giovedì 25 ottobre 2012

ICE per l'acqua pubblica

Iniziativa dei cittadini Europei per l'Acqua Pubblica

La battaglia per l'acqua bene comune continua e, ancora una volta, abbiamo bisogno del vostro supporto.

Così come in Italia, in molti paesi europei l'acqua non è considerata un diritto ma una merce da vendere e comprare.

Finalmente, però, è possibile sottoscrivere un proposta di iniziativa europea perché le risorse idriche siano messe fuori dal mercato e dai processi di privatizzazione in tutti i paesi europei.

In che modo? Attraverso il nuovo strumento legislativo di democrazia diretta dell'ICE (iniziativa dei cittadini europei). Per presentare un'ICE servono un milione di firme da almeno sette paesi dell'unione.
Come si fa a sottoscrivere? Per avere più informazioni vai su www.acquapubblica.eu, oppure clicca qui per firmare direttamente, è semplicissimo e bastano pochi minuti.


Firma e fai firmare per l'acqua diritto umano universale, inoltra questa mail ai tuoi amici, ai tuoi colleghi, ai tuoi conoscenti. Condividi il testo di questa mail e il video Youtube su Facebook, Twitter e Google+.

Scegli di essere parte delle decisioni. Scegli per l'acqua diritto umano universale. In Italia e in Europa.

Grazie,
Forum Italiano dei Movimenti per L'Acqua
FP-CGIL

Anche in italia parte la raccolta firme

simboloICEÈ partita in  Italia la raccolta delle firme online dell’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) per l’acqua pubblica. Clicca qui per firmare l'ICE - Acqua bene comune
Leggi qui che cos'è l'ICE
Leggi il testo della petizione
Guarda il video
L’iniziativa dei cittadini europei è un nuovo strumento introdotto dal Trattato di Lisbona ed entrato in vigore ad aprile del 2012. Esso consente ai cittadini ed alle organizzazioni della società civile di proporre alla Commissione Europea un’iniziativa legislativa.
Devono essere raccolte un milione di firme in almeno sette paesi dell’Unione Europea nell’arco di 12 mesi. Lo strumento di democrazia diretta riveste fondamentale importanza in un momento in cui l’acqua continua a essere privatizzata e mercificata, nonostante le Nazioni Unite l’abbiano dichiarata un diritto umano universale.
Dal sito web si può scaricare il video e i materiali da diffondere in rete su come è strutturata l’iniziativa e su quali sono gli obiettivi da raggiungere, nonché tutti gli aggiornamenti e le news in proposito.
È importante utilizzare questo strumento per rafforzare l’azione comune del Movimento Europeo per l’Acqua e per portare in Europa la voce dei 27 milioni di italiani che il 12 e 13 giugno hanno votato per la gestione pubblica del servizio idrico.

Potere politico e potere civile



di Pierpaolo Donati (Università di Bologna)
Contributo alla Tavola Rotonda “Politica e Poteri
Settimane Sociali, Sabato 9 ottobre 2004

1. Il potere politico e quello civile, nella tradizione occidentale che risale ad Aristotele, coincidono. Molti ancora usano questi termini in modo intercambiabile. Il mondo moderno, però, li ha distinti e poi li ha differenziati sempre di più. Benché ancora molti parlino di potere civile riferendosi allo Stato o comunque ai potere pubblici dello Stato, questo modo di parlare dei poteri non coglie più la realtà. E tuttavia non si può non domandarsi: se il politico e il civile si distinguono fino a separarsi, che cosa succede? In questo intervento, Donati sostiene la tesi che occorre modificare completamente il modo di intendere la politica (il potere politico) e il civile (i poteri civili), non per separarli, ma per stabilire nuove relazioni a distanza e di reciprocità, che hanno come loro perno una modificazione dei modo di intendere le costituzioni politiche e le costituzioni civili.

2. In Italia come altrove, da alcuni anni, molti si appellano alla società civile, ne invocano un maggiore influsso sulla politica, reclamano nuovi poteri detti di società civile. Il centro-destra è andato al governo appellandosi alla società civile contro lo statalismo. Il centro-sinistra invoca i nuovi movimenti sociali come espressione di una società civile capace di ribaltare le sorti elettorali della coalizione e farle prendere il potere politico. E allora tutti si chiedono: che cos’è la società civile? da che parte sta? quale politica sostiene? quali poteri rappresenta? come li fa valere rispetto agli altri poteri?

Se lo chiede, in particolar modo, il mondo cattolico, che – fin dalle prime edizioni delle Settimane Sociali, e poi per tradizione storica e continua rielaborazione culturale – ha sempre fatto della società civile il suo punto di forza per la legittimazione e il rinnovamento della politica. In questo intervento, si cerca di fare qualche chiarezza su questi interrogativi, in un momento storico in cui i vecchi schemi del passato non servono più (P. Donati, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Editrice Ave, Roma, 1997).
L’idea di società civile è notoriamente assai controversa. In un certo senso, il termine “società civile” sic et simpliciter è diventato del tutto confusivo. Risulta impraticabile e anche fuorviante specie quando lo si voglia “materializzare” in questo o quel soggetto sociale, in questo o quel movimento o istituzione. Di fatto, il termine è stato impiegato, da Aristotele ad oggi, in modi assai diversi e perfino opposti. Per uscire da questi equivoci occorre compiere tre passaggi preliminari. Il primo è quello di specificare la semantica che si sta utilizzando. Il secondo è precisare a quale contesto sociale e storico ci si riferisce. Il terzo è cercare delle evidenze empiriche che precisino il significato a cui si fa riferimento e ne verifichino, per così dire, la valenza pratica (su questi punti si rimanda a P. Donati, La società civile in Italia, Mondadori, Milano, 1997; P. Donati, I. Colozzi, Generare “il civile”: nuove esperienze nella società italiana, il Mulino, Bologna, 2001). Ma più decisiva ancora è la elaborazione di una “teoria del civile” adeguata al secolo XXI in cui siamo entrati.

