano nelle favelas brasiliane, nel popolo d’Argentina e del Venezuela». Parla come ha vissuto, condividendo speranze e drammi, come quelli dei desaparecidos argentini e subendo anche lui la violenza dei generali che lo cacciarono. «Oggi la forza rivoluzionaria positiva di quei popoli, vorrei ritrovarla nei nostri giovani, ma si sono spenti…». Fissa negli occhi Benedetta che prova a difendersi e a difendere la sua generazione: «Ma Arturo, anche questo modo diverso di vivere il Vangelo con leggerezza e al tempo stesso in maniera estremamente profonda, come ci hai insegnato tu, per noi rappresenta già una piccola rivoluzione…». Fratel Arturo annuisce. Comprende le ragioni dei giovani di un Occidente svuotato e annichilito, e mostra un piccolo libro. "L’anno scorso ho scritto questo pamphlet, La rinascita dell’Italia, in cui denuncio il fatto che non si può tacere delle gravi responsabilità della politica, delle ruberie compiute dai dragoni di una classe dirigente che pare non tenga in nessun conto la povertà crescente del nostro popolo. La deriva politica però, è lo specchio di quella morale... Non si sono mai viste, come oggi, tante "unioni" così frettolose e che altrettanto velocemente poi si sciolgono. L’incapacità di amare è il grande male dell’uomo».

Ragionamenti "scomodi" anche per chi potrebbe pensare che la sua "rivoluzione" sia un po’ relativista e a buon mercato. Si rifà all’insegnamento di Teilhard de Chardin, fratel Arturo. «Dobbiamo "amorizzare" il mondo», dice mentre accarezza l’immaginetta del suo Charles de Foucauld («il 1° dicembre - ricorda - è il giorno della sua morte»), in cui sta scritta la massima: «Jamais avoir peur», mai dobbiamo avere paura. «Già, non dobbiamo temere neppure il "vuoto"». Fratel Arturo lentamente si alza e chiede con permesso se può andare a riposarsi un po’ nella sua stanza. Riappare dopo una mezz’ora e confessa: «Ho imparato da Beethoven che durante la giornata è necessario fare delle piccole soste di sonno... Il mio tempo è pieno di letture. Testi religiosi certo, ma anche tanta letteratura, a cominciare dai miei amati sudamericani, a cominciare da Jorge Amado. Il fatto di scrivere (Aragno ha appena ripubblicato il suo Dialogo della libertà e di venire considerato un intellettuale all’inizio è stato un ostacolo per entrare nella Congregazione dei Piccoli Fratelli. Da loro ho appreso tanto e più vado avanti e più mi convinco che il cristianesimo va ricercato nell’opera del contadino. Come dice il mio amico Ivo, piccolo fratello nella comunità di Spello: "Degno di Cristo, è chi affonda le mani tutti i giorni nella terra madre"». Nell’orto fuori dalla canonica, le mani nella terra le affonda Camillo, 84 anni - uno degli "ex ragazzi" di fratel Arturo - assieme al giovane Valentin, il figlio di Paola che dice raggiante: «Coltivano di tutto, in casa abbiamo pomodori grandi come cocomeri». Benedetta apparecchia la tavola, Paola serve la pasta. Sono tutte volontarie, come «quell’angelo della Piera che appare e scompare, in silenzio», dice fratel Arturo che non ha mai voluto una perpetua «perché anche la migliore con il tempo diventa un triste sottoprete. Molto meglio affidarsi alla Provvidenza». È quella che spinge tanti a salire fin quassù in questa oasi di San Martino in Vignale, per parlare e ascoltare la sua voce che incanta con le omelie della domenica. «Per me sono una ferita aperta. Dopo ogni omelia fatico a riprendermi. E non è perché ora porto un secolo sulle mie povere spalle, ma accade da quando il Cristo, il mio Amico, ha cominciato a parlarmi. E tutto questo è iniziato tanto tempo fa…».

Massimiliano Castellani (Avvenire, 29.11.12)

lunedì 19 novembre 2012

Habermas: “Dalla crisi economica può nascere l’Europa politica”



La crisi economica può rappresentare nell’Unione europea un’importante occasione per rafforzare il sistema di cooperazione e per dare vita a una nuova architettura istituzionale. La costruzione di una democrazia sovranazionale europea appare oggi prioritaria nel contesto di una globalizzazione che nel prossimo futuro lascerà poca voce in capitolo ai singoli Stati del vecchio continente. Un’intervista esclusiva con Jürgen Habermas.

di Donatella Di Cesare, MicroMega (19 novembre 2012)

Professor Habermas Lei ha indicato nell’Unione Europea un passo decisivo verso una società mondiale retta da una Costituzione politica. La crisi attuale non le ha fatto cambiare idea. Lei anzi sostiene che «l’astuzia della (s)ragione economica ha riportato nell’agenda politica la questione del futuro dell’Europa». La crisi del debito sarebbe dunque una chance?
Senza questa crisi i capi dei governi della comunità monetaria europea non sarebbero costretti a cooperare più strettamente, almeno nella politica fiscale ed economica, e a delineare perciò una nuova “architettura istituzionale”. Quel che sta avvenendo mi pare sia un’astuzia della ragione, proprio perché contribuirà a risolvere non solo la crisi economica attuale. Dobbiamo portare avanti questo progetto anche per altri motivi. Nei prossimi decenni il peso politico degli Stati europei andrà diminuendo sotto il profilo economico, demografico e militare. Nessuno dei nostri Stati nazionali sarà ancora in grado di sostenere efficacemente le proprie idee di fronte all’America, alla Cina o anche solo alle potenze emergenti come il Brasile, la Russia e l’India. Vogliamo dunque rinunciare, per pigrizia e ottusità nazionali, ad esercitare un influsso sulla formazione e l’orientamento di quella comunità multiculturale che sta sorgendo nel nostro mondo? Assume rilievo qui la Sua domanda sull’idea di un ordine cosmopolitico, come Kant lo ha prefigurato. Il conflitto politico che sulla scena internazionale si fa sempre più brutale, finirà per provocare squilibri gravi in una società mondiale dove tutti dipendono da tutti. Ogni giorno aumentano i costi per quella che Carl Schmitt ha chiamato la “sostanza politica” dello Stato. Occorre contrastare tutto ciò ponendo un argine istituzionale e giuridico al socialdarwinismo che sembra non avere più freni.

Lei non ha esitato a dire che gli Stati nazionali europei sono nati da una costruzione forzata – è il caso dell’Italia o della Germania. Oggi lo Stato-nazione, pur con i suoi confini sempre più fluidi, sembra ostacolare tuttavia i legami tra i cittadini. Eppure Lei crede che abbia ancora un compito.
La prima generazione di Stati-nazione è sorta in Europa. Perciò è così marcata la coscienza nazionale della popolazione europea. Ma quel che oggi conta è che questi Stati nazionali garantiscono un livello di diritto e di democrazia che i cittadini intendono in ogni modo mantenere. Costituiscono insomma un esempio di libertà che si è realizzata storicamente e di cui andare fieri. In una Europa unificata gli Stati nazionali non possono quindi scomparire. Credo che il fine che dovremmo perseguire sia una democrazia sopranazionale che, senza assumere la forma di uno Stato federato, permetta un governo comune. Lo Stato federato è un modello sbagliato per l’Europa e chiede troppo alla solidarietà dei popoli.

Lei affida un ruolo decisivo ai cittadini. Ma i cittadini europei sembrano vivere in una condizione quasi schizofrenica. A chi devono essere leali: alla regione d’origine, allo Stato nazionale o all’Unione Europea? Tanto più che queste appartenenze sono spesso in conflitto?
Non si tratta di un aut-aut. La “patria” è, per così dire, una torta a vari strati. I cittadini hanno già ora identità politiche diverse e legami molteplici. Ci sentiamo allo stesso tempo cittadini di Torino e abitanti del Piemonte, cittadini di Palermo, o di Siracusa, e siciliani. Su questi legami tradizionali è sorta in Italia, da poco più di 150 anni, una identità nazionale. Perché questa identità nazionale non dovrebbe coniugarsi spontaneamente con l’appartenenza all’Unione europea? Già da tempo ormai, grazie ai nostri passaporti e alle targhe delle nostre macchine, veniamo identificati all’estero non come tedeschi o italiani, bensì come cittadini provenienti dall’Europa. Saranno le istituzioni a preoccuparsi di stabilire quale legame debba avere di volta in volta la priorità. Un sistema europeo dei partiti, che sia in grado di superare le frazioni dell’attuale Parlamento Europeo, potrà offrire un contributo decisivo in questa direzione.

