martedì 29 maggio 2012

Honduras, Messico ed America Centrale: appello


Apello urgente del
Movimento per la Pace, la Sovranità e la Solidarietà tra i Popoli
(Mopassol


Il recente massacro di membri della comunità miskita sul Rio Patuca, in Honduras, l’11 maggio scorso, quando due elicotteri dell'agenzia antidroga degli Stati Uniti (sigla inglese DEA) spararono su una canoa in cui viaggiavano dei contadini, ammazzando due donne incinte, due uomini e ferendo gravemente altre quattro persone, evidenzia non solo la continuità del terrorismo di Stato imposto dal golpe militare del giugno 2009 contro il presidente Manuel Zelaya, ma anche la tragica occupazione militare nordamericana in quel paese.
Sullo sfondo di questo attacco su cui, secondo quanto viene riportato, “si indaga” a Washington, non soltanto si percepisce la militarizzazione statunitense dell’Honduras, con 5 basi militari e centri operativi oltre a quella di Palmerola, strategica per la IV Flotta, ma si evidenzia un’aggressione contro i miskitos, per facilitare l'occupazione della zona e l'imposizione del corridoio mesoamericano di agrocombustibili.
Le uccisioni quotidiane di contadini, dirigenti sindacali e politici, maestri, studenti e giornalisti (in quest’ultimo caso sono 25 gli assassinati dall’inizio del 2010) sono la dimostrazione che l'attuale governo di Porfirio Lobo, sorto da elezioni convocate e dirette dai militari golpisti del giugno 2009, è solo la continuità di quella dittatura. Gli assassini commessi dalle forze d’occupazione in questo paese sono quotidiani e mettono in risalto che proprio questo è il progetto-copione degli Stati Uniti per l'America Latina, se li lasciamo progredire. Il tasso di crimini raggiunge l’86,5 % ogni 100.000 abitanti. Si stimano circa 700 omicidi al mese e circa 20 vittime al giorno. Il 55 % degli omicidi è avvenuto nella zona settentrionale del paese, Atlantide, Cortés e Francisco Morazán. L’84,6 % degli omicidi con armi da fuoco e quasi il 28 % per mano di sicari.
Si sa che vi sono consulenti israeliani, paramilitari e sicari colombiani, in seguito ad un accordo dei golpisti con l'ex presidente della Colombia Álvaro Uribe, ex militari argentini e della Fondazione Uno America, che partecipò attivamente al golpe. Centinaia di persone sono state arrestate e torturate. Ma non potendo piegare la resistenza e capendo che non hanno possibilità di vincere nuove elezioni, la repressione aumenta ogni giorno. Non possiamo lasciare solo il popolo honduregno. È nostro dovere pronunciarci in modo solidale di fronte alle energiche denunce delle organizzazioni popolari dell’Honduras, denunce che la grande stampa tace in maniera sistematica.
La cosa più grave, nel caso dei miskitos, è stato il tentativo di giustificare quegli assassini da parte del Direttore della Polizia Nazionale, Ricardo Ramírez Cid, il quale ha dichiarato che "sulla scena vi fu una sparatoria con scambio di colpi". Persino quando venne determinato che le vittime erano disarmate ed i sopravvissuti ricoverati a La Ceiba avevano riferito che era stato sparato loro a tutt’andare con mitragliatrici e granate. La stessa cosa succede coi crimini e le minacce contro i contadini dell'Aguán. Il popolo miskito è uno dei più colpiti dalla tragedia dell'occupazione della nazione centroamericana, così come dalla corruzione di polizia e militari relazionata al narcotraffico, oltre che dal feudalesimo imperante in quella zona del paese, sprofondata in una povertà immensa. Ci sono oltre 1700 invalidi e decine di morti nella comunità miskita.
Il quotidiano New York Times, nella sua edizione del 5 maggio scorso, in apertura d’un articolo segnala che l’"Armata degli Stati Uniti, usando lezioni il conflitto della decade scorsa (Iraq) nella guerra in corso nella selva miskita, ha costruito un accampamento (centro operativo) di scarsa notorietà pubblica, ma appoggiato dal governo honduregno". Il citato articolo rivela l'installazione di tre "basi come avamposti operativi" ubicate in Mocorón, Puerto Castillia, El Aguacate".
Il Comando Sud del Pentagono sta auspicando per tutta l'America Centrale quelli che vengono definiti gli "stati falliti", per giustificare gli interventi in nome della sicurezza nazionale, ovvero il vecchio schema con cui seminarono dittature in tutto il continente durante il XX secolo. In tale direzione puntano gli "accordi di sicurezza" che gli Stati Uniti stanno stabilendo coi paesi della regione.
