venerdì 20 luglio 2012

Uruguay: il Presidente rinuncia al 90% del proprio stipendio

La sua vittoria in Uruguay, nel marzo 2010, fu un evento storico. La capitale Montevideo esplose. Persone di tutte le età e classi sociali scesero in strada per festeggiare il nuovo presidente: l'ex guerrigliero di sinistra José Mujica che, dal Movimento de participación popular (Mpp) contro la dittatura, era arrivato alla guida del Paese. 
Ora Mujica, 78 anni, fa notizia per un altro motivo: vive con 800 euro al mese, rappresentando il miglior modello di austerity su scala internazionale. 
Pepe, come vuole essere chiamato il presidente, abita in una fattoria a Rincón del Cerro, alla periferia della capitale. Una cascina che non gli appartiene perché è della moglie, la senatrice Lucía Topolansky. 
Per il fisco, l’unico patrimonio di Mujica è una vecchia Volkswagen Fusca color celeste. Il presidente uruguaiano non sa cosa sia una carta di credito, né un conto in banca. E la sua unica scorta è il cagnolino Manuela. 
Lontano dagli stili di vita opulenti dei suoi colleghi oltrefrontiera, ogni mese Mujica trattiene per sé solo 20 mila pesos, circa 800 euro, dei 250 mila (quasi 10 mila euro) che riceve come stipendio. 
Il resto - quasi il 90% del salario - viene distribuito al Fondo Raúl Sendic, che si occupa dei settori più poveri della popolazione, al Mpp che aiuta cooperative sociali, e a varie organizzazioni non governative (ong), che lavorano per costruire abitazioni nel Paese. 

Mujica, ex venditore di fiori, negli Anni '60 ha fatto parte del Movimento di liberazione nazionale dei Tupamaros: l’organizzazione radicale ispirata al marxismo, che si rifaceva alla Rivoluzione cubana. Sotto la dittatura di Jorge Pacheco Areco, il movimento si è poi trasformato in un’organizzazione di guerriglia urbana. Ferito sei volte in scontri armati, è stato arrestato quattro volte, è evaso altre due e ha trascorso in carcere circa 15 anni. Fino alla sua liberazione, nel 1985, con l’amnistia generale. 

LA SVOLTA POLITICA. 
Da allora, prima di diventare presidente, Mujica ha trascorso il tempo nella sua fattoria a Rincón del Cerro, impegnandosi nella fondazione del Mpp, del quale - dal 1999 - è stato prima deputato, poi senatore. Parte del gruppo di centro-sinistra Frente Amplio, l'Mpp è stato decisivo per l’elezione alla presidenza del Paese, nel 2005, del socialista Tabaré Vázquez. Del suo governo, tra il 2005 e il 2008, Mujica è stato ministro per l’Allevamento, l’agricoltura e la pesca. 

NIENTE SPRECHI, NÉ PROTOCOLLI. 
I suoi aficionados lo ricordano ancora giovane, dopo la caduta della dittatura militare, a cavallo della sua Vespa che lo portava in parlamento. Ma neanche da presidente il suo stile di vita è cambiato. Chioma grigia spesso scompigliata, mai la cravatta, l’aria di uno che si trova lì per caso, soprattutto quando è vicino ad altri capi di Stato, da quando è stato eletto ha subito proposto di donare la sua pensione presidenziale al Paese, accettando come auto blu una semplice Chevrolet Corsa. 
Niente sprechi, niente protocolli, Pepe si ferma sempre a parlare con i cittadini, saluta il macellaio del quartiere, abbraccia i ragazzi della piccola squadra di calcio Huracán, si mette in posa per qualche scatto. 
Un modo di governare che attira simpatie ovunque. Nonostante sia un ex combattente vecchio stampo, di fede cubana, Mujica gode di buona reputazione anche negli Stati Uniti. 
E anche in Europa ha conquistato supporter, nonostante, dopo l’elezione, la sua unica visita sia stata in Spagna. Si trattava di un viaggio privato per incontrare uomini d’affari e potenziali investitori. Ora Mujica vuole attrarre nuovi capitali stranieri, soprattutto nel settore minerario, promuovere il commercio e lo sviluppo economico nel suo Paese. (da Lettera43



31 anni dopo la fondazione del partito Fronte Ampio, il neo eletto Presidente dell’ Uruguay pronuncia il suo primo discorso: 
“Non ci sono ne' vincitori ne' vinti, Popolo, dovresti essere tu qua sopra e noi lì sotto ad applaudirti” e rivolgendosi ai suoi avversari politici:” Se tu sei allegro non vuole dire che ti devi permettere di offendere chi non lo è. Chiedo scusa da vecchio combattente, se a volte mi ha tradito la lingua. vi invito a sederci a parlare per ottenere quello che vogliamo nel futuro». 

José Mujica, ex fioriaio ha scontato 15 anni di carcere per aver combattutto il regime del suo Paese, ed una volta diventato Presidente ha fatto quello che ci si aspetterebbe da una persona che ha a cuore il proprio Paese, fare gli stessi sacrifici richiesti ai cittadini. 
E così, Pepe soprannome con il quale ama farsi chiamare, ha rinunciato al 90% del proprio stipendio, mettendo a disposizione il surplus ad un fondo sociale che aiuta i suoi connazionali più poveri. Al Presidente dell’Uruguay restano in tasca 800 euro al mese dei 9.000 ai quali avrebbe diritto. Vivere con 800 euro si può: è questa la risposta che ama dare a chi gli chiede come mai questa scelta, e aggiunge che ci sono persone, tra il suo popolo, che vivono con molto meno. Questo esempio è seguito anche dalla moglie del Presidente che rinuncia a gran parte della sua indennità da senatrice, per donarla ai poveri. 
Josè Mujica, che non ha conto in banca, annovera fra le sue proprietà solo una vecchia Volkswagen e abita in una modesta casa di periferia. Non solo ha rinunciato al look in giacca e cravatta, ma anche alla scorta… Di qualche mese fa la sua proposta di legalizzare l’uso, la vendita e la produzione di marijuana. 