Manca una sfera pubblica europea. Il che pregiudica la partecipazione dei cittadini. Lei ha imputato questo deficit democratico all’assetto politico dell’Europa. Ma ha denunciato a chiare lettere le responsabilità dei mass media. Che cosa dovrebbero fare? Che cosa non fanno?
Una sfera pubblica europea potrà emergere solo se nelle arene nazionali verrà percepita l’importanza delle decisioni europee. I cittadini che leggono i giornali, guardano la televisione, seguono le notizie in internet, devono non solo venire a conoscenza delle decisioni prese a Bruxelles, ma anche comprenderne le ripercussioni sulla loro vita quotidiana. Tuttavia non abbiamo bisogno di una nuova infrastruttura né, tanto meno, di nuovi media. Una sfera pubblica europea si costituirà a partire da quelle nazionali che si apriranno l’una all’altra. I media già esistenti dovranno però dare il giusto spazio ai temi europei e riferire correttamente i punti controversi, soprattutto quando il rischio è il contrasto fra le opinioni pubbliche nazionali. Il problema della diversità delle lingue potrà essere risolto grazie a un lavoro di traduzione che i media nazionali devono essere ormai in grado di fornire.

Il populismo di destra soffia sul fuoco. Accentua i pregiudizi e tenta di presentare una caricatura dei soggetti nazionali. Non è però legittimo chiedersi se nell’Europa attuale sia possibile davvero parlare di una «volontà democratica che oltrepassa i confini»?
Sono i governi e i partiti politici a dover fare il primo passo. Non è possibile che i governi, per paura dei loro elettori, evitino di discutere dinanzi all’opinione pubblica nazionale quello che pianificano e decidono a Bruxelles. Al contrario, devono imparare a pensare e ad agire allo stesso tempo su un piano nazionale e su un piano europeo.

Le élites politiche europee non sono state capaci di delineare un progetto per il futuro. Lei muove questo rimprovero anche alla sinistra che accusa di ottusità nazionalistica, perché non è stata in grado di preparare l’opinione pubblica.
Per la Germania questo non è più del tutto vero. Ma Lei ha ragione se si riferisce a quei politici che vorrebbero trovare un accordo solo all’interno dello Stato-nazione, perché lo considerano l’ultimo baluardo di quel che resta dello stato sociale. Ritengo che sia un errore di portata storica. La globalizzazione economica, che è stata politicamente voluta a Washington, è ormai irrevocabile. Questo spiega perché il capitalismo dettato dai mercati finanziari abbia potuto liberarsi da tutti i vincoli politici al punto da assumere un influsso smisurato anche per i governi più potenti. Per domare il capitalismo selvaggio dobbiamo perciò costruire su un piano sopranazionale quella capacità di azione politica e di governo che sul piano nazionale è andata irrimediabilmente perduta. Solo una Europa che si presenti decisa e determinata, essendo ancora la zona economica più significativa nel mondo, potrà anticipare i mercati finanziari e avere ancora l’ultima parola.




domenica 18 novembre 2012

I beni comuni non sono il bene comune

C’era una volta

C’erano una volta i beni comuni: l’aria, l’acqua, il bosco, il fiume, la spiaggia, i pascoli, e persino i campi, che venivano dissodati e arati congiuntamente dalle comunità di villaggio. Nell’era moderna, il processo della loro appropriazione – e della esclusione di chi ne traeva il proprio sostentamento – è cominciato molto presto con le recinzioni (enclosure) dei pascoli in Inghilterra, che Marx pone a fondamento del meccanismo di accumulazione primitiva del capitale. Ed è proseguito nel tempo: molte delle rivoluzioni borghesi in Europa hanno messo capo a un processo analogo, per non parlare della conquista del West in Nordamerica, a spese delle popolazioni indigene, o del colonialismo, che ha globalizzato questa pratica.

Gli ultimi decenni, con il trionfo del liberismo e del cosiddetto “pensiero unico”, si sono svolti all’insegna della privatizzazione di tutto l’esistente – persino dell’aria, con le quote di emissione – e della stigmatizzazione di tutto quanto è comune o condiviso. Ma la musica sta cambiando e deve cambiare. In ogni caso la difesa dei beni comuni, che oggi è il denominatore comune di tanti conflitti sociali, non si configura come un ritorno al passato, quando non tutto era ancora mercificato, e per questo “privatizzato” in nome di un progresso che identifica efficienza e profitto. Certo, in molti casi – i più tipici sono quelli dell’acqua o delle aree protette – la difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la “novità” della loro privatizzazione. Ma è fin da subito evidente che l’esito di una difesa del genere non può essere un ritorno alla situazione precedente. Il bene “comune” verrà salvaguardato come tale solo se per esso si riuscirà a sviluppare una forma di gestione completamente nuova; sotto il controllo, anche se parziale e condiviso, e proprio per questo soggetto a continue revisioni, di coloro che si sono battuti contro la sua appropriazione privata, o di coloro che hanno accettato di rinunciare ad essa. La soluzione non può essere ridotta a una trasferimento del bene sotto il controllo dello Stato. La proprietà “pubblica” di un bene comune, soprattutto se intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione territoriale, non offre di per sé alcuna garanzia di partecipazione, di condivisione, di comunanza, tra coloro che dovrebbero esserne i beneficiari.

Sono le modalità di esercizio del potere su un bene, del controllo sul suo uso e sulla ripartizione, attuale e nel tempo, dei vantaggi che esso può procurare, a definire le forme, anche giuridiche, esplicite o sottintese, secondo cui si dispone di esso. Per questo la connotazione di una risorsa come bene comune è indissolubilmente legata a forme di democrazia partecipativa che lo sottraggano tanto alla disponibilità di un privato quanto a quella di un apparato statale o di una sua struttura particolare. Il degrado e la rapacità delle imprese di Stato, o delle società a partecipazione pubblica (dall’Iri a Finmeccanica, dalle Ferrovie dello Stato alle SpA ex municipalizzate), sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, dimostrano in modo inconfutabile la divaricazione tra pubblico, nel senso di statale, e comune. Peggio ancora se si pensa di affidare a poteri più centralizzati (Regione o Stato), il compito di rimediare ai guasti nella gestione di un servizio pubblico locale perpetrati dai livelli decentrati dell’amministrazione.

“Comune” non è dunque la stessa cosa di “pubblico”: soprattutto se per pubblico si intende “statuale”. Il che inevitabilmente succede se si ritiene che il rapporto degli umani con un bene non possa assumere altra forma che quella del diritto di proprietà. Ma questa concezione non ha alcun fondamento storico; risponde a un approccio giuridico tradizionale e sbarra la strada a qualsiasi percorso alternativo allo stato di cose presente. Per questo è necessario andare più a fondo nella concettualizzazione del termine.

La teoria dei beni comuni

I beni comuni non possono essere considerati una categoria merceologica, e nemmeno essere ridotti alle sole risorse naturali indispensabili alla vita, come l’acqua, l’aria, la biodiversità, ecc. Tuttavia, l’estensione del concetto va realizzata con cautela. Stefano Rodotà, che da tempo si occupa della materia, ha messo in guardia contro una recente tendenza a estendere la categoria di “bene comune” a cose che per loro natura non lo sono. Questa tendenza è riconducibile al tentativo di associare questioni che sono comunque al centro di una mobilitazione o di uno scontro politico a una battaglia che recentemente ha avuto il suo punto di forza nel risultato del referendum contro la privatizzazione dell’acqua. Tipico da questo punto di vista è la parola d’ordine lanciata dalla Fiom oltre due anni fa secondo cui “il lavoro è un bene comune”.