Alla situazione dell’Honduras, che si aggrava ogni giorno contando già migliaia di morti, si aggiunge la tragedia messicana, sulla quale si estende un silenzio complice. Da quando il Messico firmò con gli Stati Uniti il Plan Merida nell'anno 2006 (una replica del Plan Colombia) e Washington inviò armi e consulenti per una presunta guerra contro il narcotraffico, più di 55.000 persone sono state sequestrate ed assassinate in maniera atroce, seminando il terrore nel nord del paese. Vi sono circa 10.000 desaparecidos. Le Forze Armate intervengono direttamente nel conflitto e nessuno ignora, a questo punto degli avvenimenti, che la maggioranza di quei morti non ha nulla a che vedere col narcotraffico e che gli Stati Uniti hanno fornito armi ai gruppi paramilitari quali gli Zeta, come si è scoperto investigando con l'Operazione Castaway (Operazione Naufrago) o Rapido e Furioso.
Si trattava di una presunta operazione segreta della DEA per consegnare armi e "scoprire" le vie del contrabbando. Ma quelle armi andarono a finire in mano ai paramilitari messicani, che si sono addestrati nella tortura con la popolazione civile e con gli emigranti verso gli Stati Uniti, che vengono assassinati e trasferiti altrove, come s’è visto dalla comparsa di cadaveri in luoghi svariati.
Il Messico è stato fatto diventare uno stato fallito e caotico, che secondo politici repubblicani minaccia ora "la sicurezza degli Stati Uniti", e pertanto potrebbe essere passibile d’intervento, specie se alle prossime elezioni non vinceranno i loro "eletti" come governanti. Le armi USA sono state destinate anche alle "maras", bande create in quella nazione e quindi rispedite ai rispettivi paesi d’origine, El Salvador, Honduras e Guatemala, con lo scopo di farvi regnare il crimine ed il caos.
L’Honduras sotto un celato terrorismo di Stato e il Guatemala, dove il femminicidio e la violenza del vecchio militarismo e paramilitarismo controinsurrezionale si consolida con l'avvento alla presidenza di un ufficiale dei "Kaibiles", la forza speciale più brutale di tutti i tempi, preparata negli Stati Uniti ed autrice di crimini di lesa umanità e di scomparsa d’interi villaggi, i cui abitanti furono eliminati.
Essi vanno ad integrare il numero degli oltre 90.000 desaparecidos durante le dittature militari guatemalteche, il più alto dell'America Latina considerando che la popolazione supera di poco i 10 milioni d’abitanti.
Tutto ciò fa parte della realtà centroamericana, cui aggiungere il governo conservatore di Panama che ha già compiuto massacri di indigeni, persecuzione di lavoratori e firmato con gli Stati Uniti l'installazione di 12 basi militari e centri operativi, accerchiando così tutto il paese che era riuscito a liberarsi dal Comando Sud alla fine del 1999.
La tragedia illimitata in America Centrale si protende con la virtuale occupazione della Colombia, con almeno 8 basi militari straniere ed un terrorismo di Stato occultato da anni. Occultato attualmente con una presunta "Democrazia di Sicurezza", nella quale giorno per giorno continuano i massacri ad opera di militari e paramilitari, nella quale si ostacola qualunque processo di pace che implichi un vero cambiamento nel paese. La Colombia è la nazione dell'America Latina, insieme al Guatemala, col maggior numero di persone morte e scomparse del continente nel corso del XX secolo e finora del XXI.
Di fronte a questa realtà, cui aggiungere i trattati di libero commercio firmati con vari governi della regione, l'invasione delle agenzie degli Stati Uniti nel continente e la crescente militarizzazione della regione stessa, con le conseguenze sociali e politiche di cui siamo testimoni, il Movimento per la Pace, la Sovranità e la Solidarietà tra i Popoli (Mopassol), esorta le organizzazioni popolari ad estendere la solidarietà, a realizzare atti e petizioni per fermare il massacro di popoli fratelli, a denunciare i gravi pericoli di un inasprimento dell'intervento straniero che inevitabilmente si estenderebbe verso tutto il continente.
È ora di dire basta al crimine e fermare la guerra di bassa intensità, l'invasione silenziosa delle fondazioni del potere imperiale e la militarizzazione che tenta una ricolonizzazione regionale nel secolo XXI. 

mercoledì 23 maggio 2012

Se io fossi...