JoSé Mujica, al summit di Rio pronuncia un altro importante discorso: 
“Autorità presenti di tutte le latitudini e organismi, grazie mille. Grazie al popolo del Brasile e alla sua Sra. Presidentessa, Dilma Rousseff. Mille grazie alla buona fede che, sicuramente, hanno presentato tutti gli oratori che mi hanno preceduto. Esprimiamo la profonda volontà come governanti di sostenere tutti gli accordi che questa nostra povera umanità possa sottoscrivere. 
Comunque, permetteteci di fare alcune domande a voce alta. Tutto il pomeriggio si è parlato dello sviluppo sostenibile. Di tirare fuori le immense masse dalle povertà. Che cosa passa nella nostra testa? L’attuale modello di sviluppo e di consumo delle società ricche? Mi faccio questa domanda: che cosa succederebbe al pianeta se gli indù in proporzione avessero la stessa quantità di auto per famiglia che hanno i tedeschi? Quanto ossigeno resterebbe per poter respirare? Più chiaramente: 
Ha oggi il Mondo gli elementi materiali per rendere possibile che 7 o 8 miliardi di persone possano sostenere lo stesso grado di consumo e sperpero che hanno le più opulente società occidentali? Sarebbe possibile tutto ciò? O dovremmo sostenere un giorno, un altro tipo di discussione? Perché abbiamo creato questa civilizzazione nella quale viviamo: figlia del mercato, figlia della competizione e che ha portato un progresso materiale portentoso ed esplosivo. 
Ma l’economia di mercato ha creato società di mercato. E ci ha rifilato questa globalizzazione. Stiamo governando la globalizzazione o la globalizzazione ci governa??? E’ possibile parlare di solidarietà e dello stare tutti insieme in una economia basata sulla competizione spietata? Fino a dove arriva la nostra fraternità?  
Non dico queste cose per negare l’importanza di quest’evento. Ma al contrario: la sfida che abbiamo davanti è di una magnitutine di carattere colossale e la grande crisi non è ecologica, è politica! L’uomo non governa oggi le forze che ha sprigionato, ma queste forze governano l’uomo … E la vita! 
Perché non veniamo alla luce per svilupparci solamente, così, in generale. Veniamo alla luce per essere felici. Perché la vita è corta e se ne va via rapidamente. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare. Ma se la vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare un plus e la società di consumo è il motore, perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, appare il fantasma del ristagno per ognuno di noi. Ma questo iper-consumo è lo stesso che sta aggredendo il pianeta. Però loro devono generare questo iper-consumo, producono le cose che durano poco, perché devono vendere tanto. Una lampadina elettrica, quindi, non può durare più di 1000 ore accesa. Però esistono lampadine che possono durare 100mila ore accese! Ma questo non si può fare perché il problema è il mercato, perché dobbiamo lavorare e dobbiamo sostenere una civilizzazione dell’usa e getta, e così rimaniamo in un circolo vizioso. 
Questi sono problemi di carattere politico che ci stanno indicando che è ora di cominciare a lottare per un’altra cultura. Non si tratta di immaginarci il ritorno all’epoca dell’uomo delle caverne, né di avere un monumento all’arretratezza. Peró non possiamo continuare, indefinitamente, governati dal mercato, dobbiamo cominciare a governare il mercato. 
Per questo dico, nella mia umile maniera di pensare, che il problema che abbiamo davanti è di carattere politico. I vecchi pensatori – Epicuro, Seneca o finanche gli Aymara – dicevano: “povero non è colui che tiene poco, ma colui che necessita tanto e desidera ancora di più e più”. Questa è una chiave di carattere culturale. 
Quindi, saluterò volentieri lo sforzo e gli accordi che si fanno. E li sosterrò, come governante.So che alcune cose che sto dicendo, stridono. Ma dobbiamo capire che la crisi dell’acqua e dell’aggressione al medio ambiente non è la causa. La causa è il modello di civilizzazione che abbiamo montato. E quello che dobbiamo cambiare è la nostra forma di vivere! 
Appartengo a un piccolo paese molto dotato di risorse naturali per vivere. Nel mio paese ci sono poco più di 3 milioni di abitanti. Ma ci sono anche 13 milioni di vacche, delle migliori al mondo. E circa 8 o 10 milioni di meravigliose pecore. 
Il mio paese è un esportatore di cibo, di latticini, di carne. E’ una semipianura e quasi il 90% del suo territorio è sfruttabile. I miei compagni lavoratori, lottarono tanto per le 8 ore di lavoro. E ora stanno ottenendo le 6 ore. Ma quello che lavora 6 ore, poi si cerca due lavori; pertanto, lavora più di prima. Perché? 
Perché deve pagare una quantità di rate: la moto, l’auto, e paga una quota e un’altra e un’altra e quando si vuole ricordare … è un vecchio reumatico – come me e la vita gli è già passata davanti” 
E allora uno si fa questa domanda: è questo il destino della vita umana? Queste cose che dico sono molto elementari: lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto, l’elementare. Precisamente. Perché è questo il tesoro più importante che abbiamo: la felicità! 

Quando lottiamo per il medio ambiente, dobbiamo ricordare che il primo elemento del medio ambiente si chiama felicità umana!”
da Il Disobbediente
© 16.07.2012

mercoledì 18 luglio 2012

Federico ha 25 anni

Cari amici,  
 
I poliziotti condannati per aver picchiato e ucciso mio figlio 18enne Federico Aldrovandi non andranno in carcere e sono ancora in servizio. 
C'è un solo modo per evitare ad altre madri quello che ho dovuto soffrire io: 
adottare in Italia una legge contro la tortura. 
La morte di mio figlio non è un'eccezione: diversi abusi e omicidi commessi dalle forze dell'ordine rimangono impuniti. 
Ma finalmente possiamo fare qualcosa: alcuni parlamentari si sono uniti al mio appello disperato e hanno chiesto di adottare subito una legge contro la tortura 
che punirebbe i poliziotti che si macchiano di questi crimini. 
Per portare a casa il risultato però hanno bisogno di tutti noi. 
Oggi è il compleanno di mio figlio e vorrei onorare la sua memoria con il vostro aiuto: insieme possiamo superare le vergognose resistenze ai vertici delle forze dell'ordine e battere gli oppositori che faranno di tutto per affossare la proposta. 
Ma dobbiamo farlo prima che il Parlamento vada in ferie! 
Vi chiedo di firmare la petizione per una legge forte che spazzi via l'impunità di stato in Italia e di dirlo a tutti - la consegnerò direttamente nelle mani del Ministro dell'Interno non appena avremo raggiunto le 100.000 firme: 
 
http://www.giustiziaperaldro.it/ 
 
Federico era già ammanettato quando i poliziotti lo hanno picchiato così forte da spaccare due manganelli e da mettere fine alla sua giovane vita. 
Dopo anni di vero e proprio calvario, la Corte di Cassazione li ha condannati per eccesso colposo a tre anni e mezzo, ma i poliziotti dovranno scontare solo 6 mesi senza farsi neanche un giorno di carcere a causa dell'indulto e incredibilmente sono ancora in servizio. 
L'impunità succede spesso in casi come questo, perché il governo non ha ancora adottato un reato preciso e quelli esistenti cadono spesso in prescrizione. 
La perdita di mio figlio mi ha quasi distrutto, ma sono determinata a cambiare il sistema. 
I difensori dei diritti umani ritengono che una legge che adotti la Convenzione Onu contro la tortura, che l'Italia ha ratificato nel 1989 e che non ha mai rispettato, garantirebbe alle vittime italiane della tortura e della brutalità dello stato un corso veloce della giustizia e sanzioni appropriate, da accompagnare alla riforma per la riconoscibilità dei poliziotti. 
Ma ancora più importante, metterebbe fine una volta per tutte all'impunità che garantisce che oggi i poliziotti siano al di sopra della legge. 
L'Italia non è il Sudan. 
Non c'è alcuna ragione per cui il nostro sistema giudiziario provi a mettere sotto silenzio reati commessi dalle forze dell'ordine come violenze, stupri e omicidi, dal massacro alla Diaz al G8 di Genova alle recenti uccisioni come quella di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva e Aldo Bianzino. 
Per favore UNITEVI a me e insieme costruiamo un appello assordante per una legge forte per fermare la tortura e per far espellere gli agenti responsabili di questi crimini odiosi dalle nostre forze dell'ordine - firma sotto e dillo a tutti i tuoi amici: 

http://www.giustiziaperaldro.it/ 

Nessuno potrà restituirmi mio figlio, e oggi non potrò festeggiare il suo 25° compleanno con lui. 
Ma insieme possiamo ripristinare la giustizia e aiutare a prevenire la sofferenza che ho dovuto provare io per la perdita di un figlio portato via dallo stato ad altre madri e ad altre famiglie. 
 
Con speranza e determinazione, 
Patrizia Moretti, madre di Federico.  
Più informazioni 

L'appello perché ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi non succeda mai più (Giustizia per Aldro)
http://www.giustiziaperaldro.it/

Caso Aldrovandi, sentenza definitiva. Condannati i quattro poliziotti
(La Repubblica)
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/06/21/news/aldrovandi_sentenza_cassazione-37630821/

In Italia la tortura non è reato (Il Fatto quotidiano)
http://www.radicali.it/rassegna-stampa/lettera-tortura-italia-non-reato

Incontrerò il Ministro Cancellieri ma non posso perdonare i
poliziotti (dal blog dei genitori di Federico Aldrovandi)
http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/federico_aldrovandi/2012/07/07/perdono/

Uno dei poliziotti condannati insulta su Facebook la mamma di Federico Aldrovandi (Corriere della Sera)
http://www.corriere.it/cronache/12_giugno_25/aldrovandi-querela-insulti-facebook-poliziotti_64562480-bebd-11e1-8494-460da67b523f.shtml

Morire di carcere: dossier 2000-2011 (Ristretti Orizzonti)
http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/index.htm

venerdì 13 luglio 2012

Abbattiamo gli statali con gli F35

Non è vero che il governo Monti non ne azzecca una. Anzi, se ci pensate, chiamare “spending review” dei ferocissimi tagli è un’idea geniale. Tipo chiamare “delete wedding” un sanguinoso divorzio, oppure “leg reducing” l’amputazione di una gamba. E’ dunque lecito tirare un sospiro di sollievo nell’apprendere che spariranno 18.000 posti letto negli ospedali, ma che in compenso compariranno 90 cacciabombardieri Strike Fighter F-35 che costano una dozzina di miliardi. Non fate quella faccia e non fatevi prendere dalla demagogia. Amici, sveglia! Quegli aerei ci servono come il pane, e sapete perché? Perché abbiamo speso una fortuna per costruirci una nuova portaerei, la Cavour, che però ha il ponte un po’ corto. Quindi ci servono aerei che decollano in poco spazio, anche se sono cari, e i vecchi catorci a decollo verticale non vanno più di moda. La Cavour in navigazione ci costa 200.000 euro al giorno, e sono soldi buttati se sopra non ci mettiamo aerei adatti. Tecnicamente è come spendere un sacco di soldi per comprare un ferro da stiro e poi scoprire che può stirare solo camicie di cachemire purissimo. O butti il ferro bestemmiando come un carrettiere, o cominci a investire in camicie più di Briatore. Dunque spenderemo 12 miliardi in aerei da bombardamento per non avere il senso di colpa di spendere 200 mila euro al giorno per niente. Avessimo investito di più in psichiatri per generali, ministri e lobby degli armamenti non saremmo a questo punto. Ma ora che la cosa è fatta conviene ottimizzare. Come potremmo usare 90 cacciabombardieri fighissimi e supertecnologici in modo produttivo e addirittura proficuo nell’attuazione della spending review? Magari facendogli bombardare, incenerendolo all’istante, un lavoratore statale su dieci e abbattendo con i razzi intelligenti a ricerca termica un miliardo all’anno del fondo sanitario nazionale.
Chissà, forse passando a volo radente sulle spese dei comuni si potranno tagliare servizi ai cittadini per 7,2 miliardi, il che equivale a fare il pieno di carburante alla portaerei Cavour per una decina d’anni. Niente male, no?