3. Se ci si chiede come le culture esistenti in Italia pensino la società civile, in linea teorica ed empirica (P. Donati, I. Colozzi, La cultura civile in Italia: fra stato, mercato e privato sociale, il Mulino, Bologna, 2002) possiamo trovare tre posizioni:
a. c’è chi pensa la società civile come un’entità fatta di individui e solo da individui, “per natura” liberi, coscienti e responsabili (non c’è nulla che stia «fra» loro che non sia voluto da loro stessi); questa cultura semplicemente non pensa le relazioni sociali: possiamo chiamarla del liberalismo, come orientamento e atteggiamento di fondo di una cultura;
b. c’è chi pensa la società civile come entità fatta di individui mediati dallo Stato (ciò che «sta fra» gli individui è la comunità politica organizzata in Stato, al quale compete la migliore e più ampia legislazione possibile come via di risoluzione dei problemi sociali); si suppone che la relazione privata sia particolaristica, per non dire egoistica, per definizione; possiamo chiamare questa cultura come statalistica, perché - in ultima istanza - riporta sempre l’individuazione e la risoluzione dei problemi allo Stato;
c. c’è chi pensa la società civile come insieme di individui (persone) che stanno in relazione fra loro e sono agenti responsabili di ciò che avviene, ma che pure trascende le loro forze di singoli individui (ciò che «sta fra» gli individui sono relazioni che essi stessi agiscono, ma che dipendono dalla comunità in cui vivono, essendo la comunità un fatto culturale prima che politico); qui l’accento è posto su come configurare le relazioni fra gli individui in modo autonomo sia rispetto allo Stato sia rispetto al mercato, senza negare queste importanti istituzioni, ma neppure farsi mediare in toto da esse; l’enfasi è sulle autonomie sociali delle organizzazioni che non dipendono né dallo Stato né dal mercato, che non sono particolaristiche ma di solidarietà aperta alla comunità intorno e al bene comune di chi vi partecipa; possiamo chiamare questa cultura come associativa, o delle soggettività sociali.
Il punto da sottolineare è il fatto che l’associazionismo di società civile in Italia non mostra una coscienza civile veramente profonda e distintiva di sé. Il fenomeno associativo ruota principalmente intorno all’area degli interessi (è una realtà in gran parte «economica» in senso analitico, cioè di utilità) o dell’identità politica del cittadino (che rimanda alle appartenenze partitiche e vede le associazioni come realtà dipendente dallo Stato).
Quando parliamo, in Italia, della cultura della società civile dobbiamo senza dubbio intendere che essa è basicamente tripartita (nelle tre culture del mercato, della società politica e del mondo associativo). Trova certamente un pilastro in nella cultura del privato sociale, in quanto distinta dalla cultura mercantile e da quella pubblico-statalista (P. Donati, I. Colozzi, Il privato sociale che emerge: realtà e dilemmi, il Mulino, Bologna, 2004). Dunque, una cultura del civile come cultura delle relazioni prosociali non mercantili e non politicizzate esiste. Ma non appartiene esclusivamente al mondo associativo. Il fatto di essere associati risulta discriminante per la cultura civile del privato sociale solamente in certe dimensioni, in particolare quelle che la differenziano dal privatismo mercantile (ma non rispetto alla solidarietà che si identifica nella cittadinanza statuale). Il che significa che l’associazionismo è in minima parte fonte di società civile nel senso specificatamente associazionale del termine, mentre l’associazionismo sociale sostiene prioritariamente la cultura del civile che mette capo allo Stato, distinguendosi decisamente dall’altra cultura del civile, quella che mette capo ai soggetti associativi di mercato.
Possiamo dunque dire che le organizzazioni civili entrano nella sfera pubblica con un grado di autonomia piuttosto scarso. Così, si spiega perché la sfera pubblica rimanga un’arena assai indeterminata, dove il concetto stesso di «pubblico» è quanto mai incerto, ibrido, e tale da sfumare all’orizzonte. Pubblico non è certamente solo e soltanto ciò che appartiene allo Stato e ai suoi apparati, ma anche la sfera dove si incontrano i soggetti associativi di società civile. Però, per il fatto di includere anche le realtà associative, la società civile non si colora di toni diversi: rimane quella che è definita dallo Stato, in quanto sistema politico-amministrativo che eroga benefici a coloro che dovrebbero essere cittadini-soggetti, ma che in realtà sono soltanto cittadini-destinatari di benefici più o meno discrezionali e clientelari.
Le culture del civile sono certamente plurali, in quanto usano semantiche differenti su punti qualificanti, cioè su valori e simboli ultimi, che le distinguono chiaramente. Il loro minimo comune denominatore sta in un’idea abbastanza vaga di «civicità» degli attori, che include il senso civico (non fare ciò che può causare danno agli altri) e, come espressione di questo, il rispetto delle leggi. Ma tale comune denominatore è debole quando si passa dal piano del “buon cittadino” al piano delle convergenze su valori e «simboli ultimi». La società civile che si esprime attraverso questi ultimi non solo appare frammentata, ma anche debole in termini di capacità di civilizzazione. Prevale il codice politico, dunque la società civile come luogo di una «cultura democratica» che consiste nella volontà di garantire le libertà private ai cittadini e nello stesso tempo controllarli perché ciò avvenga per tutti in maniera uguale. Per tale codice simbolico, la democrazia non è molto di più di una scatola vuota quanto alle scelte di valore.
In una prospettiva temporale di lungo termine, c’è il rischio che anche le tradizioni culturali che finora hanno sostenuto la cultura del civile in Italia, a partire dal suo nucleo più semplice, quello del civismo (come agire civico), vadano deperendo senza che una nuova cultura del civile le rimpiazzi. Non sembra che i responsabili istituzionali del sistema politico, e tantomeno il mercato, siano consapevoli di questa deriva e delle sue possibili implicazioni. Quando ne prendono una larvata coscienza, non sembra che se ne preoccupino più di tanto. Dopotutto, per loro, la cultura del civile non è nient’altro che l’uso del privato sociale per compensare i fallimenti dello Stato e del mercato, rafforzando soprattutto il primo come garante hobbesiano dell’ordine sociale.
La stragrande maggioranza dei cittadini mostra, in effetti, un grande attaccamento al particolare, inteso come interesse individualistico e di piccoli gruppi di lealtà «locali» (sia territoriali, sia relazionali), soprattutto economiche. Non è l’individualismo anomico che prevale, ma l’individualismo delle lealtà a corto raggio. Con precise differenze, però: una parte chiede che il proprio individualismo (istituzionalizzato) sia difeso essenzialmente dallo stato (circa il 28%), un’altra parte preferisce che sia soprattutto affidato al mercato (circa il 25%), e solo il rimanente (circa 35%) lo vede salvaguardato da formazioni sociali intermedie che agiscano come attori privati pro-sociali. Il complesso lib/lab (il civile inteso come compromesso fra stato e mercato) appare prevalente. Il panorama è certamente molto frastagliato, mobile, incerto, così da rendere anche le concezioni lib/lab prive di sicure certezze.
Qual è il messaggio che queste considerazioni sui dati della situazione suggeriscono ?
Il primo messaggio può essere sintetizzato dicendo che le grandi costellazioni simboliche tradizionali del civile, tipiche della modernità, appaiono soggette a processi di sbriciolamento e frammentazione da un lato, ibridazione e fusionalità dall’altro.
Da un lato, cadono i tre grandi sistemi simbolici del civile che hanno dominato la scena del secolo XX: a) il civile inteso come appartenenza al mondo delle lealtà ascrittive del tradizionalismo civico (quale ancora lo pensano alcuni studiosi, per esempio R. Putnam); b) il civile inteso come «primato del politico», sia nella forma delle utopie rivoluzionarie sia nella forma di unità organica dello stato (concezioni che sono state molto forti sino a qualche anno fa); c) il civile inteso come ideologia del mercato degli scambi onesti e simpatetici (cui oggi si rifà un certo neo-liberismo “etico”). Tutte queste culture del civile sono messe in crisi dai processi di globalizzazione, e si può osservare che, in buona misura, vengono spazzate via.
Dall’altro, proprio il venire meno delle concezioni del civile emerse o sopravvissute nel corso della modernità produce nuove opportunità e apre nuovi orizzonti. In apparenza si crea una situazione di maggiore confusione. Ibridazione e fusionalità fra gli elementi che caratterizzano una cultura civile sono tipici di una condizione di transizione come quella attuale, in Italia, in cui il vecchio scompare senza che emergano costellazioni simboliche alternative dotate di una forte coerenza distintiva. È il prezzo da pagare per un cambiamento culturale che avviene nel bel mezzo di un’epoca incerta, irrequieta, disorientata. Però, sotto la confusione, si può osservare che sono all’opera delle forze che tessono i fili di una nuova trama, in cui i fili del civile vengono a essere utilizzati in modi diversi dal passato, e anche rigenerati. Esiste una porzione significativa, anche se minoritaria, del Paese che sta lavorando per edificare una sfera di privato sociale all’altezza delle sfide di una società civile che non si vuole ridurre a mercato, laddove lo stato non è più pensabile come soluzione hobbesiana dell’ordine, non solo perché fallisce nei suoi compiti, ma perché accentua la sua autoreferenzialità, in un eterno compromesso di utilità reciproca con il mercato.
Gli orientamenti di cultura civile che possiamo chiamare delle «autonomie sociali» esistono negli interstizi caratterizzati dal rifiuto sia delle vecchie ideologie liberali (lib) e socialiste (lab), sia dei cocktail del post-moderno. Si tratta indubbiamente di isole o nicchie in un mare che si va «globalizzando». Ma ciò che appare significativo è il fatto che si produca una innovazione culturale sul modo di pensare la sfera pubblica in quanto luogo delle relazioni fra i soggetti privati e le istituzioni politiche.