Se io fossi uno che ha “non vinto” le elezioni a Parma, mi chiederei perché le ha vinte il candidato di una forza politica che nei telegiornali non esiste, che sui giornali prende solo insulti e che vive e cresce esclusivamente in rete. E proverei a cambiare qualcosa. Che non vuol dire aprire un altro sito, twittare slogan fatti col copia e incolla o far postare dall’ufficio stampa un comunicato sulla propria pagina Facebook. Vuol dire capire che la rete, dopo aver cambiato interi settori industriali, sta cambiando per sempre anche quella particolarissima industria della democrazia che si chiama politica. E che quindi i partiti, o si adeguano o spariscono. Come i dischi in vinile. Non è una promessa, e nemmeno una minaccia: se uno lo capisce in tempo, anzi, è una opportunità.
Se io fossi uno che dice di aver vinto le elezioni senza se e senza ma (e gli altri che le hanno proprio perse stanno anche peggio) andrei a cercare i se e i ma. E magari capirei che dalla rete vengono due grandi domande per quella vecchia politica che in questo momento sembra la vera antipolitica. La prima è la trasparenza. Trasparenza radicale. I cittadini non si fidano più e vogliono sapere tutto. Pretendono i dati. E quindi metterei il bilancio del mio partito in rete con tutti i dati in un formato aperto e scaricabile e confrontabile da chiunque. Magari facendolo scoprirei che i tesorieri ladroni non erano soli. Oppure il contrario, meglio così. Non importa in fondo. Importa che da quel momento in poi sarà più difficile per tutti usare per fini propri i soldi pubblici. E soprattutto da quel momento un elettore potrà finalmente ricominciare a fidarsi del proprio partito. Andarne fiero.
Se io fossi uno che aspetta da un bel po’ di governare questo paese e che vede finalmente abbastanza vicino il traguardo, prima di scoprire che magari ho le gomme sgonfie, darei soprattutto una risposta alla seconda domanda che viene dalla rete. E’ una domanda di partecipazione. Vera, non formale. E’ una bella parola “partecipazione”: in una canzone molto popolare tra quelli che hanno “non vinto”, è addirittura il presupposto della libertà.
Il movimento che adesso fa tanta paura a chi comanda e a chi vuol comandare e che in realtà lascia perplessi anche chi ne rileva alcune dichiarazioni strampalate del suo leader, è arrivato dove è arrivato (il terzo partito nei sondaggi) perché è cresciuto giorno dopo giorno sulla partecipazione continua che la rete abilita. La discussione dei contenuti. Gli incontri fisici o virtuali tra i militanti. Il linguaggio privo di formalismi: il politichese. Queste cose una volta si facevano nelle sezioni, e poi nei congressi (quando non c’era solo un mercanteggiare di tessere). Ma oggi nei partiti non vanno più di moda pare. Oggi i leader sono arroccati con i loro staff al riparo da una legge elettorale che evidentemente non vogliono davvero cambiare perché si illudono che nulla cambi.
Se io fossi un leader politico che ha a cuore il futuro dell’Italia non avrei paura della rete e del futuro. Ma mi metterei in gioco, aprendo le finestre e le porte della mia casa per far vedere che non ho nulla da nascondere e soprattutto che mi interessa quello che i cittadini sentono, pensano e mi propongono. Che non vuol dire farsi guidare dal “popolo del web”, ma accettare il confronto e guidarlo se necessario. Così fa un leader.
Era una cosa bella, la politica. Può esserlo ancora. Fate presto, peró.