Propriamente parlando il bene comune è una risorsa dalla cui fruizione non può essere escluso nessuno, pena la privazione, per la persona esclusa, di una componente essenziale dei suoi diritti di uomo e di cittadino. Così, nel mondo moderno, accanto a risorse che sono condizioni essenziali della vita e della sua riproducibilità, come le già citate acqua e aria, si possono porre prodotti artificiali, come l’accesso all’energia elettrica, alla mobilità, ai servizi sanitari, o a manifestazioni delle facoltà superiori dell’uomo come l’informazione, la cultura, l’arte, ecc. Ma a garanzia di questa non esclusione dalla fruizione devono intervenire forme di gestione del bene incompatibili tanto con la proprietà privata – per lo meno fino aala soglia al di sotto della quale l’accesso al bene è un’esigenza vitale o un diritto irrinunciabile – quanto con la mera proprietà pubblica, intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione. La quale riproduce, a un livello più alto, tutte le potenzialità di esclusione proprie della proprietà privata. La gestione dei beni comuni deve essere una gestione condivisa: nel senso che tutti i potenziali fruitori possono – non necessariamente devono – partecipare alle decisioni relative al modo in cui il bene viene utilizzato o fruito.

Le modalità di questa condivisione possono essere le più varie e differenziarsi tra loro: sia in base alle circostanze storiche – la riappropriazione collettiva di una risorsa come bene comune è sempre un work-in-progress, mai completamente compiuto – sia alle caratteristiche del bene e delle forme prevalenti della sua fruizione, sia al livello di competenza e di maturità sociale e culturale di quella parte della cittadinanza che ne rivendica l’esercizio.

Recenti studi, a partire da quello pionieristico de premio Nobel Elinor Ostrom, passando, in Italia, per i nomi di Stefano Rodotà, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, hanno cercato di dare fondamento e consistenza giuridica a questa forma di gestione che esclude – o mette in secondo piano – la proprietà; ma l’indagine storica, valgano per tutte quelle della Ostrom, “mirate” sul tema, dimostra che la gestione condivisa di un bene comune è una pratica antica e ben nota in una pluralità di comunità etniche e storiche e che essa, per l’appunto, varia nei modi e nelle regole, a seconda del contesto storico sociale e del bene in questione. Se accettiamo questo approccio, è chiaro che la categoria dei beni comuni non esclude a priori nessuna delle risorse materiali o spirituali che occupano il panorama della vita moderna; ma anche che l’inclusione di una risorsa nella categoria dei beni comuni dipende strettamente dal grado in cui si è affermata la pratica o la rivendicazione, di una sua gestione comune e condivisa; o, per lo meno, una diffusa convinzione che così deve essere. Ed è altresì chiaro che questa questione è il nocciolo duro di uno scontro in corso a livello planetario, che assume le forme più diverse nei diversi contesti; ma che vede ovunque contrapporsi, da un lato, l’approccio liberista, che vede nella privatizzazione del controllo e della gestione delle risorse le condizioni irrinunciabili di un loro uso efficiente e produttivo; e, dall’altro, le varie forme di resistenza a questo “pensiero unico”.

Queste ultime scartano come non decisiva la contrapposizione tra pubblico e privato, e tra Stato e mercato – anche sulla base delle esperienze negative che la mera “nazionalizzazione” o statalizzazione delle risorse e delle attività produttive ha dato di sé: sia nei paesi del blocco comunista a economia pianificata, che in molte esperienza realizzate nel corso del secolo scorso in Occidente – e vedono invece nella riappropriazione condivisa di una serie di risorse e di attività le condizioni essenziali di una gestione democratica tanto del potere che delle attività economiche fondamentali.

Beni comuni e bene comune

Per tutte queste ragioni occorre distinguere nettamente tra il concetto di “bene comune”, senza ulteriori determinazioni, e quello di “beni comuni”; che può anche essere declinato al singolare come bene comune, ma solo se riferito a entità specifiche e circoscritte, anche se globali e diffuse: come lo sono per esempio l’acqua, l’atmosfera, l’informazione, i saperi, la scuola, ecc. “Bene comune” rinvia a una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza. Il tema dei beni comuni rimanda invece al conflitto: contro l’appropriazione, o il tentativo di appropriarsi, di qualcosa che viene sottratto alla fruizione di una comunità di riferimento. Una comunità che non include mai tutti, perché si contrappone comunque a chi – singolo privato o articolazione dello Stato – da quel bene intende trarre vantaggi particolari, escludendone altri. In questa accezione il rapporto con i beni comuni comporta, sia nella rivendicazione che nell’esercizio di un diritto acquisito, forme di controllo diffuso e di partecipazione democratica alla loro gestione o ai relativi indirizzi che integrino le forme ormai sclerotizzate della democrazia rappresentativa.

Il concetto di “beni comuni” ha comunque relativamente poco a che fare con quello del “Comune” di cui scrivono Negri e Hardt. Questo “Comune” non è che l’ultima versione di una soggettivazione totalizzante del reale che nel corso del tempo ha attraversato, negli scritti di Negri, una successione di figure: Classe Operaia, “operaio massa”, “operaio sociale”, “moltitudine”, per approdare, per ora, al “Comune”. È un’entità autoreferenziale, che “gioca con se stessa”, producendo il proprio antagonista – la Classe Operaia “sviluppa” il Capitale; la moltitudine “crea” l’Impero, ecc. – per poi riassorbirlo in un movimento dialettico dall’esito precostituito. Le lotte per i beni comuni, invece, non hanno esiti certi e meno che mai predeterminati: anzi, il rischio a cui sono esposte – e insieme ad esse, coloro che se ne fanno protagonisti e l’umanità tutta – è di giorno in giorno maggiore.

La lotta contro l’appropriazione

Seguendo questo approccio, ci soffermeremo su alcuni nodi fondamentali che interessano tanto i processi di realizzazione quanto la rivendicazione di una gestione condivisa dei beni comuni:

1. La prima osservazione è questa: l’idea di una gestione condivisa dei beni comuni ha nel mondo contemporaneo una matrice libertaria, “di sinistra”, o addirittura di estrema sinistra. Ma la realizzazione della gestione condivisa non è né di destra né di sinistra: ad essa può partecipare chiunque, indipendentemente dai suoi orientamenti, e la gestione condivisa è per l’appunto un’arena dove le diverse ipotesi o soluzioni proposte si confrontano. Chi l’ha proposta e ha lottato per la sua affermazione può poi ritrovarsi in minoranza tra i soggetti che partecipano poi alla sua realizzazione;

2. A confronto avremo sempre e comunque una concezione processuale e una concezione statutaria del bene comune. La concezione statutaria punta a definire fin dall’inizio le regole della gestione e a promuovere sulla loro base la partecipazione; la concezione processuale punta invece innanzitutto al coinvolgimento di una platea quanto più ampia possibile dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione del bene, con una particolare attenzione a dare voce ai soggetti esclusi o marginali, contando che le regole di funzionamento si possano definire – e correggere – in corso d’opera. Nessuno di questi due approcci è valido a priori; vanno commisurati al contesto operativo e combinati sulla base degli esiti del processo, facendo comunque attenzione a che la rigidità delle regole non soffochi il processo di coinvolgimento, che non avviene mai secondo moduli prestabiliti;

3. Possiamo scandire il processo del coinvolgimento dei soggetti potenzialmente interessati alla gestione condivisa di un bene comune in tre stadi. L’ultimo, il più definito, è quello della democrazia deliberativa. Si decide secondo regole certe gli indirizzi da dare alla gestione del bene e questi, se il bene è formalmente di proprietà pubblica, devono essere fatti propri dall’autorità o dall’amministrazione competente, sotto il controllo dei soggetti che hanno preso parte alla deliberazione, e di altri che si possono aggiungere in seguito. Lo stadio intermedio è quello del confronto tra le diverse ipotesi e soluzioni proposte. La difficoltà è che non siamo abituali a farlo: secoli di espropriazione del potere deliberativo ci hanno resi intolleranti e incapaci di ricorrere all’arma della persuasione (la verifica più grottesca di questo dato sono, per chi ne ha esperienza, le assemblee condominiali). Da questo punto di vista la partecipazione a un processo di gestione condivisa di un bene – o anche solo della sua rivendicazione – è per tutti una scuola di democrazia e di tolleranza. Ma la prima fase è forse la più difficile: molti soggetti, improvvisamente coinvolti in un processo di partecipazione, e abituati a considerare la propria esclusione una condizione “naturale”, non riescono per un tempo più o meno lungo ad attenersi al tema: hanno bisogno di sfogarsi, di “vomitare” in pubblico le proprie frustrazioni, di sentirsi accolti e rispettati. Guai a considerare questa fase una perdita di tempo: è un prerequisito fondamentale della democrazia partecipativa;