Alessandro Robecchi,
Il Manifesto (Domenica 8 Luglio)

Inceneritore: la prima fumata nera del Gerbido

Provincia e Ato chiedono a Torino di mantenere il controllo di Trm. Sulle stesse posizioni anche gli altri sindaci della zona. Entro luglio la gara e Palazzo Civico sta valutando di cedere solo il 49% (Fonte: LoSpiffero)

L’inceneritore del Gerbido deve rimanere in mano pubblica. Il presidente della Provincia di Torino Antonio Saitta e il numero uno dell’Ato Rifiuti Paolo Foietta hanno intensificato negli ultimi giorni il forcing nei confronti del Comune di Torino per scongiurare la dismissione dell’80% delle quote di Trm, la società che dovrà gestire l’impianto. Gli strumenti che hanno in mano per dissuadere il sindaco Piero Fassino sono in parte spuntati: l’associazione d’ambito ha il solo compito di vigilare sull’affidamento in essere, assicurandosi che il nuovo soggetto, quando subentrerà, abbia i requisiti previsti dalla legge. Insomma, non ha potere di veto, ma certo rappresenta un attore di cui non si può non tenere conto in questa partita.
Sono giorni decisivi: entro la fine del mese Palazzo Civico pubblicherà la gara per la cessione di una parte delle azioni, ma ad oggi non vi sono certezze. Da un lato la volontà di seguire un percorso intrapreso nel 2002 senza stravolgerne i presupposti (controllo pubblico, appunto), dall’altra la disperata necessità di Torino di far cassa per sistemare i conti - "io devo trovare 60 milioni per rientrare nel patto di stabilità" avrebbe confidato Fassino a uno dei suoi interlocutori -. Ci sono poi gli istituti bancari che hanno finanziato l’opera - a partire dalla francese Bnp Paribas, a capo della cordata, ma anche la Bei, Banca d’investimenti europea e, con quote inferiori, Intesa San Paolo e Unicredit - anche per via delle garanzie che poteva offrire una città come Torino: le stesse garanzie che pretendono qualora subentrassero altri soggetti.

Entro la prossima settimana con ogni probabilità l’Antitrust si esprimerà su una delibera di ricognizione assunta dall’assemblea dell’Ato per verificare la regolarità dei passi finora assunti, tenendo presente che, per legge, al 31 dicembre prossimo non esisteranno più le cosiddette società in house - quale è Trm - e che il socio pubblico è tenuto comunque a cedere almeno il 40% delle proprie quote a un privato, il quale dovrà avere caratteristiche di partner industriale e non solo finanziario: insomma un socio operativo, non certo un fondo di investimenti.
Intanto il fronte del no alla cessione del controllo pubblico si allarga, a partire dai sindaci dei comuni limitrofi – i più coinvolti sono Grugliasco e Beinasco - che hanno condiviso con Torino questa impresa, accollandosi l’onere di doverla far digerire ai propri cittadini: finora sono rimasti in silenzio, ma hanno già fatto sapere di non gradire affatto la decisione del capoluogo di cedere l'80% delle sue quote azionarie. E in questo contesto si inserisce anche il comitato di controllo, nato per creare un collegamento tra i cittadini e l’amministrazione, la cui presidente Erika Faienza, che è pure consigliere provinciale, da tempo ormai è in fibrillazione e minaccia vibranti proteste.
Le pressioni aumentano giorno dopo giorno, mentre all’interno del Consiglio comunale di Torino già molti esponenti della maggioranza hanno palesato più di una perplessità nei confronti di questa operazione, anche all’interno della maggioranza di governo. I rifiuti sono materia troppo delicata per affidarli a privati, è il ragionamento di molti di loro. E da Palazzo di Città trapela la voce secondo la quale il sindaco Fassino starebbe tornando a ragionare sulla possibilità di mettere sul mercato solo il 49% di Trm conservando il controllo pubblico sulla società.

giovedì 12 luglio 2012

A cosa serve uno scrittore

Lo scrittore cileno Luis Sepulveda sceglie di raccontare la marcia e la lotta dei minatori spagnoli e di lasciare da parte il romanzo che stava scrivendo. “Le parole mi indicano che devo lasciare da parte il romanzo che sto scrivendo e raccontare, narrare, i piccoli grandi dettagli della resistenza dei minatori”.

Luis Sepulveda - A volte le parole sono prive di senso, e se mai l'hanno avuto lo hanno perso per strada, ma io continuo a credere nella loro forza per mettere in ordine le cose, i fatti e, una volta in ordine, valutare se vanno bene così o se devono essere cambiati. Gli anni passano e invecchiano con me. Mi convinco ogni giorno di più che leggo libri che non interessano a nessuno e che gli altri leggono libri che non interessano a me.