Riccardo Luna,
ilPost

Giappone: moratoria nucleare

Inoltro questo importante appello, invitandovi a diffonderlo e a firmarlo.
http://isdepalermo.ning.com/notes/Fukushima

L' appello è promosso congiuntamente da scienziati e ricercatori giapponesi e italiani.
Proprio ieri Harumi Matsumoto ha inviato un SMS ad Angelo Baracca ( Prof. Fisica Univ. Firenze) che tiene i contatti con il Giappone con questa notizia: "Da ieri ha cominciato di nuovo a tremare la zona dell'epicentro dell'11 marzo 2011. M. 4.7 - 6.2, più di 10 scosse"... 


APPELLO PER UNA MORATORIA NUCLEARE IN GIAPPONE E PER L’IMMEDIATA RIMOZIONE DEL COMBUSTIBILE NUCLEARE DALL’IMPIANTO DI FUKUSHIMA 
Con questo appello intendiamo rompere il muro di silenzio che, fuori dai confini giapponesi, circonda la catastrofe di Fukushima. L’attuale governo giapponese guidato dal premier Noda ha, di fatto, rinnegato la volontà espressa dal suo predecessore dopo quella catastrofe di far uscire il Paese dalla dipendenza dall’energia nucleare: ma nell’opinione pubblica il dibattito è fortissimo e l’opposizione al nucleare cresce.Sul piano internazionale si vuol far credere che gli incidenti sono stati di poco conto, che la situazione è sotto controllo e le conseguenze per la popolazione giapponese sono minime. Ma la situazione è completamente diversa:· nei tre reattori funzionanti al momento dell’incidente la quantità di combustibile fuso, che nell’Unità 1 è fuoriuscito da vessel, è superiore a quella fusa in tutti gli incidenti precedenti, ed è assolutamente incontrollabile. L'affermazione che sia stato raggiunto lo "spegnimento a freddo" dei reattori danneggiati è priva di senso, in quanto tale definizione è riferibile solo ad un nocciolo integro, mentre i noccioli delle unità 1, 2, 3 risultano parzialmente o totalmente fusi, con perdita dei parametri di controllo tale per cui non si può escludere che possano riacquistare localmente configurazioni critiche con ripresa della reazione a catena.· La situazione delle piscine del combustibile esausto non è stata risolta e con il ripetersi di scosse sismiche di notevole intensità rischia di provocare un nuovo incidente dalle conseguenze gravissime e imprevedibili, anche a causa dello stoccaggio addensato delle barre. Un gruppo di esperti dell’Ufficio di Gabinetto giapponese ritiene probabile che nei prossimi anni possa avvenire un terremoto di grado 9 nella faglia oceanica e uno tsunami con onde di altezza eccezionale che colpirebbero non solo la centrale di Fukushima, ma anche molte altre.·Nella regione Nord Est del paese la situazione rimane estremamente preoccupante. La gravità della contaminazione radioattiva, sulla quale le autorità giapponesi hanno esercitato fin dall’inizio degli incidenti un cover-up, non accenna a diminuire. Sono migliaia le persone sradicate per sempre dalla loro terra (comprese quelle trasferite, anche di propria iniziativa, dalla zona inquinata di Fukushima), che hanno perduto il lavoro e le prospettive per il futuro e vivono in un’incertezza drammatica.
Al contrario il governo giapponese minimizza la gravità della contaminazione, ha alzato la soglia della contaminazione per i bambini e si dimostra molto più preoccupato del ripristino della normalità apparente che di salvaguardare la salute dei cittadini.· Il 5 maggio scorso anche l’ultimo dei 50 reattori nucleari in esercizio commerciale del Giappone, si è fermato per le periodiche revisioni (che quest’anno riguardano anche test e adeguamenti conseguenti agli incidenti di Fukushima) senza che ciò abbia pregiudicato la fornitura di energia elettrica al paese.
Si apre ora una partita decisiva perché a fronte della volontà del governo e dell’industria nucleare di riattivare le centrali quanto prima, si sviluppano forti opposizioni delle popolazioni. Riteniamo che questi problemi non riguardino solo il Giappone, ma l’intera comunità internazionale e pertanto chiediamo alle autorità giapponesi: 
* di non riattivare i reattori nucleari attualmente fermi
* di intervenire urgentemente per estrarre e trasferire le barre di combustibile dalle piscine gravemente danneggiate
* di provvedere immediatamente, anche se tardivamente, all’evacuazione dei bambini dalle zone contaminate
* di favorire l’istituzione di un’autorità interdisciplinare e internazionale sotto l’egida dell’Onu per risolvere la situazione di Fukushima, data l’incapacità dimostrata dalla Tepco nella gestione dell’incidente. 