4. La partecipazione di chi rivendica o cerca di attuare una gestione condivisa di un bene è, e nella società contemporanea resterà per lungo tempo, un processo conflittuale: uno scontro quotidiano e serrato contro chi aspira all’appropriazione privata o una gestione pubblica puramente amministrativa del bene, o la ha già realizzata, o la sostiene. I processi partecipativi sono per l’appunto il terreno dove si costruisce e si consolida la forza e l’organizzazione per opporsi a una gestione privata o escludente;

5. Nei processi partecipativi, e fino a che non è stato formalizzato e accettato un sistema di regole, non si vota: a partecipare non è mai la totalità dei soggetti interessati e chi partecipa non può pretendere di rappresentarli. Partecipa perché ha un’idea, un’esperienza, una competenza, un saper fare, da far valere e da mettere a disposizione degli altri. Se non si raggiunge il consenso di una larghissima maggioranza si dovrà riproporre il confronto a partire da una base più ampia: di carattere territoriale (coinvolgendo altri soggetti) o settoriale (introducendo nuove tematiche) in modo da scompaginare gli schieramenti precostituiti. Se l’accordo non viene comunque raggiunto si apre il conflitto: le diverse tesi in campo cercheranno di far valere le loro ragioni al di fuori del contesto partecipativo, fino a che la modificazione dei rapporti di forza non permetteranno di riaprire il confronto su basi diverse;

6. La democrazia partecipativa e la gestione condivisa dei beni comuni si costruiscono sui saperi (tecnici e sociali) diffusi tra la popolazione; ma sono al tempo stesso una scuola straordinaria per approfondire, promuovere e diffondere questi saperi;

7. La riappropriazione condivisa di un bene comune, anche del più generale e diffuso, come l’atmosfera – per preservarla dal sovraccarico di gas di serra – o la cultura – per renderla accessibile a tutti – è un processo che richiede e al tempo stesso promuove la “territorializzazione” dei processi; il riavvicinamento tra produzione e consumo, tra utenza e gestione. Certo questo processo non riguarda la mera informazione – i bit, che circolano liberamente su tutto il globo – ma riguarda gli atomi: la gestione concreta di risorse, impianti, strutture, istituzioni, spettacoli, ecc. La condivisione è tanto più forte quanto più è basata su rapporti diretti e relazioni di prossimità;

8. Al di là dell’acqua bene comune, oggi il terreno fondamentale dello scontro tra privatizzazione e gestione condivisa è costituita dai servizi pubblici locali. Costituire a livello territoriale (quartiere, circoscrizione, città, area vasta; ma anche condominio o compound) delle sedi dove gli indirizzi dei servizi pubblici locali vengano affrontati e discussi in una prospettiva di gestione condivisa è un’attività in cui tutti possono impegnarsi.

Fruizione e consumo condivisi

Le forme di fruizione condivisa di un bene comune, nella misura in cui riescono a imporsi come modalità organizzata di gestione dei beni e dei servizi prodotti, ribalta la gerarchia del comando, perché, attraverso la determinazione delle modalità di erogazione dei servizi e di fornitura dei beni, può arrivare a condizionare, in un processo di cooperazione allargato, anche le modalità in cui i beni e i servizi stessi vengono prodotti.

Fruizione condivisa è cosa del tutto differente da consumo di massa, che è quello attraverso cui una molteplicità – o una “moltitudine” – di individui viene coinvolta, ciascuno per conto suo, in forme di consumo esercitate congiuntamente. La motorizzazione di massa rappresenta forse il culmine del consumo individuale serializzato; il trasporto pubblico, soprattutto se personalizzato con servizi a domanda, o il car-sharing, sono invece forme di autorganizzazione dei consumatori che definiscono a loro volta le modalità di erogazione del servizio. Un concerto rock è una forma vistosa di consumo di massa; uno spettacolo teatrale costruito attraverso il coinvolgimento di attori, pubblico, personale tecnico, autori e registi, è una forma di cooperazione nella produzione che si traduce in consumo collettivo. La moda è la più evidente forma di consumo di massa nato dalla giustapposizione di scelte individuali imposte dall’esterno; i GAS, gruppi di acquisto solidale (o, in forma più mediata, il commercio equo e solidale) sono esempi importanti del recupero di una sovranità dei consumatori attraverso la cooperazione più o meno diretta con il mondo produttivo. Tendenzialmente, alcune di queste pratiche invertono i termini del problema: si produce quello che i consumatori chiedono, concordandolo tra loro e con i produttori, invece di consumare quello che produttori e distributori impongono.

Il consumo in forma condivisa ha costi di transazione molto elevati, perché richiede tempo e risorse, soprattutto cognitive, per raggiungere un punto di accordo tra i potenziali fruitori, e tra questi e uno, più, o tutti gli anelli della catena produttiva; ma si traduce per lo più in un risparmio di risorse, perché ne ottimizza l’uso ed esercita un controllo diretto per ridurre gli sprechi. Il consumo individuale ha costi di transazione apparentemente minori – il prodotto è lì, basta prenderlo e pagarlo – se non si includono tra questi i costi del marketing e della pubblicità, che fanno però parte del prodotto, perché concorrono alla definizione della sua immagine, della sua “aura”; così come il consumo condiviso definisce la natura di ciò che viene consumato – ma comporta la massimizzazione del consumo di risorse e degli sprechi per massimizzare le vendite e il profitto.

Questa osservazione confuta alla radice la tesi di Garrett Hardin sulla “Trageda dei Commons” secondo cui solo la proprietà privata – le enclosure – ha potuto salvare qualità e fertilità dei suoli, così come di tutti gli altri beni, che sottoposti a un uso condiviso sarebbero invece andati in rovina per sovrasfruttamento. La visione di Hardin è basata su una gestione privatistica e competitiva dei beni comuni che è un ossimoro, perché un bene in tanto è comune in quanto la sua gestione è sottoposta a un insieme di regole condivise finalizzate innanzitutto a preservarne e a potenziarne la qualità. Per esempio, i suoli e i boschi dell’Inghilterra oggetto di encolsure nel processo di accumulazione primitiva del capitale erano stati fino ad allora gestiti in comune dalle comunità di villaggio secondo regole che per secoli non ne avevano pregiudicato la produttività. Soltanto con l’affermarsi e la generalizzazione di una gestione privatistica e mercantile delle risorse anche ciò che restava di non giuridicamente appropriato è stato apposto a forme di utilizzo competitive che ne hanno causato una più o meno intensa rovina.

L’accento sui costi di transazione, che si traduce soprattutto in maggior impegno del fattore tempo, ci mette di fronte a una questione molto importante. Il consumo condiviso ci introduce a un universo basato sulla riappropriazione del nostro tempo; se ne deve dedicare meno al lavoro e agli impegni cosiddetti “sociali”, perché abbiano bisogno di averne di più per noi: per affrontare consapevolmente e risolvere i problemi che nascono dalla necessità di trovare – di negoziare – un punto di equilibrio tra interessi e valori che possono essere contrastanti. La lentezza riprende così gradualmente il sopravvento sulla fretta.

Beni comuni e lotta di classe

Ma a che cosa dobbiamo la rilevanza che il tema dei beni comuni ha assunto e sta sempre più assumendo nel discorso e nella prassi politica degli ultimi tempi? Per oltre due secoli, e tanto più quanto più la produzione di massa richiedeva la concentrazione intorno agli stessi impianti di un numero altissimo di addetti, le fabbriche e le coalizioni dei produttori – intesi come i lavoratori impegnati nella fabbricazione di un bene o nella erogazione di un servizio – sono state la sede privilegiata delle scelte collettive, e della ricomposizione di una nuova comunanza, di lotta, ma anche di cultura e di vita, di fronte all’atomizzazione, alla dispersione e alla frantumazione delle comunità tradizionali indotte dai meccanismi di mercato.

Oggi forse non è più così: l’evoluzione degli assetti produttivi (imprese a rete, delocalizzazioni e precarizzazione del lavoro) spingono verso una crescente polverizzazione e frantumazione delle concentrazioni produttive – anche se la permanenza dei precedenti assetti continua a esercitare un ruolo di primaria importanza – mentre la rivalutazione dei “beni comuni” come forma di fruizione condivisa del territorio, dei servizi, ma anche di alcuni beni di consumo irriducibilmente “individuali” come l’alimentazione, il vestiario o l’abitare, indica in questa riscoperta una – se non “la” – sede privilegiata di una ricomposizione della solidarietà e di una vita ricca di legami sociali. Uno spostamento del centro dell’attenzione dalle sedi della cooperazione produttiva nei luoghi di lavoro alle modalità di una fruizione collettiva dei beni e dei servizi prodotti induce a una riconsiderazione del ruolo del consumo nelle forme in cui si struttura l’organizzazione della società e nella definizione dei conflitti che la animano e la plasmano.