4. Per concludere. Particolarmente in Italia, la società civile è un insieme di culture che hanno una scarsa elaborazione autonoma: per un terzo circa sono omogenee al sistema politico-partitico (le organizzazioni civili si comportano come fossero dei partiti politici, ovvero si concepiscono in funzione di questi, quasi che le forze sociali, alla maniera gramsciana, dovessero esistere in funzione della presa del potere e dell’egemonia politica); per quasi un terzo intendono il civile alla maniera del mercato; e solo per poco più di un terzo intendono il civile come sfera di relazioni sociali originarie e originali, dotate di una propria intrinseca forza di civilizzazione (e non solo di democratizzazione politica). Ecco perché, in Italia, è così forte la lotta fra chi parteggia per una società civile concepita come sfera dove si gioca “la politica” (a cui viene conferito un qualche primato) e chi parteggia per una concezione liberistica, ovvero mercantile, della società civile dove si giocano le libertà individuali. Benché distanti e anche opposti, questi due schieramenti condividono, in fondo, una stessa visione della società civile, come luogo dei conflitti che possono essere risolti solo con la soluzione hobbesiana dell’ordine sociale, cioè ricorrendo al Leviatano, che è poi lo Stato. Abbiamo esempi egregi di uomini politici (anche Ministri della Repubblica) che dicono di avere una concezione liberale della società civile, ma poi, nell’agire pratico, la trattano come se fossero al posto del Leviatano. Più facile è vedere uomini politici che credono nel primato della politica e trattano la società civile come base del loro potere politico imperniato sullo Stato, ma questo è più comprensibile e coerente con le loro premesse. Meno comprensibile è che la stessa visione sia condivisa dai responsabili delle grandi organizzazioni del privato sociale e del terzo settore.
Nel mezzo, c’è chi non condivide né l’una né l’altra impostazione. Si tratta del mondo autenticamente associativo, nel quale si distinguono le sfere guidate essenzialmente da motivi culturali e religiosi profondi. Ma si tratta di una parte minoritaria, all’incirca un terzo (molte sfumature e confini poco definiti), anche se eticamente qualificata. È quella che ha un’idea della democrazia associativa (anziché della democrazia procedurale, tipicamente di genere ‘hobbesiano’). Date queste distinzioni, tutto il resto ne viene di conseguenza.
Ecco allora qualche risposta agli interrogativi iniziali.
La società civile non è né di destra né di sinistra, perché il suo codice non è politico, ma civile. Il partito politico, qualunque sia, che invoca la società civile, lo fa, se lasciamo da parte gli ovvi motivi ideologici e demagogici, per riferimento a quei gruppi e movimenti sociali che pensa siano suoi sostenitori. Così divide politicamente la società civile, che invece dovrebbe respingere questa strumentalizzazione. Si tratta di una trappola: quando la società civile si lascia sussumere  nel codice della politica, si omologa al sistema politico. Una relazione fra società civile e società politica deve esserci: ma “a distanza”, nei rispettivi ruoli e competenze, dunque come relazione di reciproca sussidiarietà critica (P. Donati, La cittadinanza societaria, Editori Laterza, Roma-Bari, 2000). Critico vuol qui dire misurare la politica sul metro del codice etico, al quale essa dovrebbe ultimativamente rispondere. Ma la strada di questa distinzione è sempre lunga e difficile da percorrere, e deve essere rifatta in ogni momento. Non solo perché la società politica cerca continuamente di “arruolare” la società civile, ma anche perché la stessa società civile deve continuamente rielaborare in se stessa il senso del civile, e non è detto che ce la faccia.
Che cosa significa, allora, “civile”? In linea di principio, il civile si distingue da tutto ciò che non lo è: il barbaro, il militare, il disumano. Ogni semantica del civile è elaborata quando appare una nuova categoria di “inciviltà”. In breve: la società civile sta là dove vengono continuamente rielaborate queste distinzioni. Al fondo di queste operazioni, che sono culturali, c’è il senso ultimo della vita, che viene sfidato: ecco perché la religione è la prima e più fondamentale sfera della società civile. Ma sembra che ciò non sia compreso, né dal razionalismo neo-illuministico (si veda la bozza di Trattato Costituzionale della Unione Europea) incapace di vedere i presupposti religiosi di queste distinzioni, né, in certi casi, da parte di quel cosiddetto mondo cattolico che continua a mettere il proprio destino nelle mani del codice della politica, pensando che tutto o quasi dipenda dai poteri dello Stato.
Bisogna produrre una nuova distinzione virtuosa fra il potere politico e il potere civile: al primo appartiene il compito della composizione fra le diversità (di interessi e di identità culturali) nel quadro di una costante ricerca di obiettivi comuni, e, per quanto possibile, di valori universali; al secondo appartiene il compito di ridefinire continuamente il civile per distinzione con l’“incivile” e di farlo valere come potere nei confronti del potere politico. Questo significa che dobbiamo distinguere fra le costituzioni politiche e le costituzioni civili, e promuovere soprattutto queste ultime, dato che nel mondo della globalizzazione sono le più carenti, in modo che dall’insieme di queste costituzioni civili, per via di governance, emergano nuove costituzioni politiche che abbiano un fondamento veramente civile.

mercoledì 24 ottobre 2012

La Chiesa e la politica (in ricordo del cardinal Martini)

Ricordiamo Martini: un uomo di Dio, testimone del primato dello Spirito. Libero, aperto al dialogo e all’accoglienza, attento alla cura degli ultimi.
di Giovanni Giudici
(Vescovo di Pavia, presidente di Pax Christi Italia)
Mosaico di Pace, ottobre 2012
Del cardinal Martini sono stati descritti tratti di fisionomia in maniera rispettosa, ma anche caricature abbozzate da osservatori improvvisati e superficiali. Vorrei delineare qui alcuni aspetti del suo ministero, riflettendo in un secondo tempo sulla sua testimonianza sui cammini della pace.
Tutto, nella vita, nell’azione e nella parola di Martini, lo qualifica come anzitutto ed essenzialmente un uomo di Dio e in particolare un religioso nel senso pieno e alto della parola. Il card. Martini è stato, infatti, un uomo di Chiesa nel quale la persuasione del primato dello Spirito ha sempre dominato sulla fedeltà e sull’amore con cui ha servito l’istituzione ecclesiastica. Lo Spirito è stato da lui ricercato, con semplicità e con tenacia, nella vita e nei doni delle persone, negli avvenimenti ecclesiali e nei fatti che costituiscono la storia. Attenzione allo Spirito, alla sua sovrana libertà e nella sua sorprendente creatività, significava per lui operare per una Chiesa che, proprio in quanto docile allo Spirito del suo Signore, fosse libera, povera, sciolta. Aggettivo quest’ultimo, da lui spesso utilizzato nel qualificare la Chiesa.
Egli operava e parlava a proposito di una Chiesa tutta protesa alla testimonianza e all’annuncio della Parola. Giunto a Milano, Martini si immedesimò subito con la città, volle conoscerla in tutti i suoi aspetti, positivi e non. Scoprì ben presto anche le piaghe della città: quelle della sofferenza nascosta (carcerati, ammalati, poveri d’ogni genere), e quelle che erano frutto di collettiva superficialità e disattenzione (corruzione, gruppi di potere, informazione parziale). Incontrando e dialogando con le persone e le istituzioni, diede segnali di apertura e di accoglienza fino a toccare la coscienza di singoli e gruppi che, fidandosi di lui, abbandonarono la follia terroristica.
L’incontro con Milano
L’incontro con Milano e la sua gente rappresentò per lui l’occasione per la piena maturazione di una dimensione pastorale del suo ministero sacerdotale. Ha mostrato attenzione alla vita delle parrocchie e ha sostenuto la formazione cristiana di laici e preti, insegnando che la fede cristiana può e, quindi, deve farsi storia. Martini è stato custode e garante dei più diversi carismi che arricchiscono la Chiesa e ha mostrato interesse per aspetti nuovi della pastorale. Oltre agli impegni della visita alle parrocchie, dallo studio e della diffusione dell’accostamento popolare alla Parola di Dio, ha saputo coltivare il dialogo ecumenico e interreligioso, il fraterno confronto con agnostici e non credenti, l’attenzione alle situazioni umane e sociali segnate da fragilità.
Per quanto riguarda la politica, Martini fu sempre fermo e rigoroso nella cura per le distinzioni tra valori ultimi e valori penultimi, tra religione e politica, tra Chiesa e partiti. Nei gesti e nelle parole operava per una distinzione dei piani che in genere in Italia è scarsamente praticata. Certamente non ha mai mostrato l’attitudine a interloquire direttamente con il potere politico, pratica non assente in talune occasioni nella posizione pubblica della CEI. Piuttosto ha operato, in sintonia con il Concilio, per stimolare e valorizzare la responsabilità dei laici cristiani in politica.
All’interno della comunità ecclesiale sosteneva lo sviluppo di una vera opinione pubblica rispetto ad argomenti sui quali il pluralismo rappresenta la regola. È questo atteggiamento comunitario che fa crescere la maturità all’interno e che mostra all’esterno un’immagine più appropriata di Chiesa. Tendeva poi a coinvolgere i credenti nella comprensione di questioni specifiche di natura civico-politica. Si trattava di situazioni nelle quali egli avvertiva un nesso più esplicito con la parola e la logica evangelica: la condizione dei detenuti a lui così cari, dei malati, degli immigrati. In questi casi si impegnava anche in una diretta e migliore conoscenza del fenomeno. Rimangono molto significative le sue riflessioni sulla giustizia e sul senso della pena connessa con il carcere. Ricordiamo anche la sua lettura critica del dialogo con l’islam, nel discorso di S. Ambrogio. Ci ha proposto verità che ancora oggi sono limpide e utilissime rispetto al problema.
Ancora per quanto riguarda la politica, in un discorso alla città, egli distingue tra neutralità, imparzialità, equidistanza della Chiesa. La parola della Chiesa trascende le logiche di parte, è parola altra e diversa dalle parole della politica. Tuttavia in concreto non ha da essere equidistante sempre, con il rischio di cadere nel calcolo troppo umano del non mostrare le priorità necessarie, e del ripetere solo ciò che è ovvio. Una posizione di questo tipo mostra coscienza della complessità dei problemi e delle soluzioni propria della politica. Stare nella società con senso di vigile responsabilità esige di compiere, in contemporanea, più passi tutti necessari. Il primo: riconoscere la distanza tra le attese e la realtà. La speranza cristiana è infatti fondata sulla Risurrezione, confida sulla salvezza come destino ultimo affidato, però, alla novità dello Spirito che ci è donato. Noi facciamo riferimento certo a principi quali la vita, la libertà, la giustizia, la solidarietà, la pace; di fronte a questi riferimenti il realismo cristiano ci dà la consapevolezza che quei beni-valori ci saranno compiutamente accessibili solo oltre il tempo. Inoltre, il cristiano sa che il male e il peccato, il conflitto e il dolore incombono pesantemente sulla vita e sulla storia. Martini ci ha dato sempre l’esempio di una grande onestà intellettuale nella lettura della realtà e nelle sue contraddizioni e ci ha indicato con chiarezza la forza attraente della speranza cristiana.
La città dell’uomo
Il secondo passo: l’accettazione e la difesa dei principi non negoziabili va vissuta in una società abitata dal pluralismo delle concezioni etiche, e retta da ordinamenti democratici, ove si delibera sulla base della regola della maggioranza. Il cristiano ha, dunque, bisogno della creatività e della fatica della mediazione politica per insediare principi-valori nella città dell’uomo. Vi è un testo di Martini, al tempo nel quale si avviava in parlamento la discussione sulla fecondazione assistita, nel quale egli distingue tre livelli: quello dei principi etici, quello dei principi costituzionali e quello della mediazione legislativa. Un’articolazione di livelli con i quali deve misurarsi anche il legislatore cristiano.
Alla luce di queste attenzioni si comprende perché Martini aveva il culto della libertà. Riconosceva certo la valenza pedagogica della legge, ma non vi faceva grande affidamento. Pensava che, al fine di assicurare la qualità etica della convivenza, sono piuttosto decisive la coscienza morale personale e collettiva, la mentalità condivisa in una comunità. Di conseguenza, egli amava richiamare ai cristiani la testimonianza e la pratica dell’esigente etica delle Beatitudini. È dalle coscienze credenti, e da comunità informate, che può sortire un consenso etico-sociale capace, attraverso le mediazioni politiche e le procedure democratiche appropriate, di elevare il tenore etico della società. Diffidava, cioè, dell’impazienza con la quale i cattolici talvolta si illudono di fare buoni o addirittura cristiani gli uomini e le comunità facendo ricorso agli strumenti del potere e della legge, esercitando pressioni su partiti, parlamenti e governi.
Martini sapeva assegnare il giusto posto alla politica, ne misurava il valore e il limite; riservava a sé e alla Chiesa la sola ma decisiva parola di cui essa è depositaria e competente: la parola del Vangelo e delle esigenze etiche ad essa strettamente connesse.
Sapremo continuare la sua eredità?