Ogni giorno che passa dico NO a nuovi inviti a incontri con scrittori perché mi stancano, mi infastidiscono gli show letterari, le passerelle su cui si esibiscono le peggiori vanità e le mediocrità meglio conservate. Ogni giorno che passa mi piacciono di più la vita, la strada, i fatti sociali, perché trovo che là le parole assolvano ancora a una funzione necessaria. A volte sento che vivo in mezzo a realtà parallele e che ho l'obbligo di scegliere in quale muovermi. Così, per esempio, oggi, 25 giugno 2012, mentre scrivo queste righe, mi arriva l'invito a una conferenza.
Uno scrittore latinoamericano di passaggio in Spagna disserterà sulle analogie esistenti fra i suoi libri - è autore di pessimi romanzi - e la grandissima opera di Marcel Proust. So che non sarà una conferenza interessante e ancor prima di rispondere "no, grazie", mi arriva un altro invito: si tratta di accompagnare i minatori di carbone delle Asturie, in sciopero ormai da un mese per chiedere che non vengano chiuse le ultime miniere, perché sarà la morte delle cittadine, dei paesi, delle località che vivono di estrazione. I minatori hanno intrapreso una marcia su Madrid. Allora mi chiedo se sarei capace di assistere alla conferenza dello scrittore latinoamericano di passaggio in Spagna, di ascoltare e guardare il suo striptease intellettuale, il suo egotico show comparativo "Proust and me" e scrivere qualcosa al riguardo.
No, non potrei, perché il valore che do alle parole mi ha insegnato che hanno un profondo senso della vergogna e soffrono se usate male. Invece, so che sono capacissimo di affacciarmi alla finestra, guardare a sud - tutto è sempre a Sud! - e vedere che sotto l'eterna pioggerellina che avvolge le valli asturiane, che bagna ogni cosa con una cappa di umidità sottile come un velo da sposa, varie centinaia di uomini e donne si radunano sul ciglio della strada. No, mi dicono le parole, non dire strada, dì piuttosto sentiero. È vero, quegli uomini e quelle donne si radunano sul ciglio del sentiero sterrato che solca serpeggiando i prati e unisce i vari villaggi della regione mineraria.
Le parole mi dettano quello che vedo e mi indicano che il sole sta diradando la nebbia, che la pioggerellina, l'orbayu, cede il passo a una luce intensa che esalta il verde rigoglioso dei prati, il bianco delle piccole case coi tetti di tegole rosse, le montagne che nascondono il carbone di cui vivono gli uomini e le donne delle miniere. Le parole mi dicono che devo metterle bene in ordine perché si notino le bandiere rosse dei sindacati in testa al corteo e sempre le parole mi indicano che devo lasciare da parte il romanzo che sto scrivendo e raccontare, narrare, i piccoli grandi dettagli della resistenza dei minatori. So di essere bravo nel mio mestiere.
Qualcuno sosterrà che non conosco modestia, ed è vero, non la conosco, perché ho sempre creduto che la modestia sia una virtù che deve essere praticata da chi ha davvero motivo di essere modesto, per esempio lo scrittore di pessimi romanzi che non esita a dissertare su "Proust and me". Posso immaginare e creare mondi di finzione. Ma le parole che hanno deciso di unirsi a chi resiste mi chiedono di narrare l'odissea quotidiana di un uomo che si alza alle sei del mattino.
L'uomo fa colazione con il caffè e il latte della mucca di un vicino, varie fette di pane, che sua moglie taglia dalla pagnotta mentre la crosta scricchiola con il suono più vicino all'amore. Bacia la moglie, il bambino e la bambina e si avvia. Dopo pochi minuti arriva in un capannone, tira una catena e cala giù la pesante tenuta da minatore, gli scarponi con la punta rinforzata, i guanti di protezione, il casco dotato di lampada. Si cambia, la catena risale, ora portando in alto i vestiti normali, e le parole e l'uomo e io sappiamo che quella catena tante volte non scende più, la miniera ha ingoiato per sempre un minatore. È possibile che fra i romanzi dello scrittore latinoamericano di passaggio in Spagna e quelli di Marcel Proust ci sia qualche analogia.
Ma a noi che ce ne frega? mi dicono le parole e continuano a dettarmi i passi di quell'uomo verso una gabbia, verso l'ascensore che, insieme ad altri minatori, lo cala nelle viscere della terra, nel buio che a ogni metro di discesa diventa più fitto e appiccicoso. I minatori accendono le lampade dei caschi e così le parole e io vediamo che sono arrivati nella galleria principale. Là salgono su un trenino che li porta in altre gallerie. Scendono dal trenino, prima camminano eretti, man mano che avanzano il tunnel si fa più basso e più stretto, allora si chinano, il buio e l'umidità rendono l'aria densa, e arrivano così alla vena, al carbone che fa vivere il piccolo villaggio duemila metri sopra di loro. Le parole scelgono come chiamare quello che copre loro le orecchie quando i picconieri feriscono la roccia con i pugnali del migliore acciaio.
I volti dei picconieri si tendono per lo sforzo, la montagna resiste, e anche loro, e ancora di più resistono le parole, perché vogliono dare nomi, vogliono che io narri la profondità del buco che i picconieri hanno aperto, e che narri come i brillatori piazzano le cariche esplosive e danno il segnale di mettersi al riparo. Sto narrando il lavoro, sto narrando lo sforzo umano. Grazie, parole. I minatori si rifugiano in un angolo. L'esplosione scuote la miniera, la montagna geme, si sente ferita, umiliata, e nel suo vocione di roccia s'intuisce il desiderio di vendetta, ma i minatori coperti di polvere scura guardano le travi che sostengono la galleria e poi cominciano a rimuovere i detriti finché la vena di carbone non spicca nera nel buio più nero.
Quegli uomini che ora vedo marciare in superficie, attraversare le valli per unirsi ad altri minatori, e qualche giorno dopo ad altri ancora, fino a diventare centinaia, mettendo in ordine le parole nelle proprie bocche, dicono che la loro lotta è per il pane, per il lavoro, per la vita. I minatori vengono accolti dalla gente nei paesi che attraversano.
"Coraggio, compagni!" li salutano e offrono acqua, pane, qualche mela ribelle e resistente cresciuta in un frutteto asturiano. I minatori si riposano e le parole e io ci sediamo vicino a loro, perché la loro stanchezza è la nostra, la loro fatica è la nostra, il loro coraggio è il nostro e la loro volontà di resistere è il nostro ossigeno. Metto in ordine le parole che mi consentono di narrare l'universo e poiché sono fedele ai miei, a coloro che rendono possibile la vita con il loro sforzo di resistenza, scrivo, narro e resisto.
(Da: La Repubblica del 9 luglio 2012)

venerdì 6 luglio 2012

Quel delitto che l'Italia non punisce

di Vladimiro ZAGREBELSKY
(La Stampa, 06.07.2012)

La sentenza della Cassazione conclude sul piano della giustizia penale una vicenda nazionale tra le più gravi. Riferendosi ai dirigenti della polizia e agli agenti che avevano agito nella scuola Diaz in coda alla giornata di proteste contro il G8 del 2001, la Corte di appello di Genova, nella sentenza che ora la Cassazione sostanzialmente ha confermato, aveva parlato di «tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile» e di «enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero».

I fatti sono noti. Per giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai manifestanti che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme, furono arrestati. E’ noto anche che costoro furono minacciati ed umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due furono in pericolo di vita. Le imputazioni hanno riguardato la calunnia nei confronti degli arrestati, la falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone hanno dato luogo ad imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti, funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di prescrizione.

E’ sui fatti gravissimi cui si riferiscono le imputazioni di lesioni che merita qui soffermarsi. Sul resto almeno, pur dopo undici anni, la giustizia penale si è pronunciata. Ma le violenze fisiche, pur accertate, sono rimaste senza sanzione. Almeno alcune di queste hanno avuto la sostanza di ciò che a livello internazionale si chiama tortura. Mi riferisco alla definizione che ne offre la Convenzione dell’Onu contro la tortura, del 1984, che l’Italia ha ratificato nel 1988: l’atto con il quale un agente della funzione pubblica - personalmente o da altri su sua istigazione o con il suo consenso - infligge dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, per ottenere informazioni o confessioni, o per punire o intimorire la vittima. Oltre ad episodi di vera tortura, nell’assalto alla scuola Diaz se ne sono verificati altri, che costituiscono trattamenti inumani e degradanti, anch’essi vietati dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo, che l’Italia ha ratificato nel 1955.

La Convenzione Onu contro la tortura impone agli Stati di prevedere nel loro sistema penale interno il delitto di tortura, con pene di gravità adeguata, mettere in atto opera di prevenzione e assicurare la punizione dei responsabili. Analogo obbligo deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e da quella europea contro la tortura.

Ma l’Italia non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura. La tortura, quindi, come tale, non è punibile in Italia. E rispetto all’obbligo assunto dall’Italia nei confronti della comunità internazionale, non si tratta semplicemente di un lungo ritardo o di una disattenzione. L’Italia ha ricevuto nel corso degli anni una serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni. Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano l’arresto illegale, le percosse, le lesioni, le minacce, l’omicidio. Una risposta capace di trarre in errore, come la vicenda delle violenze nella scuola Diaz o l’altra di violenze su detenuti in carcere recentemente giudicata dal Tribunale di Asti, ben dimostrano. Nessuna di quelle norme ha portato a condanne: i reati di lesioni contestati si sono prescritti, finendo nel nulla. Nel frattempo sembra che nemmeno siano state applicate sanzioni disciplinari e anzi che qualcuno dei responsabili abbia ottenuto promozioni.

Se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo. Accanto all’inadeguata gravità delle pene e l’operare dei condoni, è il meccanismo italiano della prescrizione che rende solo apparente la repressione dei fatti di tortura (come peraltro anche quella di altri gravi reati). Ma di questo, nella sua risposta al Consiglio dei diritti umani, il governo non ha fatto cenno.

La conseguenza sul piano della credibilità internazionale dell’Italia è seria. Essa sarà aggravata e certificata quando sulla responsabilità del governo italiano, per aver lasciato impunite quelle violenze, si pronuncerà la Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale già sono stati presentati ricorsi.

In Parlamento si sono arenate iniziative legislative. Il pretesto fatto valere è stato quello della necessità di proteggere la polizia da false accuse. Ma le false accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono anche accuse più che fondate. Per altro verso in Parlamento si è preteso che le violenze, per costituire tortura, dovessero essere «ripetute» e non soltanto, come è ovvio, raggiungere un certo livello di gravità. In conclusione nulla si è fatto. Recentemente la discussione è ripresa. V’è chi si preoccupa e sostiene che solo ipotizzare in una legge che un agente pubblico possa torturare è offensivo per i corpi di polizia. Purtroppo i fatti dimostrano che non si tratta di ipotizzare, ma di prevedere ed essere pronti a punire. E a me pare sia offensivo piuttosto pensare che le forze di polizia, nel loro complesso, preferiscano l’impunità di coloro che tradiscono la loro missione di legalità e rispetto delle persone.