Il consumatore individuale non è mai sovrano, perché soggiace al potere incondizionato che l’impresa esercita sul mercato; e questa sua debolezza intrinseca è la fonte e la condizione stesse del dominio che l’impresa esercita anche sul mondo della produzione, cioè sulle forme della cooperazione sociale in cui si concretizza l’organizzazione del lavoro. Che rapporto passa allora tra il conflitto sociale che ha una delle sue leve nelle mobilitazioni per i beni comuni e la lotta di classe tra lavoro e capitale? La lotta di classe, come ancora recentemente ha ben documentato Luciano Gallino (se mai ce ne fosse stato bisogno), è ben viva e oramai estesa su tutto il pianeta. È soprattutto la lotta contro i lavoratori sferrata dal capitale finanziario, commerciale e industriale, a cui la globalizzazione ha messo in mano, oltre alle forme tradizionali di sfruttamento dei lavoratori dalla testa alle braccia, anche l’arma delle delocalizzazioni: per poter tagliare, dalle gambe in su, loro l’erba sotto i piedi in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. È difficile anche solo immaginare che i lavoratori di tutto il mondo possano ricostituire in tempi adeguati collegamenti, organizzazioni o reti sufficientemente estese per contrastare, al suo stesso livello, questo attacco globale.

Da tempo le lotte dei lavoratori hanno per lo più una dimensione ristretta, aziendale o di categoria, quando non di reparto; raramente nazionale e mai transnazionale. E anche quando assumono forme offensive, il che non succede spesso, difficilmente riescono, soprattutto nei paesi di consolidata industrializzazione come il nostro, a spuntare risultati che non siano di mero contenimento dell’aggressione alle proprie condizioni di lavoro, di reddito e di vita. Quella corsa al ribasso che costituisce la sostanza e il motore della globalizzazione liberista può essere fermata solo sottraendo il lavoro – a pezzi e bocconi – ai diktat di una competizione senza limiti: con un processo, o una serie di processi, di conversione ecologica del sistema produttivo che rimetta al centro, insieme alla sopravvivenza del pianeta, produzioni orientate alla soddisfazione dei bisogni basilari e al miglioramento delle forme di convivenza delle comunità di riferimento: cioè i beni comuni. Per questo il conflitto sociale per i beni comuni costituisce il supporto e lo sbocco indispensabile di un ripresa offensiva della lotta contro lo sfruttamento del lavoro.

Il rapporto con il territorio
Certamente, molte volte, l’istanza della difesa dei beni comuni sconfina e sembra confondersi con una difesa particolaristica del proprio “cortile” con quello a cui politici e commentatori affibbiano sprezzantemente l’etichetta “nimby”. Ma quel “cortile” si fa in realtà sempre più grande; a volte, come nel caso dell’acqua o dell’atmosfera, di dimensioni planetarie; e le ragioni di chi lo difende si dimostrano ogni giorno – valgano per tutti, in Italia, casi come quelli delle lotte contro il TAV Torino-Lione, il Mose di Venezia, il Ponte sullo stretto di Messina, o la base Usa di Vicenza – più serie, documentate, approfondite di quelle dei loro avversari, che sono contraddittorie, autolesioniste e soprattutto superficiali: “primato del mercato”; “modernizzazione”; “difesa dell’Occidente”; “rapporto con l’Europa”, ecc. E che servono soprattutto per mascherare interessi e accordi speculativi eincinfessabili.

La democrazia dal basso e lo spazio pubblico che si sono sviluppati in contesti come questi sono invece basati su, e corroborati da, una conoscenza dei problemi, dei costi e dei benefici delle soluzioni proposte, da una fiducia reciproca nelle proprie forze e nel proprio impegno che hanno le loro basi in una varietà d saperi tecnici e gestionali diffusi nel territorio e disseminati tra la popolazione. Le nuove forme di partecipazione – o le nuove rivendicazioni di partecipare – ai processi decisionali sono indisgiungibili dal “bene comune” conoscenza.

La difesa dei beni comuni allude così, e conduce, a un rapporto con le cose, con il mondo degli oggetti, con l’ambiente fisico in cui viviamo, meno strumentale, meno cinico, meno finalizzato a un mero funzionalismo (quello per cui una cosa, qualsiasi cosa, vale solo finché e in quanto ci serve, e poi va gettata via), per includere una dimensione affettiva, emotiva, estetica: dalla difesa del paesaggio alla lotta contro gli OGM e i cibi adulterati, dalla salvaguardia dei prodotti, dell’alimentazione, dei saperi e del saper fare tipici o tradizionali ai gruppi di acquisto solidali, dal recupero dell’usato alla promozione del riciclaggio. E’ questa una dimensione che le regole del mercato e del profitto hanno largamente espunto dal mondo e che costituisce invece una componente essenziale della salvaguardia della salute, nostra e altrui, di questa come delle future generazioni.

Beni comuni e “spazio pubblico”
Queste dimensioni sono tanto più presenti e consapevoli quanto più le iniziative hanno o partono da una dimensione locale, che si basa su una conoscenza articolata del territorio e su una rete consolidata di relazioni sociali – una “risorsa cognitiva” che i grandi progetti ignorano per vocazione, ma che costituisce una componente irrinunciabile di una progettualità sostenibile: “Pensare globalmente e agire localmente”.

A loro volta, le iniziative che si sviluppano a partire da una dimensione locale sono la fonte principale di creazione e di consolidamento di nuovi e più forti legami sociali: di comunità costruite e legittimate non dalla consuetudine o dalla tradizione, ma dalla condivisione di obiettivi e prospettive comuni. La lotta lunghissima degli abitanti della Val di Susa è l’esempio migliore di questa dimensione comunitaria costruita attraverso la prassi. Legame sociale significa spazio pubblico – anche fisico, cioè strade, viali, piazze, giardini sottratti all’invasione delle automobili – a disposizione per l’incontro, per il confronto, e anche per il conflitto tra soggetti diversi per genere, età, cultura, tradizioni, abitudini, ricchezza, ruoli professionali e sociali, idee: la base indispensabile del rispetto reciproco, che è la sostanza dei diritti umani e il presupposto irrinunciabile di una democrazia che non sia solo parvenza. La democrazia rappresentativa e i suoi istituti non sono più sufficienti a offrire soluzioni ai problemi della società perché le rappresentanze istituzionali non rappresentano più nessuno e si sono sclerotizzate in apparati che ricordano da presso la cosiddetta “nomenclatura” dei paesi del fu impero sovietico.

Se le prospettive di un’autogestione dei produttori sono tramontate per sempre, perché coinvolgono programmaticamente una parte sempre più ristretta della società, ma soprattutto perché rischiano continuamente di riprodurre nei rapporti reciproci tra le diverse entità autogestite i rapporti di competizione tipici del mercato, un’integrazione e un arricchimento dei meccanismi propri della democrazia formale non possono realizzarsi che attraverso processi negoziali – che non escludono e, anzi, presuppongono il conflitto, ma anche la sua temporanea conciliazione e una sua sempre rinnovata riproposizione – in cui le singole componenti, i cosiddetti stakeholder, possano valorizzare e far valere il patrimonio di esperienza e di competenze di cui sono portatori. E’ un percorso in divenire che non ha un punto di approdo perché la democrazia vive attraverso la sua pratica.