lunedì 22 ottobre 2012

Colombia: un paese che cambia e spera

Si aprono a Oslo i negoziati fra il governo di Bogotà e le Farc. L'obiettivo è una soluzione di pace negoziata dopo mezzo secolo di guerra civile strisciante.
 
Padre Alberto Franco, della Commissione Justicia y Paz: «Le due parti si sono rese conto che la soluzione militare è impraticabile». Ma la pace non basta, bisogna cambiare modello...
Raccontano a Sucre, cittadina della regione del Cauca, nel sud-ovest della Colombia, di quella notte del 7 maggio, quando un gruppo di 17 elenos - i guerriglieri dell'Eln, l'Ejército de Liberación Nacional - scesero in paese dalle montagne circostanti per attaccare il locale posto di polizia. Il saldo fu di un ferito e qualche danno alle case. Erano in corso le elezioni municipali, e l'Eln voleva dire la sua. Il candidato sindaco, Hoyos, del Movimiento de Participación Democrática, era il favorito (e fu eletto). Fra i punti del suo programma, l'appoggio all'organizzazione comunitaria dei Bienandantes, contadini organizzati per gestire collettivamente il locale acquedotto. «L'acqua dev'essere di tutti», dicevano loro, opponendosi ai piani normativi regionali che sostanzialmente spingono alla svendita del patrimonio idrico ad imprese private. I Bienandantes hanno quello che si chiama un buon «potere di convocatoria», sono seguiti dalla gente, e Hoyos lo sapeva, e durante la campagna elettorale aveva inserito un punto dedicato all'acqua pubblica. Ma non fu l'unico. Quella notte l'attacco dell'Eln aveva lasciato, oltre ai soliti volantini e alla paura per gli scoppi di mortai, la cittadina ricoperta di scritte sui manifesti elettorali: «L'acqua è di tutti, l'acqua è un bene collettivo». Ricardo Quinayas, da tutti chiamato Chonoto, assicura che il battaglione era composto tutto da donne. Un'immagine con sapore romantico ma che racconta di un paese che sta cambiando. E non solo perchè si apre a Oslo lo storico incontro fra il governo colombiano e i guerriglieri delle Farc (a cui l'Eln «per ora» non partecipa direttamente anche se è stata confermata l'esistenza di «conversazioni» in corso) che potrebbe mettere la parola fine al conflitto militare più antico dell'America latina attraverso una soluzione politica. Intorno si respira un cauto ottimismo e c'è la forte richiesta di una partecipazione della società civile a questo percorso che si annuncia difficile. Richiesta raccolta anche dagli studenti colombiani, che il 4 ottobre hanno fatto partire «la settimana dell'indignazione», con appuntamenti in varie parti del paese. «Il tema dei beni comuni, delle risorse, della loro gestione, è centrale nella dimensione del conflitto della Colombia", racconta Padre Alberto Franco, sacerdote colombiano della Comisin Justicia y Paz, storica organizzazione per i diritti umani che dall'88 è in prima linea al fianco delle comunità contadine, indigene ed afro-discendenti, vittime della guerra e degli sfollamenti forzati. Padre Alberto è in Italia e in Europa per una serie di incontri ed è in procinto di recarsi in Norvegia. «In questo momento recuperare la logica del bene comune, che storicamente appartiene alle popolazioni originarie, significa scontrarsi con il sistema neo-liberista. Il capitale è oggi alla base del conflitto colombiano. Camminare verso la pace, in Colombia, significa disinnescare le cause dell'ingiustizia sociale. La guerra colombiana si è concentrata in regioni dove la politica estrattivista dei governi Uribe prima e Santos adesso - in particolare le coltivazioni intensive di agro-combustibili, i mega-progetti come la diga del Quimbo, il saccheggio delle risorse petrolifere e minerarie - ha radici più profonde. E' evidente la connessione fra il potere politico ed il potere militare, in Colombia. Ma la società civile, le comunità, si stanno organizzando: non solo prendendo coscienza sempre più delle reali cause del conflitto, ma cercando di proteggere i propri territori con una gestione collettiva, creando zone umanitarie e di protezione della bio-diversità, in antitesi con le privatizzazioni e i furti di terra». L'acqua potabile, che in Colombia è accessibile a meno della metà della popolazione, ne è un esempio: gli acquedotti comunitari, imprese famigliari, collettive o comunitarie, danno oggi da bere a più di 4 milioni di persone. Si sono costituite in una rete nazionale, hanno una visione globale della gestione del territorio, si oppongono alle miniere a cielo aperto, alla distruzione delle montagne, all'avvelenamento delle fonti con i metalli pesanti. E nei territori degli sfollamenti forzati, per cui la Colombia è seconda solo al Camerun nelle classifiche mondiali con 5-7 milioni di profughi interni, la gestione collettiva del bene comune acqua oltre a garantire la sopravvivenza della gente che ritorna nelle proprie terre originarie, aiuta queste comunità a ritrovare un'identità collettiva. L'attuale presidente, Juan Manuel Santos, ha voluto dare un segnale forte con l'apertura, il 27 agosto scorso, dei negoziati. «Entrambe le parti si sono rese conto che la soluzione militare non porta più a niente - spiega ancora Franco -, la guerra allontana gli investitori, visto che in molti territori le Farc hanno concentrato le azioni militari contro le multinazionali. Ma non dobbiamo dimenticare chi è Santos. Lui ed Uribe sono due momenti diversi di uno stesso cammino. La politica sociale è quasi la stessa, ma l'attuale presidente è un po' più "sociale", abbracciando lo stile del nonno, Eduardo Santos, avvocato, giornalista e proprietario del quotidiano El Tiempo che governò negli anni '30. Ne sono un esempio la promulgazione delle leggi "sulla terra" e "sulle vittime", che dovrebbero legalizzare le proprietà di molte terre, che hanno aspetti criticabili ma che creano consenso. L'attuale presidente è apparentemente meno radicale del predecessore, che era legato a doppio mandato a frange narcos e paramilitari. Si potrebbe dire che ammazza con più eleganza e più lentezza». Perché, spiega, appoggia un sistema economico brutale con le masse povere, che aumenta l'iniquità del paese e non placa le conflittualità legate alle risorse. In Colombia si continuano a trovare fosse comuni : Uribe lanciava nel 2002 la fase della «seguridad democratica», il pugno duro contro le guerriglie, ma nessuno sta veramente pagando per quelle migliaia di morti, tantomeno Santos che era allora ministro degli interni e della difesa. Manuel Santos ha fatto comunque passi sorprendenti, negli ultimi mesi: dialoga con il presidente venezuelano Hugo Chávez, il nemico giurato di Uribe che sarà anche uno degli «accompagnatore» dei prossimi negoziati di pace a Cuba, insieme al Cile. Un disegno che «fa parte di una strategia studiata, che vuole presentare un'altra faccia alla comunità internazionale, e che però non modifica le relazioni di potere all'interno del paese - dice -. Anche l'apparente litigiosità fra Santos e Uribe la definirei con quello che dice la gente: un matrimonio, dove si litiga in pubblico, ma in privato non si arriva mai alla rottura», conclude padre Alberto. A proposito, essendo lui un prete, tutto questo la chiesa come si pone? «La chiesa cattolica si è presentata come una delle parti di mediazione nel processo di pace, ma fino a oggi ha tenuto posizioni molto timide, che non mettono in discussione il modello capitalista». Al tavolo dei negoziati di Oslo non siederà alcun rappresentante della società civile. «Noi invece, che appoggiamo i negoziati con speranza, stiamo spingendo perchè i rappresentanti delle organizzazioni indigene, contadine, afro-discendenti, delle donne, degli studenti, di tutte le vittime che in questi decenni hanno pagato in prima persona il dazio più pesante al conflitto, debbano poter avere voce in questo cammino verso la pace, che altrimenti non produrrà il reale cambiamento di modello di cui abbiamo bisogno». Dice Danilo Rueda, della Commissione Justicia y Paz, che abbiamo recentemente incontrato a Bogotá, «con la diminuzione del flusso di denaro che il Plan Colombia aveva garantito alle casse dello stato, l'attuale governo si è dovuto riorganizzare. In quest'ultimo anno gli attacchi alla multinazionali sono aumentati. Mercosud, Alba e anche Usa e Cina hanno fatto capire che l'insicurezza giuridica e militare mette in crisi la crescita degli interessi». La situazione geopolitica ed economica della Colombia spinge Santos a cercare la pace. Sono le cifre a parlare: dopo 8 anni di governo Uribe e 2 di Santos, le guerriglie possono contare ancora su un radicamento notevole in molti dipartimenti. «Almeno 3000 quelli dell'Eln e 8000 quelli delle Farc - dice Rueda -. Di questo passo ci vorrebbero altri 20 anni». Rueda vede i rischi concreti di questi negoziati: «Il modello estrattivista non viene messo in discussione e il tema della terra resta al punto numero uno del dialogo con Farc-Eln. La pace non è solo deporre le armi. Ci vorrebbero delimitazioni reali all'economia estrattivista, ovvero una democrazia dove anche l'aspetto della difesa ambientale e delle scelte economiche siano compresi. Dove le organizzazioni civili siano realmente coinvolte. E dove non esista più il trattato di libero commercio con gli Usa. Dobbiamo cominciare a ragionare abbattendo barriere. Perché la pace non ha senso senza giustizia sociale».