Per attenuare l’impressione che si abbiano di mira le forze di polizia e trovare in Parlamento la necessaria condivisione, sta emergendo l’ipotesi di prevedere un delitto generico di tortura, che potrebbe essere commesso da chiunque, aggiungendo un’aggravante quando il fatto sia commesso da un agente pubblico. Un recente disegno di legge di iniziativa del sen. Marcenaro ed altri va in questa direzione. Soluzione tuttavia non facile, perché la finalità che muove il torturatore, nella definizione data dalla Convenzione Onu, rinvia naturalmente alla azione di forze di polizia o comunque ad organi dello Stato e difficilmente invece ad un soggetto indifferenziato. Ma, se serve a sbloccare la situazione, può trattarsi di soluzione opportuna.

E sarebbe bene che, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo discuterà i ricorsi contro l’Italia o il Consiglio dei diritti umani dell’Onu riprenderà in esame la questione, il governo si presenti potendo dire almeno che è stato messo rimedio, per il futuro, alla grave mancanza.







Banche a energia nucleare

“Le armi nucleari sono un’oscenità. Sono l’antitesi assoluta dell’umanità e della bontà in questo mondo”. Lo ha detto il premio Nobel per la pace Desmond Tutu, richiamando l’attenzione su una minaccia che ancora pende sull’umanità.
In questo momento oltre 20.000 armi nucleari potrebbero porre fine per sempre all’esperienza umana, come se le guerre dell’ultimo secolo non avessero insegnato nulla.
Eppure quello degli ordigni nucleari è un mercato fiorente, tanto che ogni anno gli stati spendono più di 100 miliardi di dollari per costruire testate o modernizzare il proprio arsenale. Una torta gigantesca, nella quale mangiano in tanti. In primis le aziende del settore e poi le banche, che continuano a fare profitti miliardari sull’insicurezza di tutti. Va da sé che senza il sostegno del mondo bancario mancherebbero le risorse per alimentare la produzione: un evidente gioco di complicità, nonostante i proclami sulla responsabilità sociale di molti istituti.
A fare un quadro dettagliato della situazione ci ha pensato l’Ican (Campagna internazionale per la messa al bando delle armi nucleari) in un voluminoso rapporto dal titolo “Don’t bank on the bomb” pubblicato nel marzo 2012 e redatto dal gruppo olandese Profundo. Nelle 180 pagine dello studio sono state analizzate 322 istituzioni finanziarie distribuite in 30 paesi, nelle loro relazioni con le 20 maggiori società operanti nel comparto del nucleare militare. La metà delle banche ha sede negli Usa, un terzo in Europa.
Gli istituti più coinvolti cono la francese Bnp Paribas (presente anche in Italia attraverso Bnl e Bnp Italia), la tedesca Deutsche Bank, le statunitensi Bank of America, Black Rock, Jp Morgan Chase e la giapponese Mitsubishi Financial.
Anche il nostro paese tuttavia – sul quale ci concentreremo – è tutt’altro che assente. Tra i 20 grandi produttori infatti compare l’italiana Finmeccanica, controllata da nostro Ministero dell’Economia. La società ha in mano il 25% di MBDA, consorzio europeo compartecipato da Bae System (37,5%) ed Eads (37,5%) e leader mondiale nella produzione di missili e sistemi missilistici (oltre 3.000 missili prodotti nel 2010).
Finmeccanica ha rapporti consolidati con gran parte del sistema bancario nostrano. Intesa Sanpaolo tra il 30 giugno e il 31 ottobre 2011 aveva in portafoglio 45,9 milioni di dollari di obbligazioni Finmeccanica, preceduta da Bnp Paribas a quota 79,6 milioni. Ma i dati più salienti riguardano i finanziamenti diretti. Le cifre attribuite alle singole banche sono stimate, poiché parte di finanziamenti più vasti.
Nel luglio 2010 l’azienda ottenne un’apertura di credito per cinque anni pari a 2,4 miliardi di euro da parte di 25 banche, di cui 10 italiane: Mps, Bpm, Popolare di Sondrio, Bper, Banco di Sardegna, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (Gruppo Carige), Centrobanca (Gruppo Ubi), Credito Bergamasco (Gruppo Banco Popolare), Intesa Sanpaolo, Unicredit e Bnp Paribas (consideriamo il gruppo francese per le sue controllate italiane). Si stima una quota di 127,3 milioni di dollari per ognuna.
Le stesse banche (sia direttamente o attraverso i gruppi di appartenenza) comparivano nel prestito di 3,2 miliardi di euro erogato nel luglio 2008, con quote stimate per ciascuna di 92,2 milioni di dollari. Bpm, Popolare di Sondrio, Centrobanca (Ubi) e Credito Bergamasco (Banco Popolare) hanno infine erogato un prestito a un anno e mezzo di 140 milioni di euro. Poi ci sono i servizi di collocamento di azioni e obbligazioni Finmeccanica, nei quali spiccano ancora i nomi di Intesa, Unicredfit, Bnp, Mps, Mediobanca, Credit Agricole (che controlla l’italiana Cariparma).
Anche in questo caso i dati attribuiti alle singole banche sono stimati.
Nel dettaglio Intesa, Unicredit e BNP hanno collocato ognuna 148 milioni di dollari di azioni Finmeccanica nel novembre 2008 e 358,8 milioni di dollari di obbligazioni in tre successive emissioni: novembre 2008, febbraio 2009, ottobre 2009. Credit Agricole (mediante Caylon) e Mps compaiono invece nell’emissione dell’ottobre 2009 con 44,4 milioni di dollari a testa. Infine Mediobanca nel novembre 2008 ha collocato azioni Finmeccanica per 179,1 milioni di dollari.
Nel complesso Intesa è tra i finanziatori di Bechtel, Boeing, EADS, General Dynamics, Honeywell International, Lockheed Martin, Northrop Grumman e Thales, oltre naturalmente a Finmeccanica. Il Gruppo ha erogato prestiti pari a 1,099 miliardi di dollari stimati, in un periodo che va da luglio 2008 a giugno 2011, e collocato obbligazioni per 714,1 milioni di dollari nel periodo da novembre 2008 a luglio 2011, mentre al 30 ottobre 2011 aveva in portafoglio 45,5 milioni di dollari di obbligazioni. Del resto una recente nota del gruppo (19 giugno 2012) riporta che “Intesa Sanpaolo ha erogato finanziamenti significativi a favore di Finmeccanica Spa e del suo gruppo di appartenenza”. Eppure all’assemblea degli azionisti 2012 del maggio scorso, l’amministrato delegato in persona Enrico Tommaso Cucchiani affermò che il gruppo non investe nel nucleare.
Unicredit, oltre a Finmeccanica, è coinvolta nel finanziamento di Eads, Honeywell International e Thales. Ha erogato prestiti complessivi stimati per 833,8 milioni di dollari nel periodo compreso tra luglio 2008 e aprile 2011, e collocato obbligazioni per 358,8 milioni di dollari dal novembre 2008 all’ottobre 2009. Altre banche italiane hanno investito esclusivamente in Finmeccanica, a parte 14 milioni di dollari di obbligazioni Thales che nel settembre 2011 erano registrati nel portafoglio di Ubi Banca.
Tra le banche estere con controllate italiane svetta BNP Paribas, tra i maggiori investitori mondiali nel nucleare. Essa ha investito cifre consistenti in Alliant Techsystems, Babcock & Wilcox, BAE Systems, Bechtel, Boeing, EADS, Finmeccanica, Honeywell International, Lockheed Martin, Northrop Grumman, Rolls Royce, Safran, Thales. I prestiti stimati ammontano a 1,634 miliardi di dollari, stanziati dal luglio 2008 al dicembre 2011, e le obbligazioni collocate si attestano a quota 2,331 miliardi di dollari, tra novembre 2008 e luglio 2011, mentre nell’agosto 2011 deteneva obbligazioni Finmeccanica per 76,62 milioni di dollari e nel maggio 2011 obbligazioni Safran per 7,45 milioni di dollari.
Anche Credit Agricole si colloca tra i big del settore, con investimenti in Babcock & Wilcox, BAE Systems, Boeing, EADS, Finmeccanica, Honeywell International, Lockheed Martin, Rolls Royce, Safran, Secro Group, Thales. Nel complesso ha erogato prestiti per 1,392 miliardi di dollari tra settembre 2008 e dicembre 2011 e collocato obbligazioni per 1,07 miliardi di dollari tra marzo 2009 e settembre 2011. A fine agosto 2011 infine aveva in portafoglio obbligazioni Thales per 11,53 milioni di dollari.