Guido Viale, da inchiestaonline.it
(12 novembre 2012)

giovedì 15 novembre 2012

Scommetti su Dio

Il diritto degli omosessuali a vivere serenamente, pubblicamente, la dimensione affettiva riguarda una minoranza trascurabile della società? Tra le statistiche ufficiali e le percentuali reali c'è sicuramente uno scarto. E i numeri, nelle questioni di civiltà, non sono decisivi. Anche se si trattasse di meno del 5 per cento della popolazione, sarebbe ugualmente importante l'impegno generale a salvaguardare la salute mentale, la dignità sociale e la qualità della vita di queste concittadine e di questi concittadini. Senza contare che l'omofobia è l'anticamera della misoginia o forse il rovescio della stessa medaglia.
Palermo è da anni all'avanguardia su questo fronte ed è sede di un festival annuale, Sicilia Queer Filmfest, che raduna artisti e intellettuali a vario titolo impegnati nella difficile battaglia civile. A fine ottobre ha avuto luogo un importante appuntamento, per così dire interlocutorio, fra l'ultima edizione del festival e la prossima. Al cinema De Seta dei Cantieri culturali della Zisa, aperto per l'occasione, è stato proiettato il docufilm Taking a chance on God (Scommetti su Dio, Usa 2012).
La singolarità dell'iniziativa (sottolineata dalla partecipazione al dibattito, dopo la proiezione, del regista Brendan Fay e di don Franco Barbero, della comunità di base di Pinerolo) sta nel tema del filmato: la vita del gesuita statunitense John McNeill. Sacerdote e teologo cattolico gay, pioniere per i diritti civili delle persone omosessuali nella società e nelle chiese e autore di opere rivoluzionarie di spiritualità per le persone omosessuali, impegnato nell'aiuto della comunità gay durante la crisi dell'Aids degli anni 80, rifiutò di essere messo a tacere sui temi dell'omosessualità dall'allora cardinale Ratzinger e perciò venne espulso dall'ordine dei Gesuiti. L'evento palermitano è stato replicato nei giorni seguenti a Catania.
Il riferimento alla teologia cattolica e alle posizioni ufficiali della chiesa non è certo casuale. Sappiamo quanta influenza abbiano le indicazioni etiche delle gerarchie ecclesiastiche nell'opinione pubblica, soprattutto quando non si tratta di rispettarle in prima persona, quanto di strumentalizzarle per stigmatizzare i comportamenti altrui. Non è un caso che il siciliano Alfredo Ormando, nel 1998, si sia lasciato bruciare vivo in piazza San Pietro in segno di protesta contro l'insegnamento vaticano (spesso smentito dalle abitudini sessuali di tanti preti e frati) che, come scrisse egli stesso a un amico, «demonizza l'omosessualità, demonizzando nel contempo la natura, perché l'omosessualità è sua figlia». Né è un caso che proprio a Palermo sia attiva da anni un'associazione (Ali d'aquila) che raccoglie omosessuali credenti desiderosi di sensibilizzare le comunità cristiane. Non molti i preti che hanno mostrato intelligente e fattiva solidarietà: tra questi don Cosimo Scordato, rettore di San Saverio, e don Franco Romano, parroco di San Gabriele. Più elastico l'atteggiamento di alcune chiese protestanti, come la valdese, in cui la prima benedizione in Italia di un matrimonio fra donne è stata celebrata a Trapani, dal giovane pastore Alessandro Esposito, poiché la maggioranza dei fedeli che frequentano le due comunità palermitane avevano espresso parere sfavorevole.
Il cammino che resta da percorrere non è né breve né privo di insidie. Sul piano teologico è facile dimostrare che la Bibbia non ha delle indicazioni vincolanti in ambito sessuale, ma questioni del genere vengono di solito affrontate più con la pancia che con la testa. E, a livello viscerale, si preferisce conservare alcuni pregiudizi culturali, rafforzati dalla medicina tradizionale e dalla stessa psicoanalisi freudiana, che rivedere i propri parametri di giudizio. Soprattutto per due ragioni. La prima riguarda il fondamento etico di ogni relazione sessuale, l'amore vissuto come riconoscimento reciproco e impegno per la gioia del partner: se questo criterio diventasse qualificante, quante relazioni eterosessuali rivelerebbero inconsistenza e ipocrisia? La seconda ragione riguarda la diversità statistica della persona omofila: come ogni altra "diversità" inquieta, mette in crisi la confortante certezza di essere "normali" ed esonera dalla fatica di aprirsi alla varietà della natura e della storia.
Sia chiaro che non è necessario abbracciare nessuna esaltazione retorica della opzione omo-affettiva né, tanto meno, farne una bandiera di contestazione del sistema borghese. Su questioni del genere è del tutto ovvio che si possano legittimamente coltivare idee, perplessità, argomentazioni di segno opposto. Non opinabile è solo ciò che i padri costituenti, fino a revisione della Carta, hanno sancito solennemente, tranciando alla radice ogni forma di fanatismo ideologico e di bigottismo pratico: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
 
Augusto Cavadi da Cronache laiche,
il quotidiano. Laico per vocazione

martedì 13 novembre 2012

Uno scritto di Zagrebelsky per LeG

PER UNA STAGIONE COSTITUZIONALE
NON PAROLE VUOTE MA ATTI DI CONTRIZIONE

Libertà e Giustizia non è un partito politico, ma un’associazione di cultura politica, ispirata ai due principi indicati nella sua stessa denominazione. Il suo metodo è la ragione applicata ai fatti. Allontaniamoci, allora, un poco dai particolari della cronaca politica quotidiana e cerchiamo di intravedere l’insieme dei fatti per ricavarne linee di pensiero e d’azione.
IDEE-FATTI
Nella vita politica d’insieme, le idee, le percezioni, le illusioni e le indignazioni che contano non sono necessariamente quelle veritiere. Sono quelle che permeano le coscienze, fanno senso comune e muovono i comportamenti dei grandi numeri, vere o false che siano. In ogni caso, sono semplificazioni e, proprio per questo, sono efficaci. Poiché sono efficaci, esse sono, per l’appunto, “fatti”, non effimere impressioni che passano da sé.
a. La prima idea-fatto – inutile dirlo – si esprime con la parola “casta”: giri intrecciati di potere politico, burocratico, economico e finanziario che si auto-alimentano per nepotismo e cooptazione, in base a patti di protezione e fedeltà; potere per il potere, inamovibile, spesso occulto e illegale; disuguaglianze crescenti tra chi sta dentro e chi fuori, chi sopra e chi sotto; privilegi e stili di vita incomparabili; ricchezza crescente e povertà dilagante. Una grande divisione sociale, per la quale, un tempo, fu coniata l’espressione “razza padrona”. La lotta di classe di un tempo pare diventare, o già essere diventata lotta di casta, e a parti invertite: non degli sfruttati contro gli sfruttatori, ma degli sfruttatori contro gli sfruttati. Forse, ancora non si percepisce la dimensione globale di questa immensa ingiustizia, rispetto alla quale gli abusi, le corruttele, i furti di casa nostra, per quanto insopportabili, sono quisquilie. Quando si percepirà, cioè si farà strada l’idea, la reazione sarà la restaurazione delle piccole patrie, delle piccole comunità, come rifugi al tempo stesso protettivi e aggressivi: una vecchia storia.
b. La seconda idea-fatto è l’identificazione del potere che s’è detto sopra con le Istituzioni. La politica moderna si basa sulla distinzione tra le Istituzioni e coloro che le impersonano e le servono. L’idea odierna è il rovesciamento: coloro che stanno nelle istituzioni se ne servono. In tal modo, ogni degenerazione dei primi viene percepita come vizio delle seconde. I corrotti, gli insipienti, i dilettanti, gli arroganti, ecc. che operano nelle istituzioni non sono solo cattivi soggetti per sé stessi, ma lo sono anche di più per le Istituzioni democratiche. Nessuna azione antidemocratica è più efficace della corruzione e della propaganda che si basa su di essa. Anche questa è una vecchia storia.
c. La terza idea-fatto è che tutto s’equivale e che “sono tutti uguali”. Di conseguenza, non c’è nulla di possibile e nessuno di cui ci si possa fidare. Tanto vale, allora, starsene a guardare, sperando nella palingenesi, cioè nel crollo della politica e delle sue istituzioni e nell’apparizione di qualcuno che faccia piazza pulita. Che questa prospettiva esista e possa diventare persino maggioritaria è il crimine maggiore che dobbiamo imputare alla generazione che è la nostra. Di nuovo, ci appaiono i fantasmi d’una vecchia storia che si deve sapere dove porta.