Primi firmatari:Harumi Matsumoto Yukari Saito Chie Wada Angelo Baracca Massimo Bonfatti Marcello Buiatti Ernesto Burgio Giulietto Chiesa Giorgio Ferrari Antonietta Gatti Patrizia Gentilini Ugo Mattei Stefano Montanari Giorgio Nebbia Giorgio Parisi Paola Pepe Adriano Rizzoli Roberto
Romizi Alex Zanotelli Monica Zoppè Alberto Zoratti 


L’appello può essere firmato sul sito: http://isdepalermo.ning.com/notes/Fukushima

martedì 22 maggio 2012

EGITTO: una guerra per l'acqua

Molti paesi africani dell'alto corso del Nilo rivendicano una spartizione più equa delle acque del fiume. Ma l'Egitto si oppone e si prepara ad affrontare una vera e propria battaglia per il controllo delle risorse idriche.

“L’Egitto è un dono del Nilo” scriveva lo storico greco Erodoto nel V secolo a. C.. Le acque di questo fiume che percorre più di 6700 chilometri di terra africana e le periodiche inondazioni che depositano sul terreno il limo – uno strato di fango molto fertile – rappresentavano e continuano a rappresentare la linfa vitale dell’Egitto. Tuttavia oggi la costruzione di grandi opere idriche, l’intensa irrigazione, l’evaporazione, le torride estati e la crescente popolazione stanno pian piano costringendo gli egiziani a ripensare a come utilizzare le risorse idriche del Nilo. Sebbene la quota annuale destinata all’Egitto sia di 55.5 miliardi di metri cubi di acqua, secondo quanto affermato da una ricerca di Fathi Farag, un esperto egiziano delle risorse idriche, l’Egitto perde circa cinque miliardi di metri cubi a causa dell’evaporazione. Inoltre circa il 40% di quello che rimane viene sprecato a cause di perdite nelle tubature, e altri 2,5 miliardi di metri cubi vengono utilizzati per produrre elettricità.
“Gli egiziani si devono adattare a fare un uso quotidiano sempre minore di acqua” ha dichiarato Rida Damak, dell’Università del Cairo. Infatti gli 85 milioni di egiziani hanno ogni giorno sempre meno acqua a disposizione e soprattutto nella capitale egiziana – dove vivono quasi diciotto milioni di persone – interi quartieri sono di frequente privi di acqua. Segnali preoccupanti che nei mesi scorsi hanno portato nelle strade dell’Egitto milioni di persone. Ed oltre alle pressioni dei propri cittadini, il governo egiziano deve anche far fronte alle forti rivendicazioni dei paesi vicini. Infatti la spartizione delle acque del Nilo, che dà il controllo assoluto all’Egitto e al Sudan, è frutto di una decisione presa in età coloniale nel 1929 e poi ribadita nel 1959. Tuttavia a maggio 2010, sei paesi che si trovano nell’alto corso del Nilo e che fanno parte dell’Iniziativa del Bacino del Nilo – il Kenia, il Burundi, l’Etiopia, il Rwanda, la Tanzania e l’Uganda – hanno sfidato la monopolistica spartizione delle risorse idriche del fiume e il potere di veto egiziano riguardo alla divisione delle acque del Nilo ed hanno firmato un nuovo accordo per la spartizione delle acque, accordo che l’Egitto non ha riconosciuto.
Il passo successivo è stato fatto dall’Etiopia che ha annunciato la propria intenzione di costruire un sistema di dighe lungo il corso del Nilo per generare elettricità. A marzo 2011 l’Etiopia ha annunciato la costruzione della Diga del Rinascimento, che, una volta realizzata, sarà il più grande impianto idro-elettrico africano. Tuttavia a lanciare l’allarme sono gli ambientalisti: la diga potrebbe creare danni ambientali irrimediabili. Secondo quanto calcolato dal professore di ingegneria dell’irrigazione dell’Università di Alessandria, Haytham Awad, la diga ridurrebbe la quota annuale di acqua destinata all’Egitto di circa 5 miliardi di metri cubi e se l’Egitto cooperasse con l’Etiopia e comprasse parte dell’elettricità generata, si potrebbe arrivare ad una soluzione condivisa.
Tuttavia quella che deve affrontare l’Egitto è una vera e propria battaglia per l’acqua. E lo scenario, aggravato dalla complicata situazione politica, si preannuncia difficile: il paese, il cui settore agricolo costituisce il 13,5 % del PIL, dipende quasi interamente dalle risorse idriche del Nilo ed una diminuzione del flusso d’acqua provocherebbe un consistente aumento del costo d’approvvigionamento dell’acqua e conseguentemente un innalzamento del prezzo dei prodotti agricoli. E in caso di mancato accordo tra i vari paesi, la crisi potrebbe trasformarsi in una vera e propria guerra per il controllo delle risorse idriche. 
Anna CLEMENTI (NenaNews)