Francesca Caprini (* Associazione Yaku)

domenica 21 ottobre 2012

A NOVEMBRE LAVORO 18 ORE!

Profumo di CAOS…
Devo scrivere! Insegno musica nella scuola media (secondaria di primo grado): abilitata, nelle Graduatorie ad esaurimento dal 2000 e precaria! Questo è il dodicesimo anno in cui lo Stato mi assume il primo settembre dicendomi la data del licenziamento: il 30 giugno!
12 anni! So che ci sono colleghi più anziani di me nel precariato…
Mai consecutivamente nella stessa scuola… Mai rivisto le stesse classi… 
Ho lavorato in molte scuole, con utenze molto diverse (dal 90% di stranieri della scuola della grande città alla quiete del paesino di mezza montagna) e con organizzazioni interne svariate! Ho incontrato tantissimi colleghi, tanti presidi, molti collaboratori scolastici e confesso che sono davvero pochi quelli che non hanno voglia di far niente e snobbano il loro lavoro!!! Qualcuno c’è, ma sono una nettissima minoranza!
Non ho mai lavorato solo 18 ore! Le 18 ore in classe, quelle di sicuro e poi… tante tante altre!
Quantifico un po’ ma mi tengo stretta stretta!!! E, dico subito, che mi è sembrato normale, funzionale al mio ruolo, lavorarle! Ma è ora di dire chi sono gli insegnanti e che cosa realmente fanno… c’è un alone intorno a noi che parla di scansafatiche, fannulloni e incompetenti che mi irrita e molto! 
Ho una laurea, un diploma di Conservatorio, un’abilitazione all’insegnamento, leggo un sacco di libri, so usare perfettamente un pc, una LIm, un Ipad, parlo correttamente francese... e per la cronaca ho 4figli! Tutti alunni…
Quantifichiamo queste ore!!!
80 ore (40+40) di consigli, collegi, aggiornamento, colloqui! Ne ho sempre fatte almeno 100… avendo a che fare con i ragazzi conviene essere scrupolosi.
Ho sempre 9 classi che vogliono dire, sempre a stare stretti stretti, 20 ore di scrutini e 60ore per gli esami.
Non compilo i registri in classe… mi sembra di togliere il giusto agli studenti e ci metto circa un’ora la settimana e fanno altre 40 ore.
Preparo le lezioni, i compiti, le verifiche (differenziate per i ragazzi con difficoltà… è un loro diritto avere i materiali e le verifiche adatte), correggo, trascrivo spartiti, invio email ai miei studenti, organizzo uscite (ma di questo non vorrei proprio parlare…), compilo verbali, preparo i saggi di fine anno (la musica suonata è anche bella…); non voglio esagerare ma tutto questo mi occupa in media almeno 5 ore la settimana.
Materiali… ci tengo a dire che in molte scuole mancano gli strumenti musicali e me li sono comperati… (deficiente?); molte scuole hanno lettori cd e dvd sempre rotti e contesi (mi sono dotata di casse portatili e lettore mp3); stampare documenti nelle scuole è quasi impossibile (uso la stampante di casa…). Anche il mio portatile mi accompagna a scuola per gli esami, la correzione dell’Invalsi (già, di questo non vorrei parlare…) e la proiezione di immagini e video. Ma i materiali non sono ore quindi tutto questo non conta… in alcune scuole ho dovuto portare la carta igienica, in altre la carta per le fotocopie… ma sono piccolezze!
Il Ministero mi assume per 42 settimane… (non posso chiedere ferie… c’è l’estate… ma in quel periodo sono disoccupata… ma sono questioni secondarie e non ne vorrei parlare… basterebbe leggere la Costituzione art.36). 
Sommo tutte le ore che faccio divido per 42settimane e dalle 18ore settimanali tanto vituperate passo a 28! Siamo in media europea? Rido ma avrei tanta voglia di piangere!!! E se penso al mio stipendio, in media europea, le lacrime sono sicure…
Scrivo perché non c’è rispetto degli insegnanti e del nostro lavoro… quindi non c’è rispetto per i miei alunni e quindi per i nostri figli! Ho incontrato tanti insegnanti prosciugati dall’impegno lavorativo… incapaci di continuare ad essere motivati e a motivare i ragazzi!!! Delusi da tanti anni di progressiva non considerazione… La delusione di un insegnante non produce una buona didattica ed è pessima per i nostri alunni!
24 ore in classe! Non ci sarà tempo per costruire la scuola del futuro… la scuola sarà in apnea!!! Altro che progressi, innovazione, percorsi per valorizzare le eccellenze, recupero per chi ha difficoltà, attenzione alla valutazione, aggiornamento dei docenti… Forse il Ministro voleva dire “riconosciamo che gli insegnanti lavorano già 6ore in più, adeguiamo il contratto”, forse.
Siamo in periodo di crisi e anche noi dobbiamo fare la nostra parte! La mia sarà la disoccupazione… ogni 4 insegnanti si perderà un posto e noi precari stiamo tutti a casa! (il calcolo non richiede studi molto approfonditi).
I miei colleghi di ruolo spremuti fino all’osso sapranno inventare una scuola innovativa, attenta ai bisogni degli studenti; il problema dei precari è risolto e dal Concorso in atto arriveranno insegnanti giovani, motivati, preparati e anche belli! Come ero io tanti anni fa!!!
Ps Ho in cuore una proposta: per il mese di Novembre lavoriamo tutti solo 18 ore… e chiedo già scusa ai nostri dirigenti, alle famiglie e ai miei carissimi alunni!!! Ma non è una proposta è una protesta! 

Prof. M Vacchina

Incontro con Bauman



“La ragione di questa crisi, che da almeno cinque anni coinvolge tutte le democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come finirà, è il divorzio tra la politica e il potere”.