LE RISPOSTE VUOTE
Queste generalizzazioni sono sbagliate. Sono anzi trappole pericolose. Ma sono fatti. Come le vediamo contrastare? Con vuote banalità e con azioni controproducenti. La prima banalità è l’accusa di antipolitica, che evita di fare i conti con le ragioni che allontanano dalla politica e si presta, contro chi la pronuncia, a essere ritorta con la stessa, se non con maggiore forza. Chi è, infatti, il vero antipolitico? La domanda è a risposta aperta. Non serve a nulla l’anatema. Serve solo la buona politica. Non bastano le parole, quelle parole che si possono pronunciare a basso costo; parole banali anch’esse, che non vogliono dire nulla perché non si potrebbe che essere d’accordo. Nella politica, che è il luogo delle scelte e delle responsabilità, dovrebbe valere la regola: tutte le parole che dicono ciò che non può che essere così, sono vietate. Non vogliono dire nulla riforme, moralità, rinnovamento, innovazione, merito, coesione, condivisione, giovani, generazioni future, ecc.: vuota retorica del nostro tempo che tanto più si gonfia di “valori”, tanto più è povera di contenuti. Chi mai direbbe d’essere contro queste belle cose?

COME USCIRNE
1) ATTI DI CONTRIZIONE E SEGNI DI DISCONTINUITA’
Alle vuote parole che non costano niente, corrispondono azioni e omissioni nefaste, anzi suicide. Si scoprono ora (!) ruberie, inimmaginabili nel mondo normale, e s’invoca subito una legge sui partiti e sul controllo dei flussi di denaro che arrivano loro: una legge che non si farà. Si scopre ora (!) che la corruzione dilaga e si fa una legge-manifesto che, anche a dire di quelli che, all’inizio, l’hanno appoggiata, servirà poco o nulla. Ci si accorge ora (!) che gli organi elettivi sono pieni di gente impresentabile e si prepara una legge sulle candidature. Leggi, sempre leggi, destinate a non farsi o, se fatte, a essere svuotate. Ma nessuno obbliga a rubare, a corrompere e farsi corrompere, promuovere candidati senza qualità o con ben note “qualità”. I cattivi costumi si combattono con buoni costumi. Le leggi servono a colpire le devianze, ma nulla possono quando la devianza s’è fatta normalità. Prima di cambiare le leggi, occorre cambiare se stessi e, per cambiare se stessi, non occorre alcuna legge. Per chiedere rinnovata fiducia, occorrono ATTI DI CONTRIZIONE, segni concreti di discontinuità, non “segnali”, come si dice per dissimulare l’inganno.
Non è un segno, ma un segnale, per di più autolesionistico, la legge elettorale che è in gestazione. Mai più al voto con la legge attuale, s’era detto. Impedito il referendum da un’improvvida sentenza della Corte costituzionale, il problema della riforma è passato al Parlamento, cioè a chi ha da sperare vantaggi o temere svantaggi. Ci voleva poco a capire che, in prossimità delle elezioni, sondaggi alla mano, tutto sarebbe dipeso da calcoli interessati e poco o nulla da buone ragioni di giustizia elettorale. Non c’è bisogno di apprenderlo dal “Codice di buona condotta in materia elettorale” (§§ 65 e 66), che contiene il “minimo etico” segnalato agli Stati dal Consiglio d’Europa nel 2002. Lo comprendiamo da soli. Comprendiamo che la nuova legge elettorale, se ci sarà, dipenderà dagli interessi dei partiti, non degli elettori che vi troveranno ulteriori ragioni di distacco o di rabbia. La riforma, che avrebbe dovuto servire a riavvicinare eletti ed elettori, allargherà la distanza. Si persevera, invece, tentando di ritagliarsi comunque un posto o un posticino che conti qualcosa, in una barca che rischia di andare a fondo con quelli che ci sono dentro. Si pensa che non ce ne si accorga? e che ciò non porti altra acqua a chi vuol affondarla? Che insipienza!

 2) UNA STAGIONE COSTITUZIONALE PER VIVERE IN LIBERTA’ E GIUSTIZIA
Dove appoggiarsi per uscire dal pantano, per suscitare coraggio, energie, entusiasmo, in un momento di depressione politica come quello che viviamo? Dove trovare l’ideale d’una società giusta, che meriti che si mettano da parte gli egoismi e i privilegi particolari, che ci renda possibile intravedere una società in cui noi, i nostri figli e i figli dei nostri figli, si possa vivere in libertà e in giustizia? È sorprendente che non si pensi che questo ideale, questo punto d’appoggio c’è, ed è la COSTITUZIONE. Ed è sorprendente che si sia chiuso in una parentesi quel referendum del giugno 2006 in cui quasi sedici milioni di cittadini si sono espressi a sostegno dei suoi principi. Altrettanto sorprendente è che non si dia significato – forse perché non se ne ha nemmeno sentore – all’entusiasmo che accoglie, tra i giovani soprattutto, ogni discorso sulla Costituzione, sul suo significato storico e sul suo valore politico e civile. Non c’è qui una grande forza che attende d’essere interpellata per cambiare la società?
Non è paradossale che ci si volga indietro per guardare avanti. Le difficoltà in cui ci troviamo non derivano dalla Costituzione, ma dall’ignoranza, dal maltrattamento, dall’abuso, talora dalla violazione che di essa si sono fatti. Eppure lì si trova almeno la traccia della risposta ai nostri maggiori problemi. Il LAVORO come diritto a fondamento della vita sociale, e non la rendita finanziaria e speculativa; i DIRITTI CIVILI e non le ipoteche confessionali e ideologiche sulle scelte ultime della vita; l’UGUAGLIANZA di fronte alla legge e non i privilegi castali, anche per vincere contro tutte le mafie; l’impegno a promuovere politiche di EQUITA’ SOCIALE E FISCALE e non l’autorizzazione a gravare sui più deboli per risolvere i problemi dei più forti; la garanzia dei SERVIZI SOCIALI e non la volontà di ridurli o sopprimerli; la SALUTE come diritto e non come privilegio; l’ISTRUZIONE attraverso la scuola pubblica aperta a tutti e non i favoritismi alla scuola privata; la CULTURA, i BENI CULTURALI, la NATURA come patrimonio a disposizione di tutti, sottratti agli interessi politici e alla speculazione privata. Ancora: l’INFORMAZIONE come diritto dei cittadini a essere informati e dei giornalisti a informare; la POLITICA come autonomo discorso sui fini e non come affare separato di professionisti o tecnici esecutivi; la partecipazione all’EUROPA come via che porti alla pace e alla giustizia tra le nazioni, a più libertà e più democrazia, non più burocrazia e meno libertà. In generale, nella Costituzione troviamo la politica, il bene pubblico che più, oggi, scarseggia.
Come da trent’anni e più a questa parte, si ripete la stanca litania della prossima stagione come “stagione costituente”. Costituente di che cosa? Volete dire, di grazia, che cosa volete costituire? E credete con questa formula di ottenere consensi, tra cui i nostri consensi? Non viene in mente a nessuno che il nostro Paese avrebbe bisogno, piuttosto, di una “STAGIONE COSTITUZIONALE” e che chi facesse sua questa parola d’ordine compirebbe un atto che metterebbe in moto fatti, a loro volta produttivi d’idee, anzi d’ideali?

Gustavo Zagrebelsky

venerdì 9 novembre 2012

Armi, ancora armi: il Senato approva


Un F-35 in volo. Foto Reuters.

«Perché si sono definiti precisi obiettivi di riduzione del personale militare e civile senza definire la revisione di nessuno dei 71 programmi di armamento avviati da dieci anni?»

Flavio Lotti,
coordinatore nazionale della Tavola della pace
07/11/2012

Meno dipendenti, più F-35: il Senato approva. Ieri pomeriggio l'assemblea di Palazzo Madama ha autorizzato i generali a tagliare i posti di lavoro nel settore della Difesa per comprare i tanto discussi aerei.
In un’aula particolarmente rumorosa e disinteressata, 252 senatori contro 12 hanno approvato una legge che affida al prossimo Governo il potere di riorganizzare le Forze armate.  Intervenendo nel dibattito, il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, ha ribadito che si tratta di una semplice «revisione in senso riduttivo» e non di un nuovo modello di difesa. Infatti, nonostante tutto quello che sta succedendo nel mondo, questa “riforma” è stata fatta proprio con l’obiettivo che nulla cambi. I vertici militari di questo nostro Paese vogliono continuare a comprare armi sempre più moderne e sofisticate e siccome sono costosissime e non ci sono più soldi, tagliano il personale.