mercoledì 16 maggio 2012

Lefebvriani

**L’ombra dei generali argentini sull’accordo fra Santa Sede e lefebvriani**
di Francesco Peloso, Micromega

Chi sono realmente i lefebvriani, il gruppo ultratradizionalista che sta cercando un accordo con la Santa Sede per rientrare a pieno titolo nella Chiesa di Roma? Di loro si sanno alcune cose fondamentali: formano un gruppo che si è opposto alla riforma del Concilio Vaticano II, sono percorsi da una cultura antisemita, contestano i principi della libertà religiosa, dell’ecumenismo, della convivenza fra fedi e culture, combattono i principi liberali e democratici, hanno avuto
rapporti con le correnti più reazionarie del pensiero politico e religioso degli ultimi decenni. Eppure c’è qualcos’altro da conoscere, una radice più profonda, in grado di spiegare meglio la strana miscela di messe in latino celebrate in rito preconciliare e la natura politica della loro presenza.

I negoziati con la Santa Sede e le origini dimenticate della Fraternità
I lefebvriani sono guidati oggi da monsignor Bernard Fellay, il Superiore della Fraternità di San Pio X, artefice della trattativa con Benedetto XVI per un completo rientro del gruppo nell’ambito della Chiesa dopo lo scisma del 1988. L’offerta del Vaticano è ghiotta: i lefebvriani costituiranno una prelatura personale – l’unico precedente è l’Opus Dei – cioè una struttura autonoma che risponde direttamente al Papa e di fatto non se la deve vedere con i vescovi locali. Già nel luglio del 2007 il Papa aveva liberalizzato la messa in latino secondo il rito preconciliare (con il motu proprio ‘Summorum pontificum’), poi è arrivata, nel 2009, la revoca della scomunica per i quattro vescovi ordinati dal Marcel Lefebvre nel 1988 senza il permesso del Papa. Fellay fa parte del quartetto, come quel monsignor Richard Williamson, che diventò famoso tre anni fa per le sue teorie negazionista della Shoah e delle camere a gas provocando quasi una crisi diplomatica fra il Papa tedesco e la Cancelliera Angela Merkel. Gli altri due sono Tissier de Mallerais e Alfonso de Galarreta, argentino, quest’ultimo,di origine spagnola. Sembra che i tre non siano tanto d’accordo con monsignor Fellay: la Chiesa di Ratzinger è ancora troppo liberal per loro.

“I Fondatori”
Se questo è lo stato dell’arte - la conclusione dei negoziati fra Santa Sede e Fraternità di San Pio X è prossima – tutti sembrano dimenticare una figura chiave, quella del fondatore della Fraternità.
Si tratta di un elemento decisivo: nei movimenti ecclesiali, nelle congregazioni, il “fondatore” è infatti personaggio chiave nel ben e nel male. Come il tenebroso Marcial Maciel, che diede origine ai Legionari di Cristo, o l’iniziatore dell’Opus Dei, José Maria Escrivà del Balaguer. Lefebvre sembra scomparso dal dibattito in corso, tutto viene ricondotto alla possibilità che la Fraternità accetti o meno un misterioso “preambolo dottrinale” – sottoposto ai lefebvriani dalla Congregazione per la dottrina della fede - che dovrebbe includere l’accettazione parziale o integrale del Concilio Vaticano II. Nulla vi è però di certo su quanto sta accadendo. Al contrario i trascorsi di Lefebvre sono noti e dalle pagine di un passato assai recente – a dispetto di una “tradizione” che vuole rifarsi alla controriforma – emergono elementi che descrivono il cuore profondo di un progetto politico-ecclesiale reazionario il cui fine è sempre stato quello di spegnere le velleità riformiste del Concilio.