Zygmunt Bauman

Per chi non conoscesse Zygmunt Bauman un buon consiglio: leggetelo. Oltre ad essere universalmente riconosciuto come uno dei sociologi piu’ importanti al mondo, è forse quello che riesce più degli altri ad esprimere concetti assai complessi in maniera molto chiara e semplice. Delinea i contorni che spesso ci sembrano sfuggire all’interno delle dinamiche generali, e sa usare, come direbbe il poeta: “la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco”.
Bauman parla di “modernita’ liquida” come metafora di una società in cui nulla sembra poggiare su solide fondamenta: “un mondo che chiamo liquido perché come tutti i liquidi non può restare immobile a lungo. In questo nostro mondo tutto, o quasi, è in continua trasformazione: le mode che seguiamo, gli oggetti che richiamano la nostra attenzione, ciò che sognamo o temiamo, che suscita in noi speranza o preoccupazione”.
Il concetto stesso di precarietà è invasivo, e trasmuta dal settore lavorativo a quello sociale: “Accade che una relazione fortemente vincolante basata sull’impegno a lungo termine produce paura di perdere le opportunità che sorgono nella modernità liquida. Da qui discende che la relazione pura è percepita come una liberazione, ma il risultato è avere paura di vivere in condizione di angoscia permanente. Oggi i legami tra persone sono fragili, c’è un altissimo livello di insicurezza che riguarda i rapporti tra gli individui e la comunità rispetto l’affidabilità degli altri. L’appartenenza alla comunità è stata sostituita dall’appartenenza alle reti – argomenta – Oggi è facile avere incontri e appuntamenti grazie al pc, è infantilmente facile rispetto al passato: si selezionano le qualità dallo schermo (interessi, qualità fisiche) proprio come si scelgono merci in un negozio.
La popolarità dei social network è dettata dalla facilità con cui ci si può sbarazzare di impegni a lungo termine semplicemente con un click: con i social network, le persone cercano l’esigenza fondamentale della condizione umana, ovvero la ricerca di amore, di amare e di essere amati”. Tuttavia, “amare significa impegno, accettazione di rischi, abnegazione, esporsi all’incertezza, speranza di riuscire a produrre relazioni durevoli. Gli utenti di questi network risultano sempre frustrati, ciò che essi trovano sono impegni superficiali che sostituiscono quanto realmente stanno cercando. Ciò che causa tutto ciò è l’illusione consumistica che vorrebbe farci credere di potere scegliere i nostri partner come una marca di yogurt: non accuso l’avvento dei computer, sono solo mezzi, non capri espiatori, ma neanche salvatori; ciò che è necessario è quell di fare qualcosa rispetto all’illusione consumistica, dare una risposta a questo fenomeno”.
Ed infine, sulla nascita e le possibili soluzioni della crisi : “Oggi c’è solidità nel senso di resistenza al cambiamento. Negli ultimi anni ci sono stati molti movimenti, gli indignados spagnoli, Occupy Wall Street e altri. Molte spinte, grandi manifestazioni di massa e tuttavia non accade nulla. Prendiamo Occupy Wall Street: è stato trattato bene dai giornali, la televisione ne ha parlato, l’unica forza che non ha prestato alcuna attenzione è stata la Borsa di Wall Street. Non è cambiato assolutamente nulla. La mia teoria è che il sistema non è solido di per sé: ha sviluppato efficaci meccanismi di autoriproduzione ma ha delle fragilità incorporate. Diventa più iniquo ogni giorno che passa: oggi negli Stati Uniti, un amministratore delegato guadagna in media 531 volte più del lavoratore medio; nel 1960 il rapporto era 1 a 12. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo tradizionale funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro: l’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri. Questo significa che il sistema ha accentuato la sua tendenza interna ad autodistruggersi, ma non potrà continuare a lungo. Se la resistenza umana non sarà in grado di mettervi fine ci penserà la natura. Ci sono ovviamente limiti precisi alle risorse del pianeta e una società basata sulla crescita illimitata della produzione e del consumo incontrerà questi limiti molto presto.
Ed ancora: “Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica è la capacità di prendere decisioni vincolanti. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione perché la globalizzazione ha trasferito il vero potere al di là dei territori, scavalcando la politica. Gli Stati nazionali sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo. Ogni singolo potere si fa beffe delle regole e del diritto locali, e anche dei governi ovviamente. I governi europei dovrebbero fare ciò che gli elettori chiedono, cioè agire contro la disoccupazione di massa, ma naturalmente non lo possono fare: sono costretti ad ascoltare quanto le corporation e i banchieri dicono loro. I governi sono eletti per quattro anni e possono agire solo su un territorio limitato, le corporation sono permanenti e hanno come teatro d’azione il mondo. Non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di rispettare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati”.
Individuate le cause prime, le dinamiche, le possibili evoluzioni; lo fa’ cosi bene che qualcuno ha pensato di intitolare il proprio blog  con una sua massima.
Sabato ho avuto modo di ascoltarlo dal vivo, ospite del Salone dell’editoria sociale a Testaccio. Una bellissima e assolata ottobrata romana , tanta gente, un clima di partecipazione e attesa. Subito ci informano che il presentatore Massimiliano Smeriglio – assessore alle Politiche del Lavoro della Provincia di Roma, è assente per influenza (dicono). Sarà stata un’impresa ammalarsi con questa temperatura, ma forse è meglio cosi: la presenza di un politico avrebbe forse stonato.
Ágnes Heller e Aleksandra Jasinska-Kania introducono il tema del populismo in Europa; leggono entrambe un testo interessante, ma didascalico. Prende la parola Bauman, parla a braccio. Disserta sui presidenti spagnoli e francesi, dice che in questa situazione chiunque fosse stato al governo avrebbe perso le elezioni, e che sostanzialmente, le politiche sono le stesse dei predecessori. Apre all’Europa, e indica la necessità assoluta di una regia unica, capace di agire autonomamente senza il beneplacito degli USA. Si lancia in una lunga appassionata difesa dell’individuo, rimasto solo ad affrontare problemi che invece sono sistemici. Cambia spesso tono e modi della voce, chiede se ha ancora tempo. Infine, per tornare al tema principale, indica come unica soluzione alla nascita di populismi sempre più aggressivi la difesa dello stato sociale e degli interessi dei piu’ deboli. L’incontro finisce, esco satollo come dopo un lauto pranzo. Cosa ho imparato?
Vedendo questo signore ottantasettenne, relatore di migliaia di conferenze, appassionarsi ancora cosi tanto da preoccuparsi di non avere abbastanza tempo per dire tutto quello che gli premeva, mi sono ricordato di una cosa. Che il mondo passa sempre attraverso le nostre scelte, e che senza la voglia e la responsabilità di starci dentro, non si costruisce niente. Forse sono diventato un po’ filosofo anch’io.
“Quale che sia il contante e il credito di cui disponiamo, non troveremo in un centro commerciale l’amore e l’amicizia, i piaceri della vita familiare, la soddisfazione di prenderci cura dei nostri cari o di aiutare un vicino in difficoltà, l’autostima per un lavoro ben fatto, la gratificazione dell’«istinto di operosità» che ognuno possiede".
- Reset Italia

venerdì 19 ottobre 2012

Torino: ancora con questo inceneritore?