Così, invece di approfittare della crisi finanziaria per fare una vera riforma motivata da una coerente analisi geopolitica e dalla definizione del ruolo dell’Italia, il Senato ha preferito cedere. Per altri 12 anni continueremo a buttare un sacco di soldi (stime attendibili parlano di un totale di circa 230 miliardi di euro) per tenere in piedi un apparato militare un po’ più piccolo ma ugualmente anacronistico. Il Paese non ce la fa più, milioni di persone e di famiglie non ce la fanno più, si tagliano i servizi alla persona e agli enti locali che li devono fornire ma i soldi per comprare armi  non mancheranno.
Non stiamo parlando di armi qualsiasi. Parliamo degli F-35, parliamo di armi da guerra ad alta intensità che nulla hanno a che fare con l’articolo 11 della nostra Costituzione e men che meno con le missioni di pace a cui potremmo partecipare nel rispetto della Carta delle Nazioni unite. Ma chi l’ha detto che l’Italia ha davvero bisogno di quelle armi? Chi e quando ha stabilito che ci dobbiamo organizzare per andare a fare la guerra in giro per il mondo? E visto che gli italiani sono sempre meno propensi a farsi coinvolgere in altre guerre, che senso ha buttare tutti questi soldi in armi? E ancora: perché si sono definiti precisi obiettivi di riduzione del personale militare e civile e non si è definita la revisione di nessuno dei 71 programmi di armamento avviati da dieci anni a questa parte?

L’ammiraglio Di Paola ringrazia i senatori con ironia: «Mi auguro che, nella prossima legislatura, scriviate un bel Libro Bianco sulla Difesa. Ne avete parlato tante volte ma non l’avete mai fatto. Intanto noi andiamo avanti». Una senatrice del Pd applaude entusiasta ma un suo collega gli ricorda che da che mondo è mondo si fa il contrario: prima si definiscono le linee politiche della riforma e poi il piano attuativo.

Il Senato cede al potere straripante della lobby militare-industriale ma i giochi non sono affatto conclusi. Ora il provvedimento dovrà andare alla Camera e il dibattito dovrà essere riaperto. C’è spazio per un serio e ragionevole ripensamento.  


giovedì 1 novembre 2012

C’ERA UNA VOLTA...

Desidero raccontarvi una storia, senza lieto fine.

Sono nata nel 1907 nella bella città di Torino, generata dal mio Municipio che mi ha chiamata
Azienda Elettrica Municipale di Torino
Avevo il compito di distribuire energia elettrica per i servizi pubblici, per le utenze civili e industriali nel mio territorio comunale, ho realizzato parecchie centrali elettriche per dare a tutti la possibilità di avere luce e sostituire ... i lumi a petrolio e sono arrivata persino ad occuparmi di teleriscaldamento e nel 1988 il mio Municipio mi ha cambiato il nome in Azienda Energetica Municipale.

La mia vita trascorreva serenamente, impegnata in nuovi progetti, mi trovavo bene nell’ essere “servizio pubblico”, rispondevo al mio municipio, al susseguirsi dei suoi amministratori e di conseguenza ai cittadini di Torino.

Ma nel 1990 un “orco cattivo” (l’art. 22 della Legge 142) elimina dal diritto italiano l’Azienda Pubblica o Municipalizzata e introduce l’Azienda Speciale. Poi un altro “orco” (Legge 127 del 1997) introduce anche la Società per Azioni, come alternativa all’Azienda Speciale.

Nel marasma e nelle incertezze sul mio destino, mi sono un po’ documentata:
  •     L’azienda speciale è un ente di diritto pubblico, diverso dal Comune da cui però dipende funzionalmente. É in sostanza strumentale all’Ente Locale, nel perseguimento del pubblico interesse ( la distribuzione di energia). Al Comune competono gli indirizzi, gli obbiettivi, la vigilanza, etc. etc. Questa soluzione mi piaceva, trovavo un filo di continuità con il mio passato.
  •     Per saperne di più sulle SPA chiedo ad un mio amico avvocato, e mi spiega che lo scopo tipico delle Società è quello delineato dall’articolo 2247 del codice civile, solitamente detto “scopo di lucro”, che consiste nel destinare ai soci gli utili ricavati dall’attività economica oggetto della società stessa.
Alcuni lavoratori avevano capito l’antifona: cosa c’entravamo noi che fino ad allora svolgevamo un servizio di pubblico interesse, senza scopi di lucro, con gli utili di una Spa?
A poco sono servite le loro rimostranze. Ormai ero affascinata dalle magnifiche sorti e progressive dei nuovi assetti che tutti intorno a me prospettavano, dalle luccicanti chance che il futuro prometteva.

Nel 1997 venivo trasformata in Società per Azioni con la nuova denominazione Azienda Energetica Metropolitana Torino Spa “AEM Torino”, con il conferimento di tutte le mie attività. Nel nuovo “contenitore” divento di proprietà degli “azionisti” (più azioni detengono maggiore è il controllo che hanno su di me). Vero è che lo statuto della Spa citava: “possono detenere azioni il Comune di Torino, altri soggetti pubblici o privati, il Comune di Torino deve detenere un numero di azioni non inferiore al 51% del capitale sociale.

Via via mi sentivo smarrita, mi mancava il mio Municipio che non incontravo più se non all’assemblea degli azionisti per la distribuzione dei dividendi e non sentivo più la gratitudine dei cittadini per il mio lavoro. Il Municipio aveva affidato al Consiglio di Amministrazione della Spa e ad un certo AD (amministratore delegato) le funzioni che prima gli erano proprie.

Con tristezza mi sono adattata alla nuova situazione, ma le sorprese non erano finite. Nell'anno 2000 il I° BOTTO: vengo quotata in BORSA! (è il luogo dove venditori – IO – e acquirenti – IL MERCATO – negoziano valori, valute servizi e merci con il fine di reperire risorse finanziarie). A quel punto ero in balia del Mercato, delle Banche, delle Assicurazioni e rimaneva il legame con il mio Municipio per il 68% circa, ma Lui non si occupava più di me, non sapeva cosa facessi e come lo facessi, se garantivo ancora un buon servizio ai suoi cittadini, a tariffe contenute, insomma esistevo solo e quando gli distribuivo dei dividendi.

Da allora la situazione è andata di male in peggio. Nel 2006 ho accolto (per incorporazione) la mia sorella AMGA di Genova e ci hanno battezzato con un nome poetico, IRIDE SpA , che doveva dare l’illusione di un collegamento tra le città di Genova e Torino, ma sia io che la mia sorella AMGA eravamo sempre più lontane dai pensieri dei nostri municipi e dai bisogni dei nostri cittadini.

Ma non era ancora finita nel 2010 incontriamo Enìa Spa che aveva già “risucchiato” tre care ex Aziende Municipalizzate Emiliane, e arriva il BOTTO FINALE: dal I° luglio 2010 diventiamo
tutte IREN SPA con sede a Reggio Emilia e i nostri azionisti/padroni diventano:
 

*Gli azionisti di FSU sono il Comune di Torino al 50% e il Comune di Genova al 50%

Storia come dicevo all’inizio, senza lieto fine.
Quando il mio Municipio mi teneva stretta a sé, lo ricambiavo con fior di milioni di utili. Da quando mi ha gettata in balia del mercato, sono prigioniera di una desolante ma costosissima “scatola” finanziaria di nome Finanziaria Sviluppo Utilities srl, acronimo FSU, che accumula debiti al punto che nel 2011 ha dovuto svalutare il capitale di ben 257 milioni di euro. Ma i torinesi non ne sanno niente!!!

Ho raccontato la mia storia, perché mi giungono voci che un'altra sorella Bene Comune su cui hanno posato gli occhi corre il rischio di entrare nel nostro “harem”. Si tratta di una sorella che garantisce al cittadini della provincia di Torino un bene essenziale, l’Acqua.

Si chiama SMAT Spa e si trova nella fase della mia prima trasformazione ma Lei ha dalla sua parte 383.651 torinesi più altri centinaia di migliaia, in tutto 26 milioni di cittadini italiani, che con il referendum del 12 e 13 giugno 2011 hanno proclamato, che la gestione dell’acqua deve tornare pubblica, vicina ai propri cittadini, gestita democraticamente e non dalle società finanziarie.

SORELLA SMAT SCRIVI UNA STORIA A LIETO FINE
FUORI L’ACQUA DAL MERCATO, FUORI IL MERCATO DALL’ACQUA