Roberto Cuda
www.vizicapitali.org



..e in anteprima, la nuova lista
delle banche armate italiane e non
(fonte: Rete nazionale Disarmiamoli!)

 

mercoledì 4 luglio 2012

I cattolici e l’impegno per l’acqua bene comune



Preti, missionari, singoli credenti, parrocchie, associazioni e ong di ispirazione cristiana sono da anni parte attiva del movimento italiano per l’acqua bene comune. Quali sono le caratteristiche di questa militanza? Che indicazioni offre al dibattito sull’impegno dei cattolici in politica?

Diversi eventi degli ultimi mesi - il Forum di Todi, la caduta del Governo Berlusconi – hanno contribuito ad alimentare le riflessioni sul “risveglio dei cattolici” e il dibattito sulle caratteristiche che dovrebbe assumere il loro impegno in politica per superare l’“afonia”, l’“irrilevanza” e il “disagio” degli ultimi anni. L’attenzione si è concentrata prevalentemente sui vertici delle gerarchie politiche e istituzionali, o sull’ipotetico ritorno del “partito dei cattolici”, tralasciando l’analisi di significative esperienze concrete di militanza e partecipazione politica della base – con i loro successi e le loro fatiche - che pure negli ultimi tempi non sono mancate.
La mobilitazione per i referendum di giugno 2011, ed in particolare per i due quesiti sull’acqua, è sicuramente tra queste: non solo per il raggiungimento del quorum dopo 14 anni e 24 consultazioni referendarie fallite, ma anche perché i quesiti referendari sull’acqua sono stati i primi a non essere promossi da partiti, ma da un comitato composto da realtà civiche ed associative e gli unici ad aver raggiunto la cifra record di 1 milione e 400 mila firme di sostegno. Ciò in virtù della capacità di consolidare, all’interno del Comitato referendario 2 SI per l’Acqua Bene Comune e del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, una coalizione ampia e plurale che comprende social forum, ong di cooperazione internazionale, ambientalisti, associazioni di consumatori, comitati civici territoriali, sindacati, enti locali e numerose realtà del mondo cattolico. Al Comitato referendario hanno infatti aderito le ACLI, Focsiv-Volontari nel mondo, Pax Christi, Beati i costruttori di Pace, CIPAX, la Conferenza degli Istituti Missionari, oltre a diverse diocesi e parrocchie. Gli scout dell’Agesci, così come il Jesuit Social Newtork, hanno sostenuto dall’esterno il comitato referendario. Sull’acqua si sono concentrate le energie di quei cattolici particolarmente sensibili al tema della giustizia sociale ed ecologica, che si ritrovano anche nella Rete interdiocesana sui nuovi stili di vita, che conta 67 diocesi ed è animata dal missionario saveriano Adriano Sella, a cui si deve la campagna “Acqua dono di Dio e bene comune”. Questa e altre azioni di sensibilizzazione hanno spinto numerose diocesi e parrocchie ad invitare a “recarsi alle urne”, ribandendo il “dovere di tutti di partecipare al voto”, spesso senza nascondere il proprio orientamento favorevole ai quesiti referendari. La mobilitazione per l’acqua sembrerebbe così aver superato il confine di quel nucleo di cattolici tradizionalmente impegnati sui temi della giustizia sociale, per estendersi alla maggioranza generalmente più silenziosa di parrocchie e singoli credenti che nell’occasione hanno partecipato alla “campagna leggera” praticata dal quel 16% di cittadini che, privi di precedenti esperienze di militanza politica, si sono attivati per il referendum attraverso formule di partecipazione non tradizionale, informale, spesso individuale.
Questo impegno è stato ispirato e legittimato dai principi della Dottrina Sociale della Chiesa, secondo cui “in quanto dono di Dio, l’acqua è elemento vitale, imprescindibile per la sopravvivenza e pertanto un diritto di tutti. L’utilizzazione dell’acqua e dei servizi connessi deve essere orientata al soddisfacimento dei bisogni di tutti e soprattutto delle persone che vivono in povertà. L’acqua, per sua stessa natura, non può essere trattata come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale. Il diritto all’acqua come tutti i diritti dell’uomo si basa sulla dignità umana, e non su valutazioni di tipo meramente quantitativo, che considerano l’acqua solo come un bene economico. Senza acqua la vita è minacciata. Dunque, il diritto all’acqua è un diritto universale e inalienabile”(Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa §484 e §485). Principi riaffermati in numerosi messaggi e testi di Benedetto XIV, ad esempio nella “Caritas in veritate”, e ribaditi nei mesi precedenti al referendum nelle dichiarazioni ufficiali di diversi vescovi, come il Segretario generale della CEI Mons. Crociata o il segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, mons. Toso.
Al di là dei pronunciamenti ufficiali, una prima caratteristica dell’impegno dei cattolici sul tema dell’acqua è stata la spontaneità della mobilitazione. In linea con le modalità d’azione dell’intero movimento, in cui esiste un coordinamento nazionale, rappresentato dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, che resta tuttavia frutto di un’aggregazione dal basso, rispettosa della pluralità e dell’autonomia delle singole realtà che la compongono e della loro indipendenza dai partiti e dalle istituzioni. Analogamente, la partecipazione dei cattolici al movimento non è stata organizzata dall’altro, in particolare dalla gerarchia ecclesiastica, come invece avvenuto nel precedente referendum sulla procreazione assistita.
In secondo luogo si è trattato di una partecipazione plurale, a cui i differenti soggetti hanno contribuito a partire dalle specificità dei rispettivi carismi: chi puntando sulle capacità di organizzazione e mobilitazione per la raccolta firme, chi approfondendo la dimensione educativa, chi allargando l’orizzonte della questione ai temi più generali dello sviluppo sostenibile e della solidarietà internazionale. E in questa pluralità non vanno dimenticate le posizioni discordanti e le voci critiche rispetto al referendum. Comunione e Liberazione, ad esempio ha mantenuto un profilo basso o indifferente, che nel caso del referendum, in cui è essenziale mobilitare gli elettori per raggiungere il quorum, equivale implicitamente ad un voto negativo.
In terzo luogo, la natura stessa del tema e la valenza simbolica della risorsa acqua, hanno favorito il carattere ecumenico della mobilitazione, facilitando il dialogo e la collaborazione, sia con i credenti di altre fedi che con le realtà del mondo laico, secondo modalità decisamente meno laceranti rispetto al dibattito sulle questioni in cui entrano in gioco i valori considerati “non negoziabili”, ad esempio quelle bioetiche.
L’insieme di queste caratteristiche si è tradotto in una partecipazione quasi mimetica dei cattolici al movimento per l’acqua: non tanto un “esserci per contare e per contarsi”, quanto piuttosto la volontà di contribuire ad un obiettivo generale che travalica identità e appartenenze specifiche, nello spirito più genuino del “bene comune” cui la mobilitazione per l’acqua costantemente si richiama. Da qui l’inevitabile frammentazione della presenza dei cattolici nel movimento e la difficoltà di discernere la specificità e l’entità del loro contributo. Di sicuro, in virtù dell’approccio della Dottrina sociale della Chiesa e della valenza simbolica che l’acqua assume nella tradizione spirituale cristiana - ma non solo -, la partecipazione di numerosi soggetti del mondo cattolico ha contribuito a declinare il tema dell’acqua non solo in termini di dibattito tecnico sulla gestione dei servizi idrici in Italia, ma nel contesto delle più ampie questioni dello sviluppo sostenibile e della solidarietà internazionale, prestando anche attenzione alla dimensione culturale e simbolica del problema.
La mobilitazione per l’acqua pubblica ha finito così per trasformarsi in battaglia paradigmatica per la difesa della democrazia e dei beni comuni. Resta da capire quali spazi e quali energie sono disponibili per estendere i tratti più positivi di questa esperienza ad altri ambiti di impegno dei credenti nella politica e nella società.
                                                                                                                 Emanuele Fantini




Box con riferimenti bibliografici sul mondo cattolico e l’acqua:
- Benedetto XVI, Messaggio in occasione della Giornata della Santa Sede all’esposizione internazionale di Saragoza, 2008.
- Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Acqua. Un elemento essenziale per la vita. Impostare soluzioni efficaci. Contributo della Santa Sede al IV Forum mondiale dell’acqua di Marsiglia (12-17 marzo), 2012
- Luis Infanti de la Mora, Dacci oggi la nostra acqua quotidiana, EMI, 2010
- Alex Zanotelli, Giù le mani dall’acqua, EMI, 2010.