Prof. Massimo Zucchetti
Qualche mese fa, nell’aprile di quest’anno,  è stato ospitato a Torino, nel mio Politecnico, un Convegno sugli effetti sulla salute e sull’inquinamento dell’incenerimento dei rifiuti.
E’ stato organizzato dai medici ISDE, Associazione Italiana dei Medici per l’Ambiente. A me ed al collega Angelo Tartaglia è toccato il compito di introdurre e moderare il convegno, mentre sono intervenuti l’ing Massimo Cerani  (Ambiente Brescia), il prof. Benedetto Terracini, notissimo epidemiologo dell’Università di Torino, mentre ha chiuso un mio amico, il dottor Ernesto Burgio Pediatra, Presidente del ISDE Scientific Office, con una comunicaizone molto avanzata su “Inceneritori e rischi per la salute : i meccanismi molecolari”. Qui potete vedere il mio intervento di apertura al Convegno, mentre qui potete iniziare a vedere la prima parte e poi a seguire le altre del Convegno.
Come mai dobbiamo ancora occuparci di inceneritori, al giorno d’oggi, dal punto di vista scientifico? Sta ormai diventando ovvio che, da un lato, l’incenerimento dei rifiuti provoca l’emissione di sostanze chimiche cancerogene, principalmente diossine ma non solo, mentre dall’altro risulta tecnicamente una soluzione – quella dell’incenerimento – ormai superata dal punto di vista tecnologico. In molte parti d’Italia e d’Europa, come vedremo, si sospendono lavori per gli inceneritori, oppure si chiudono alcuni degli impianti esistenti.
Come mai, allora? Perché a Torino ancora, nel 2012, si cotruisce nonostante tutte le evidenze un altro inceneritore: il “mostro” del Gerbido, una località nell’immediata periferia (“cintura” per chi è di quelle parti) torinese.
Il mostro del Gerbido. Le emissioni derivanti dalla combustione di almeno 421.000tonnellate di rifiuti l’anno, dal camino alto 120 metri, si spargeranno su Torino e dintorni. Ogni giorno – se mai funzionerà – entreranno nell’impianto 1620 tonnellate di rifiuti e circa 30 tonnellate di reagenti chimici. Ogni giorno usciranno dall’impianto per andare nelle discariche:
  •  370 tonnellate/die di scorie considerate “rifiuti non pericolosi” e avviate, in futuro, alla discarica per rifiuti speciali non pericolosi da realizzare a carico di TRM;
  • 30 tonnellate/die di ceneri “volanti” classificate come “rifiuti pericolosi”;
  • 21 tonnellate/die di “prodotti sodici residui” che sono classificati come “rifiuti pericolosi”;
Sarebbero  autorizzate ad uscire ogni giorno dal camino, per cadere sulle teste della popolazione circostante:
  • 1590 tonnellate/die di anidride carbonica, gas serra;
  • 97  kg/die di PM10,
  • 1941  kg/die di biossido di azoto
  • 485  kg/die di monossido di carbonio
  • 97 kg/die di acido cloridrico
  • 97 kg di carbonio organico totale(TOC)
  • 4,85 kg/die di metalli pesanti
  • 0,98 mg/die di furani-diossine
  • 97 gr/die di IPA(idrocarburi policiclici aromatici)
Molti di questi composti sono noti cancerogeni. Poi, andranno in fogna ogni giorno ben 3.300 metri cubi di acqua prelevata dalle falde. Considerato che in mancanza della ferrovia tutto ciò bisognerà trasportarlo su autocarri, transiteranno ogni giorno circa 130 mezzi pesanti tra autocarri e autocompattatori: l’inquinamento dell’area torinese, già pesante, peggiorerà notevolmente.
In Italia si continua erroneamente a chiamare gli inceneritori con un nome intraducibile in altre lingue: “termovalorizzatori”, un’invenzione tutta italiana per non spaventare i cittadini. Il loro vero nome dovrebbe essere “inceneritori di rifiuti con recupero energetico” se rispettano la Direttiva Europea 98/2008, che richiede un rendimento energetico di almeno il 60%. Peccato che l’impianto previsto a Torino arriverà a massimo il 27% senza il teleriscaldamento. Quindi,  sarebbe semplice smaltimento, ultimo scalino della gerarchia europea nella gestione dei rifiuti. Senza considerare l’energia usata per produrre i materiali post-consumo e per poi di produrne di nuovi (considerato nelle analisi chiamate “analisi ciclo di vita”). Il massimo recupero energetico si ottiene invece con il riutilizzo di tali materiali.
Una corretta gestione dei rifiuti, oggi, prevede tutt’altro rispetto all’incenerimento:
a) prevenzione;
b) preparazione per il riutilizzo;
c) riciclaggio;
d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia;
e) smaltimento.
Proprio per questo non posson non dare il mio appoggio convinto alla  MANIFESTAZIONE CONTRO L’INCENERITORE DEL GERBIDO, che si terrà  questo SABATO 20 OTTOBRE 2012, alle 14.30, con RITROVO PRESSO PIAZZA PALAZZO DI CITTA’ A TORINO. Riporto qui di seguito alcune delle ragioni degli organizzatori e dei manifestanti, che sono anche le mie, e che debbono essere quelle di tutti noi.
Manifestazione NO-INC, Torino, 20 ottobre
Manifestazione NO-INC, Torino, 20 ottobre
Vicino alla tangenziale Sud di Torino, al Gerbido, stanno costruendo uno dei piu’ grandi impianti d’Europa per bruciare i rifiuti.  Quando entrera’ in funzione l’inceneritore bruciando i rifiuti emettera’ nell’ambiente sostanze nocive che i filtri non riusciranno a trattenere. Si tratta di diossina, metalli pesanti, nanoparticelle, ossidi di azoto e zolfo, ecc. Noi e i nostri figli subiremo queste sostanze cancerogene emesse da questo inceneritore tutti i giorni e tutte le notti, di continuo, per i prossimi 20 anni, forse anche 30. Nei luoghi in cui e’ presente un inceneritore la gente si ammala di piu’ di tumore, come e’ emerso da moltissimi studi medici. E’ per questo che in tutta Europa si sta cercando di evitare di costruire nuovi inceneritori, cercando di riutilizzare i rifiuti anziche’ bruciarli.
Come possono essere smaltiti i rifiuti, se non vengono bruciati? Le alternative all’inceneritore esistono.
1. Negli altri paesi europei la costruzione di nuovi inceneritori è una pratica ormai nemmeno più presa in considerazione.
2. Investendo molti meno soldi di quelli che si stanno spendendo per l’inceneritore, Torino deve organizzarsi per migliorare la raccolta differenziata, come prevede la legge europea, e deve far pagare meno tasse ai cittadini che differenziano di piu’, cosi’ come si fa in tutti i paesi civili del resto dell’ Europa
3. L’inceneritore deve essere trasformato in un impianto a freddo (TMB), senza bruciare, recuperando ulteriormente materie prime. Gli impianti per il Trattamento Meccanico Biologico a freddo dei rifiuti sono gia’ presenti in molte altre citta’.
“Gli inceneritori sono ormai superati”: Cosi’ si e’ espresso il ministro dell’ambiente Corrado Clini nel settembre di quest’anno. “Stop alla costruzione di nuovi inceneritori in Emilia Romagna e chiusura graduale di quelli esistenti, a partire dai più vecchi”. A dire cio’, sempre a settembre di quest’anno, è l’assessore regionale all’ambiente dell’Emilia Romagna. A fine agosto e’ stato chiuso l’inceneritore di Vercelli, chiuso anche l’inceneritore di Reggio Emilia, sotto sequestro il costruendo inceneritore di Parma, da parecchi mesi posto a fermo anche l’inceneritore di Roma.
L’incenerimento è inutile, dannoso all’ambiente e alla salute,  costoso, superato, ed energicamente – in questo caso – una bestemmia.
Come mai a Torino si continua con questa costruzione? Semplice: gli oppositori del Comitato NO-INC  dicono che si tratta una decisione dettata solamente da puri interessi economici, guardando unicamente ai soldi che entreranno nelle casse del comune per ogni tonnellata di immondizia bruciata, senza considerare la salute dei cittadini, come capita spesso nelle scelte dei nostri politici.
Ancora con questo inceneritore, a Torino? Basta, su, siamo seri: disdiciamo questi contratti, rinunciamo ai lauti affari e alle privatizzazioni connesse, e cerchiamo, almeno una volta, come politici e amministratori locali, di fare una decente figura dimostrando buon senso. Basta poco, e costituirebbe un primo bel precedente.

martedì 16 ottobre 2012

La ragione non guida i mercati

di Guido Acampora,
LaVoce.info 16.10.2012
 
Un approccio multidisciplinare, che coinvolga teorie economiche, sociali e psicologiche, può spiegare le attuali inefficienze dei mercati finanziari e come i loro movimenti siano sempre meno determinati da aspettative razionali degli operatori. Dall'effetto gregge a quello annuncio, dall'acquisto sulla base di voci ai pregiudizi cognitivi, fino all'ancoraggio, ecco i principali fattori di tipo psicologico che prendono il sopravvento sui corretti processi decisionali basati sull'elaborazione delle informazione pubblicamente disponibili.
A partire dall'ipotesi di Adam Smith sulla "mano invisibile" che regola il mercato attraverso il perfetto meccanismo di incontro tra domanda e offerta di beni, gli studi economici e la finanza aziendale hanno assunto che gli operatori del sistema e gli investitori adottino aspettative razionali in merito alle loro decisioni. (1)
ASPETTATIVE RAZIONALI E NON
Dopo la crisi del 1929, già John M. Keynes notava peraltro la presenza di fattori esterni al mercato che condizionavano il funzionamento del commercio mondiale. (2) Nondimeno, auspicava in certi casi l'intervento di governi o banche centrali per evitare ipotesi di fallimento.
Durante il secolo scorso, l'illusione che il mercato economico si autoregolasse in maniera ottimale sulla base di scelte e criteri di assoluta economicità ha continuato a reggere.
Basti pensare alle politiche monetarie espansive degli anni Cinquanta e Sessanta, sospese durante la crisi degli anni Settanta, ma uscite ancora più rafforzate nel decennio successivo improntato al neoliberismo, alle privatizzazioni, alla deregulation secondo i dettami dell'economista Milton Friedman e delle politiche Ronald Reagan e Margaret Thatcher. (3)La riduzione del potere di intervento statale sembrava dare buoni frutti ancora negli anni Novanta, finché lo scoppio dell'enorme bolla speculativa e i collassi di importanti conglomerati finanziari e industriali non hanno influenzato l'ultimo decennio.
A questo punto non ci resta che ammettere la sempre più frequente inefficienza dei mercati finanziari nel rispecchiare le aspettative razionali dei trader, e dare risalto alla necessità di un approccio che coinvolga l'economia come una di quelle scienze sociali di cui anche la psicologia fa parte.

MERCATI E FATTORI PSICOLOGICI
Gli studi economici che asseriscono l'efficienza dei mercati sono stati criticati da numerosi contributi accademici che a partire dagli anni Cinquanta costituiscono un filone di pensiero alternativo, fino alla pubblicazione della Prospect Theory degli psicologi israeliani Daniel Kahneman e Amos Tversky, i quali esplicano quella che oggi definiamo "teoria dell'utilità attesa". (4)In due recenti articoli Martin Sewell, dell'università di Cambridge, ripercorre dapprima la storia degli studi in merito alla finanza comportamentale, per poi soffermarsi sulle principali categorie di fattori che la definiscono nello specifico. (5)I principali fattori di tipo psicologico che possono discostare gli operatori dall'attenersi a una valutazione del giusto prezzo che sarebbe intrinseco all'attività finanziaria valutata razionalmente possono essere classificati tra i seguenti:
- effetto gregge: il mercato si muove conformandosi alle opinioni della maggior parte degli operatori o dei grandi investitori, seguendone le tendenze di breve periodo a elevata volatilità (anche detto "effetto guru");
- teoria Brsn - Buy on the Rumor, Sell on the News: molti operatori prendono posizione sul mercato sulla base di avvenimenti incerti e probabili, ma non ancora verificatisi, per poi abbandonare l'investimento al momento della notizia vera e propria; (6)- ancoraggio: l'andamento dei titoli può essere legato ad avvenimenti passati che condizionano la razionalità di scelte successive;
- euristica: si tratta di decisioni prese a livello emotivo e dunque tendenzialmente irrazionali, oppure fondate su pregiudizi cognitivi;
- effetto annuncio: rispecchia l'ipotesi secondo la quale i prezzi di mercato si muovono non sulla base dei dati fondamentali delle aziende, bensì in ordine allo scostamento di questi dati dalle aspettative.
Tutti questi effetti irrazionali prendono il sopravvento su corretti processi decisionali degli operatori nell'elaborazione dell'informazione pubblicamente disponibile, e in particolare in tempi di incertezza e instabilità economica, come quelli odierni, costituiscono utili spunti di riflessione da considerare per capire i trend di mercato.