La Fraternità e la Chiesa in Argentina
Oggi la Fraternità è particolarmente forte e presente in Argentina, dove vanta ben 11 province, un noviziato il seminario di La Reja a 40 km da Buenos Aires, altre sedi sparse per il Paese. Se gli anni ’70 sono stati in America Latina il momento espansivo di una chiesa di popolo genericamente riassunta sotto il nome di “teologia della liberazione”, parallelamente in tutta la regione si  svilupparono movimenti cattolici di estrema destra, appoggiati da settori dell’episcopato, dai militari, dalle oligarchie che governavano i diversi Paesi. Lo scontro, come è noto, fu drammatico, ed è in questo contesto che Lefebvre coltivò un rapporto intenso con i militari argentini, un legame che si rafforzò dopo il golpe del 1976. Dagli archivi dell’epoca sono emerse le tracce degli incontri fra Jorge Videla e Lefebvre, delle messe celebrate dall’arcivescovo francese nelle caserme, degli incontri con ambienti del clero locale. Un’attività che metteva in difficoltà l’episcopato ufficiale in quanto da una parte veniva superato a ‘destra’ nel dialogo preferenziale con i militari, dall’altra si trattava pur sempre di un vescovo in odore di scomunica. Così la stessa giunta militare utilizzò Lefebvre per fare pressione sull’episcopato argentino; esisteva, nello stesso mondo ecclesiale, un interlocutore che non aveva difficoltà neanche formali a sostenere la dittatura. E del resto i vertici ecclesiali di quegli anni in Argentina non furono da meno: da Antonio Caggiano, capo conservatore dell’episcopato nei primi anni ’70, ad Adolfo Servando Tortolo che prese il posto di Caggiano e rimase alle guida dei vescovi dal luglio del 1975 al 30 marzo 1982 assumendo in sé anche la carica di vescovo castrense, cioè delle forze armate. Le complicità fra le gerarchie ecclesiastiche e lo stesso Vaticano con la dittatura, sono ormai dimostrate. Vogliamo però ricordare, tanto per avere presente di cosa si sta parlando, che Christian Von Wernich, cappellano della polizia di Buenos Aires, fu condannato all’ergastolo nel 2007 per aver preso parte a sequestri, torture e assassinii durante la dittatura militare. In particolare 42 sequestri, 7 omicidi, 32 casi di tortura.

La calda estate del 1976 e l’elogio dei generali
Bisogna riandare alla fatidica estate del 1976, per mettere a fuoco il legame fra Marcel Lefebvre, il fondatore del gruppo ultrareazionario cattolico della Fraternità di San Pio X, e la storia argentina di quegli anni, la dittatura, il golpe, ciò che ne seguì. Il conflitto fra il vescovo francese e la Santa Sede andava avanti da tempo, le posizioni contrarie al Concilio Vaticano II erano ormai fonte di uno scontro aperto non solo con Paolo VI ma con gli stessi vescovi francesi. Nel 1970, Lefebvre, si era trasferito a Econe, la località svizzera che divenne il centro del suo movimento, la Fraternità San Pio X dove si parlava del Concilio come di una “sovversione” contro “la società, la famiglia, la religione”. Sono anni roventi per la Chiesa, le spinte riformatrici ancora forti si fronteggiano contro la levata di scudi tradizionalista. Il seminario di Econe viene fatto chiudere dalla Santa Sede, Lefebvre non si arrende, ha i suoi seguaci, decide di non sottomettersi al Papa e nel luglio del 1976 riceve la sospensione a divinis. Poche settimane dopo, è il 29 agosto, a Lille, in Francia, celebra una messa cui partecipano migliaia di persone e soprattutto un gran seguito di giornalisti.