[1] Emanuele Fantini si interessa da diversi anni al dibattito sulla
gestione dell’acqua nel contesto delle politiche di sviluppo e dei
processi di privatizzazione dei servizi idrici in Italia e nel mondo,
coniugando l’attività di ricerca accademica con la curiosità del
giornalista e l’empatia di chi ha lavorato sul terreno in Africa e
dintorni per ong, Ministero degli Affari Esteri e Nazioni Unite. Di
recente ha pubblicato “Acqua privatizzata? Economia politica e morale" (Cittadella Editrice, 2011). Una versione più estesa di questo articolo è stata pubblicata sul n. 6, giugno 2012 della rivista “Aggiornamenti sociali”.

La politica dei movimenti


Stefano Rodotà,
La Repubblica 04.07.2012

Il “principio di realtà” sembra irrompere nella politica solo quando si fanno più drammatiche le questioni dell’economia, alle quali tuttavia si guarda troppo spesso come se in esse si manifestasse una ineludibile legge “naturale”. I mercati “votano”, si attendono le “reazioni” dei mercati. Soggetti onnipresenti e impersonali, alle cui pretese la politica si piega, e palesa le sue impotenze, smarrisce ogni filo razionale, sembra rassegnata alle dimissioni. Di questo contagio la politica è vittima consapevole. Prigioniera della sola dimensione economica, perde la capacità di misurarsi con le grandi questioni della società, di elaborare strategie di più largo respiro e di più lunga durata. E si priva così degli strumenti che possono consentirle di ricominciare a pensare lo stesso mercato come una creazione sociale, non come una entità naturale, alle cui leggi si è costretti ad obbedire. Nella realtà vi sono più cose da vedere, analizzare, comprendere. A questa ricchezza la politica deve attingere. Non è una impresa impossibile, a condizione che si voglia davvero uscire dall’autoreferenzialità e dalle logiche oligarchiche che si sono impadronite dei partiti. I punti di riferimento non mancano. Questa sembrava l’indicazione venuta dal segretario del Pd quando, lanciando la sua candidatura verso primarie aperte, l’associava con una dichiarata attenzione per le nuove dinamiche sociali, per le richieste di partecipazione, per i diritti civili, per il tema centrale del lavoro, dando la sensazione che si volesse così dar vita ad una agenda politica finalmente espressiva di contenuti concreti, abbandonando le abitudini che hanno trasformato l’azione del partito in una eterna schermaglia tra persone. Solo in questo modo si può evitare che le primarie si trasformino in un’altra tappa verso quell’estrema personalizzazione della politica che è all’origine di infinite distorsioni istituzionali. Il principio di realtà dovrebbe portare verso una riflessione sulle effettive dinamiche degli ultimi tempi. Tutto quello che usciva fuori dai canali della politica ufficiale è stato sbrigativamente etichettato come antipolitica. Questo non è stato solo un errore analitico. Si è rivelato come un modo per sottrarsi ad un confronto scomodo, non con l’antipolitica, ma con l’altra politica che si è presentata in modo incisivo sulla scena italiana, suscitando nei partiti una reazione di fastidio e di sufficienza, quasi che si trattasse di inutili iniziative “movimentiste” e protestatarie. Le cose non sono andate così. Tra il 2010 e il 2011 si sono svolte grandi manifestazioni di donne e lavoratori, studenti e mondo della cultura. A questa iniziativa diffusa si deve la reazione che ha bloccato la “legge bavaglio” sulle intercettazioni, fino a quel momento contrastata blandamente dall’opposizione parlamentare. Quel variegato movimento ha contribuito grandemente ai successi nelle elezioni amministrative dell’anno scorso, non a caso vinte, in città chiave come Milano e Napoli, da candidati scelti fuori dalle indicazioni dei partiti. In quelle campagne elettorali, come ha ricordato Ilvo Diamanti, vi fu una straordinaria e spontanea presenza dei cittadini. Punto di approdo di tutta quella fase fu il voto referendario del 13 giugno dell’anno scorso, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione dell’acqua, al nucleare, alle leggi ad personam. Altro che movimentismo sterile, del quale disinteressarsi. Quelle sono state tutte iniziative vincenti, che avrebbero dovuto sollecitare la massima attenzione della politica “ufficiale”, rimasta invece sorda, lontana, ostile. Ora proprio a quel mondo si dice di voler rivolgere l’attenzione. Ma questo non è affare di parole. Non si può dire di voler prendere sul serio i segnali che arrivano dallasocietà e poi contribuire a una strategia che vuole sostanzialmente cancellare i risultati del referendum sull’acqua. Sta accadendo proprio questo con una rottura della legalità costituzionale che giustifica un appello al Presidente della Repubblica. Migliaia di cittadini si organizzano in una campagna di “obbedienza civile”, pagando le bollette dell’acqua in base a quel che essi stessi hanno deciso con il referendum. Una convincente nuova politica non può eludere questo terreno, che i cittadini hanno pacificamente occupato non con iniziative sgangherate, ma con il loro voto. Quale credito può recuperare un partito che ignora la voce di ventisette milioni di persone? Vi è una lezione generale da trarre da questa storia recente. Tutti quei movimenti non hanno mai scelto la strada non solo antipolitica, ma antistituzionale, che altri hanno imboccato o vogliono imboccare. Al contrario. I loro interlocutori sono stati i parlamentari al tempo della legge bavaglio. Gli strumenti adoperati sono quelli della democrazia quando si sceglie di partecipare convintamente alle elezioni amministrative e quando si raccolgono le firme e si vincono i referendum. Se davvero si vuole rafforzare la partecipazione, la via da seguire è nitidamente segnata. Tutto questo, infatti, è avvenuto all’insegna della Costituzione, salvata nel giugno del 2006, da sedici milioni di cittadini che, dicendo no alla riforma costituzionale approvata dal governo Berlusconi, indicavano pure una strada da seguire. Se oggi si vuol discutere seriamente di riforma costituzionale, bisogna tenere nel giusto conto le indicazioni venute in questi anni da milioni (insisto, milioni) di cittadini, non dalle intemperanze di gruppetti o dalle pretese di professori (anche se un po’ di attenzione per la grammatica costituzionale non guasterebbe). Queste indicazioni sono chiarissime. Il rifiuto dell’accentramento del potere e di una più intensa personalizzazione dovrebbe essere ancor più tenuto in considerazione oggi, di fronte alla minaccia di pericolose derive populiste. L’attenzione per la partecipazione dei cittadini non può essere ridotta a una giaculatoria. Ma nelle proposte di riforma costituzionale non vi è nulla (insisto, nulla) che vada in questa direzione, anzi si va verso accentramenti e smantellamento di equilibri e garanzie. E questa è una linea autolesionista, al limite del suicidio, perché la stessa democrazia rappresentativa può essere salvata solo da una sua intelligente integrazione con forme di partecipazione dei cittadini. Dall’Europa ci vengono indicazioni che consentono, ad esempio, di rafforzare l’iniziativa legislativa popolare, come vado dicendo da anni. Ma l’altra politica manifesta pure una fortissima richiesta di diritti, che non può essere sacrificata all’economia con il trucco della politica dei due tempi, come ha benissimo ricordato Chiara Saraceno, né può essere affidata a documenti come quello predisposto dal Pd, elusivo su troppe questioni. I diritti del lavoro sono emblematici del legame scindibile tra economia e diritti, come dimostrano alcuni opportuni interventi dei giudici, resi possibili anche da indicazioni provenienti dall’Europa che, anch’essa, deve essere considerata nella dimensione dei diritti. Sono molte, dunque, le possibilità concrete di riprendere il filo del rapporto spezzato tra partiti e cittadini. Ma questa, evidentemente, non è una operazione a costo zero. Esige l’abbandono di pessime abitudini e qualche segnale immediato. Torno alla questione dell’acqua come bene comune e ricordo che in Parlamento, su vari temi, giacciono proposte di legge di iniziativa popolare o regionale. Perché non metterle all’ordine del giorno, cominciare a discuterle? I cittadini capirebbero.