(1)
Adam Smith "The Wealth of Nations", 1776.
(2) John M. Keynes "The General Theory of Employment, Interest and Money", 1936.
(3) M. Friedman (1912-2006) fu il leader della Chicago School of Economics, un gruppo di studiosi che teorizzò politiche monetarie fortemente improntate al liberismo economico. Chi fosse interessato alle politiche economiche statunitensi degli anni Settanta e Ottanta, veda anche il contributo in quel periodo della Supply Side of Economics.
(4) Per gli studi sull'efficienza dei mercati si veda E. F Fama "Efficient Capital Markets: A Review of Theory and Empirical Work", Journal of Finance, May 1970, 383-417; "Market Efficiency, Long-Term Returns, and Behavioural Finance", Journal of Financial Economics, September 1998, 283-306; i modelli Capital Asset Pricing Model; gli studi di Modigliani e Miller "The Cost of Capital, Corporate Finance and the Theory of Investment", American Economic Review, 1958, 48 (3), 261-297; o anche: "Corporate Income Taxes and The Cost of Capital: A Correction", American Economic Review, 1963, 53 (3), 433-443; la teoria razionale di diversificazione del portafoglio di William F. Sharpe "Capital Asset Prices: A Theory of Market Equilibrium under Conditions of Risk", Journal of Finance, September 1964, 425-442. Tra i critici, invece, Herbert A. Simon, "A Behavioural Model of Rational Choice", The Quarterly Journal of Economics", Vol. LXIX, February 1955. D. Kahneman e A. Tversky, "Prospect Theory: An Analysis of Decision under Risk", 1979, Econometrica, 47 (2), 263-292.
(5) M. Sewell "Behavioural Finance", 2007 (revised 2010); "Psychology of Successful Investing", 2011, link esterno su www.behaviouralfinance.net.
(6) Richard L. Peterson: "Buy on the Rumor: Anticipatory Affect and Investor Behaviour", Journal of Psychology and Financial Markets, 2002, Volume 3, Issue 4, 218-226.
 

sabato 13 ottobre 2012

Strade alternative alla crescita

Ampi stralci di un’intervista di Barbara Ciolli a Zygmunt Bauman, pubblicata da Lettere43.it.
A 87 anni, il sociologo che ha descritto le metamorfosi del capitalismo e l’esplodere della società dei consumi gira il mondo senza sosta per lezioni e conferenze. Ma le sue radici sono lì, nella culla del socialismo liberale, nel quale non ha mai smesso di credere. Sulla crisi attuale (…) spiega: «O, come è già successo nella storia, l’umanità cambia rotta e, per sopravvivere, imbocca una strada alternativa alla crescita» oppure, se l’homo consumens non accetterà, con sacrificio, di tornare indietro, «la natura prenderà il sopravvento e sarà la guerra di tutti contro tutti per la redistribuzione delle risorse» (…).
Eppure i politici propongono la via dell’austerity…
È una soluzione a breve termine, che di certo riduce la crescita e tiene molte persone disoccupate.
Come fa allora a risolvere la crisi?
Probabilmente, anche i rimedi a breve termine sarebbero dovuti essere diversi. Io, da sociologo, posso esprimermi solo in una prospettiva a lungo termine.
Per ora, cosa è arrivato a concludere?
Primo, che la crisi era ampiamente prevedibile. Siamo vissuti per oltre 30 anni al di sopra delle nostre possibilità, spendendo soldi non guadagnati. Il collasso del credito era inevitabile.
Colpa del ceto medio vorace?…
Certo che no. Le masse sono state convinte a vivere a credito. Sugli interessi dei loro prestiti, le banche hanno incamerato grandi utili. (…)
C’è chi parla già di ripresa, grazie alle manovre di austerity.
Di questo mezzo secolo di abbondanza pagheranno lo scotto non solo le attuali nuove generazioni. Ma i loro figli e i loro nipoti.
In cosa ha sbagliato la società liquida?
Intanto nel non considerare che c’è un limite naturale al credito. Che quello che si ottiene senza sacrificio oggi, si pagherà necessariamente domani. Poi c’è un secondo aspetto che abbiamo ignorato: la sostenibilità del pianeta. Stiamo già consumando il 50% in più di quanto la Terra possa offrire.
Ma, con la crisi inarrestabile, i consumi si stanno contraendo.
Globalmente, la fame di risorse continua a crescere. Tra 50 anni avremo bisogno di cinque pianeti, per soddisfare i nostri bisogni. È una certezza…. Credevamo che la sola via per essere felici in queste e nelle prossime vite fosse consumare il più possibile. Invece questo sistema sta distruggendo il pianeta e le nostre esistenze individuali.
Come se ne esce?
Per uscirne, dovremmo necessariamente rivedere i nostri stili di vita. Mettere in discussione tutto quello che siamo stati abituati a pensare o a credere, rinunciando a molti comfort. Chi, come le nuove generazioni, non ha mai provato una vita frugale dovrà imparare da zero un modello alternativo. Chi, come me, ha vissuto per 40 anni senza frigorifero, dovrà riabituarsi a minori comodità.
Sta dicendo di rassegnarci ad andare in peggio?
Non in peggio, a cambiare mentalità. Per millenni, le generazioni hanno vissuto senza televisione e non stavano necessariamente peggio. Di certo, sarà difficile disabituarsi ai comfort. Sarà – se accadrà – un processo lungo e doloroso. La sconfitta della politica. O una società nuova o la guerra per le risorse. (…) La politica è impotente, non sa che pesci prendere. Ormai la gente, per frustrazione, vota chi non era al governo al momento del collasso. (…) Ormai la gente ha la certezza che qualsiasi governo non serva a niente. I cittadini hanno perso fiducia nell’élite al comando. E, se vuole la mia personale opinione, penso che abbiano ragione.
Perché?
Da un po’ ormai vado dicendo che i politici non hanno più in mano gli strumenti per governare.
Al momento, siamo in una fase di divorzio tra politica e potere. Il potere è la capacità di fare determinate cose, la politica è la capacità di decidere quali cose devono essere fatte per il Paese. Se 50 anni fa politica e potere erano nelle mani dei governi, oggi il potere è stato globalizzato. Ma la politica no, è nazionale. O, al limite, internazionale. (…)
Prima parlava di rivedere gli stili di vita, costruire un modello di società alternativo.
Non si tratta solo di eliminare i surplus consumistici. Ma di reimparare – o imparare da zero – a essere felici stando nella comunità, coltivare relazioni di vicinato, cooperare (…) In passato, per la maggior parte della storia dell’umanità, gli uomini trovavano soddisfazione, per esempio, nel creare e nello svolgere lavori ben fatti. I sociologi lo chiamano istinto dell’uomo-artigiano.
E se non ci riusciremo, se non ci sarà la volontà di tornare artigiani?
Allora – è la seconda possibilità – la vita sarà ancora più dura. La natura minaccerà la nostra esistenza. E, se anche non soccomberemo, ci saranno guerre sanguinose.
Guerre per le risorse?
Sì, come ha ipotizzato Harald Welzer in Climate wars, a differenza del 1900, le guerre non saranno ideologiche, ma molto materiali. Ci potrebbero essere grosse guerre per la redistribuzione. (…)  I disoccupati europei non sono più neanche potenziali lavoratori. La classe operaia – e più in generale la classe lavoratrice dipendente – sta scomparendo molto velocemente. Come nel 1900 accadde con i contadini. (…)
Eppure lei ha vissuto tempi peggiori: la guerra, i regimi, la discriminazione. È davvero così doloroso vivere oggi?
È sbagliato pensare alla società liquida, come a una società leggera e superficiale. Non ha senso comparare i livelli di felicità di epoche e generazioni diverse. Per sentire la mancanza di qualcosa, devi prima provarne l’esperienza. Si può dire che ogni tempo abbia le proprie gioie e le proprie afflizioni. Ma non che oggi un giovane rimasto senza Facebook soffra meno che a vivere nel Medioevo.
Qual è lo scoglio più duro della crisi attuale?
La deprivazione. Quattro anni fa non sarebbe stato neanche immaginabile perdere la capacità di comprare una casa, di chiedere prestiti…
Con il crollo dei consumi morirà il capitalismo?
Chissà. In passato molti hanno profetizzato la sua fine. Invece, visto che non siamo profeti, quando stava per morire il capitalismo è sempre risorto. (…)
Ora anche il business del credito però sembra arrivato al capolinea.
Il capitalismo è in seria difficoltà e sembra assai improbabile che possa sopravvivere. L’ultima sua metamorfosi è grigia. Ormai il Prodotto interno lordo si regge su un’economia illusoria e intangibile, disconnessa dai problemi genuini della gente, che fa profitti solo spostando moneta (….)