martedì 3 luglio 2012

Messico: risultati elezioni

Messico CITTA’ DEL MESSICO – Dopo 12 anni di esilio all’opposizione il Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri) è tornato al potere in Messico. Enrique Pena Nieto è il nuovo presidente del Paese.
Nieto,  avvocato quarantacinquenne, ha riconquistato la presidenza del Messico imponendosi con un vantaggio di circa otto punti sul suo principale avversario, il progressista Andres Manuel Lopez Obrador, che però non ha ancora ammesso la sua sconfitta.
”Assumo con emozione, impegno e pieno senso della responsabilità il mandato che mi è stato affidato”, ha dichiarato Pena Nieto nella sua prima dichiarazione dopo che l’Istituto Federale Elettorale (Ife) ha reso note le cifre del suo Conteggio Rapido, una proiezione statistica dei risultati in base a campioni rappresentativi di tutti i circuiti elettorali del Paese, che gli attribuiscono fra il 37,9 e il 38,55% dei voti.
Il presidente eletto ha affermato che i cittadini messicani ”hanno parlato con assoluta chiarezza”, esprimendo la loro scelta a favore di un ”cambiamento con direzione”, e ha chiesto ai dirigenti di tutti i partiti di collaborare lealmente con il prossimo governo nella sua azione, indicando come priorità la lotta contro la disoccupazione e il narcotraffico: ”Con il crimine organizzato non vi sarà né patto né tregua”, ha assicurato.
L’appello alla ”riconciliazione nazionale” di Pena Nieto non sembra però aver avuto alcun effetto su Lopez Obrador (a cui l’Ife attribuisce fra il 30,9 e il 31,86% dei voti): dopo la diffusione della prima proiezione ufficiale, infatti, il candidato della sinistra non ha riconosciuto la sconfitta, limitandosi a dichiarare che aspetterà fino alla conclusione dello scrutinio ufficiale dei voti, mercoledì 4 luglio, per commentare l’esito delle elezioni.
Lopez Obrador non ha denunciato specificatamente brogli o irregolarità, ma ha detto che ”esistono informazioni in nostro possesso che indicano qualcosa di diverso da quello che dicono le cifre ufficiali”, precisando che ”non voglio squalificare quello che è stato reso noto ufficialmente: semplicemente noi non abbiamo i dati”.
La presa di posizione del candidato della sinistra ha risvegliato lo spettro delle denunce sulla legittimità del voto, che avevano portato lo stesso Lopez Obrador a disconoscere pubblicamente la sua sconfitta nel 2006 da parte di Felipe Calderon, il presidente uscente, per meno di un punto percentuale.
Il primo candidato che ha ammesso pubblicamente la sua sconfitta è stata Josefina Vazquez Mota, del Partito di Azione Nazionale (Pan,destra) a cui la proiezione dell’Ifa attribuisce fra il 25,1e il 26,03% dei voti, e lo stesso ha fatto poco dopo Gabriel Quadri, del Partito Nuova Alleanza (Panal, ambientalista) che avrebbe ottenuto fra il 2,27 e il 2,57% dei voti, e che ha chiesto esplicitamente a Lopez Obrador di riconoscere la sua sconfitta, segnalandogli che al farlo Vazquez Mota aveva dato ”una prova di maturità e senso civile che dovrebbe prendere ad esempio”.
Molti analisti hanno segnalato durante la campagna elettorale che l’atteggiamento di Lopez Obrador dopo le elezioni del 2006 – quando il leader progressista si è lanciato in una campagna di reclamo della presidenza sulle piazze del paese che è durata mesi – è stato appunto uno dei fattori che hanno portato a una sensibile riduzione della popolarità che aveva ottenuto come presidente del governo del Distretto Federale, ossia Città del Messico.
Alla sinistra resta comunque un premio di consolazione: il suo candidato al governo del Distretto Federale, Miguel Angel Mancera, ha ottenuto una vittoria schiacciante, con oltre il 60% dei voti, e 30 punti di distanza dal rivale piu’ vicino, mantenendo la capitale messicana solidamente in mano all’opposizione progressista, che la governa ininterrottamente dal 1997.

domenica 1 luglio 2012

Beata la differenziata


Giochino estivo innocente:
quanto ti è servita la nuova campagna sulla raccolta differenziata?
Ti senti sensibilizzato? Ti senti edotto?

Per capirci... stiamo parlando di questa roba qui:


Allora...
Sei pronto a metterti alla prova?

Ti avvertiamo: non buttarti subito nel cassonetto...



Messico: lezioni di stile su FaceBook

# - Paulina Peña Petrellini, figlia del candidato alla presidenza del Messico Enrique Peña Nieto, ha condiviso su Twitter un commento... "Un saluto a tutti la massa di idioti, che fanno parte del proletariato e sanno solo criticare chi invidiano!"...

Il filosofo e scrittore messicano Hector Jesús Zagal Arreguin scrive su FB in risposta:

<< Non ho il piacere di conoscerti personalmente. Non so come sei, non so le tue qualità, i tuoi hobby, i tuoi interessi. Capisco il tuo fastidio nel sentire critiche verso tuo padre, Enrique Peña Nieto. Esse sono parte del lavoro. Dovresti essere abituata agli attacchi contro di lui. In una democrazia, la critica è un esercizio essenziale. Tuo padre è un personaggio pubblico e, di conseguenza, le sue azioni sono giudicate severamente. "Perché sono così duri con lui?", chiedi. Beh, i funzionari guadagnano molto denaro. Ci sono migliaia di persone disposte a subire critiche e attacchi pur di coprire cariche pubbliche. Lo stipendio val bene quei colpi. Non è vero?

Ma non è di tuo Padre che voglio parlare, ma di te. Devo confessarti, mi spaventa che tu abbia utilizzato l'espressione "proletari" come un insulto. Insisto, è perdonabile la rabbia e lo scherno nei confronti di chi attacca tuo padre. Non mi sarei spaventato se li avessi chiamati "babbei", "stupidi". Inoltre, non è in questione chi vi ha chiamato "stronzi". Invece è imperdonabile il tuo disprezzo per i figli degli operai e dei lavoratori.
Hai sentito dello scandalo delle Dame di Polanco? Hanno squalificato un poliziotto chiamandolo "dipendente". Hai fatto qualcosa di simile squalificando la metà del paese in base allo status sociale. Che cosa c'è di male ad essere il figlio di un operaio? Sai, io sono il nipote di un minatore, un proletario. Non mi vergogno a dirlo. Ti vergogneresti di tuo di padre se si trattasse di un venditore di "tamales" o un idraulico?

Senza rendertene conto, con le tue parole hai rivelato il tuo classismo, il disprezzo per il lavoro manuale, la svalutazione di quelli che si guadagnano da vivere con la prpria fatica. Che tristezza pensare che sei pure la figlia di un candidato presidenziale!
«Proletari» sono, infatti, quelli che studiano nelle scuole pubbliche, che utilizzano la metropolitana, che non mangiano tagli di carne argentina e formaggi spagnoli, che non fanno uso di scarpe da migliaia di pesos, che non si curano in ospedali privati, coloro che non viaggiano in elicottero. I proletari, invece, fanno lunghe ore di coda nelle cliniche di sicurezza sociale, mangiano carboidrati (tortillas), devono studiare in aule senza computer, devono contare solamente sul trasporto pubblico. I proletari, cara Paulina, guadagnano in un anno ciò che tuo padre riceve in una settimana.

Quando leggerai queste righe, fai il seguente esercizio, controlla quello che ti circonda: profumi, creme, deodoranti, vestiti, scarpe, telefoni cellulari, orecchini. Fai la somma totale. Lo sai che corrisponde a più di quello che un indigeno guadagna in un anno di duro lavoro?
Paulina, mi terrorizza che tu la pensi così. Il tuo lapsus rivela la tua "realtà": vivi in una bolla rosa. "Proletario" non è un insulto, ma un titolo d'onore. Questo paese, che tuo padre aspira a governare, dipende dagli operai, dai contadini, dagli impiegati, dipende da quelle persone che disprezzi.

Speriamo che questo lapsus molto grave non sia frutto dell'educazione che hai ricevuta a casa. Speriamo che la colpa sia solo tua;, il frutto della tua arroganza (così caratteristica del messicano della classe elevata). Che cosa sarà del Messico se arriverà a governarlo una persona che disprezza il proletariato?
Guarda Paulina, penso che per il tuo bene dovresti iscriverti a una scuola pubblica, ridurre al minimo la tua scorta, prendere la metropolitana nelle ore di punta per arrivare al lavoro. Se non lo sai, molti dei "proletari" si pagano gli studi con il proprio lavoro: fanno gli agricoltori, i garzoni, i manovali. Alcuni lavorano fin da quando erano bambini.

Paulina, stai mettendo a rischio il futuro politico di tuo padre. Ma cosa più grave è mettere a rischio il futuro del Messico. >>

(Per gentile concessione del corrispondente Messico Pérez Tapia Mphk)