Dall’altra parte dell’Oceano, in Argentina, intanto, il 24 marzo un colpo di stato militare aveva posto una fine violenta alle turbolenze politiche e sociali che attraversano un Paese in grave crisi economica. Lefebvre parla alla sua gente e, per dire dei rischi della democrazia e delle ideologie progressiste, tira fuori, guarda caso, l’esempio argentino. Non solo: in un’omelia nella quale in
riferimento alla messa rinnovata dal Concilio afferma: “il rito della nuova messa è un rito bastardo, e i sacramenti sono dei sacramenti bastardi”, improvvisamente il leader del gruppo tradizionalista si mette a parlare di economia. Lefebvre spiega senza indugio che Dio, ordinando la società, ha dato le sue leggi anche all’economia per far vivere una società secondo giustizia. C’è anche un esempio concreto già pronto.

La messa di Lille e l’esempio argentino
Dove si realizza l’ordine di Dio? la risposta l’arcivescovo ce l’aveva a portata di mano: “Prendete l'immagine della Repubblica Argentina. In che stato era solamente due, tre mesi fa? Completa anarchia, i criminali che uccidevano a destra e a sinistra, l’industria completamente rovinata, i proprietari delle fabbriche presi in ostaggio, una rivoluzione sconvolgente”. E tutto questo avveniva “in un Paese tanto bello, così equilibrato, che ispira simpatia come la Repubblica argentina, una Repubblica che potrebbe vivere una prosperità incredibile, con straordinaria ricchezza”. In questo caos assoluto che succede? “Arriva un governo d’ordine, che ha dei principi, che possiede autorità, che mette un certo ordine nel mondo degli affari, che impedisce ai ladri di uccidere gli altri, ed ecco che l'economia rifiorisce, e che i lavoratori hanno un impiego e possono tornare a casa sapendo di non essere colpiti da qualcuno che li vuole far scioperare per forza”.

“Ordine cristiano” in Argentina e Cile
Pochi giorni dopo, il 15 settembre del 1976, Lefebvre tornava sulla questione nel corso di una conferenza stampa nella quale gli venivano chieste spiegazioni su quel passaggio della sua celebre omelia. E l’arcivescovo non si fece pregare. La Chiesa, disse Lefebvre, ha i suoi principi politici perché in effetti la stessa società è creata da Dio. Quello che ho fatto, disse Lefebvre, è un esempio di
“ordine cristiano”, di si tratta di persone che organizzano quest’ordine secondo una determinata gerarchia necessaria in una società. “Ho citato quest’esempio – aggiunse - perché è recente e noto a tutti. E anche perché la situazione era veramente terribile, l'Argentina era in uno stato di anarchia, con omicidi e rapimenti, una situazione sull'orlo dell'abisso, sull’orlo di una totale anarchia. Un governo quindi ha assunto il potere e credo che chi ne ha preso la direzione lo ha fatto in uno spirito cristiano se si guarda alle idee di questi uomini (conosco alcuni dei vescovi argentini e io ero lì io non molto tempo fa), penso dunque che gli uomini ora alla guida del governo hanno operato in uno spirito cristiano”. Nessun governo al mondo è mai perfetto aggiungeva Lefebvre, quindi nemmeno questo, e tuttavia in Argentina si sono affermati “principi di giustizia ed è per questo che ho fatto quell’esempio”. Non sostengo nessun governo, spiegava poi, ma subito aggiungeva – e non era ironico - “potevo fare anche un altro esempio, quello del Cile, ma questo non significa che io sostenga i governi del Cile o dell’Argentina”. In una biografia dichiaratamente apologetica di Lefebvre scritta dall’autore ultraconservatore Michael Davies, si spiega, ricordando gli episodi in questione, che “in entrambi i casi (Argentina e Cile, ndr) i militari sono andati al governo perché la vita era diventata letteralmente impossibile a causa dei regimi precedenti”. E ancora: “E' anche un fatto che i governi di Cile e Argentina sono stati sottoposti a una campagna di diffamazione sistematica nella stampa laica e cattolica”.

Il crimine politico peccato originale della Fraternità San Pio X
Quella che scaturirà da questo rapporto fra tradizionalismo cattolico e dittatura sarà una storia complessa; Lefebvre si recherà in visita in Argentina ripetutamente, celebrerà messe, in alcune occasioni gli sarà impedito di entrare nelle caserme e ne deriveranno tumulti, incontrerà Videla e altri militari di rango. I legami fra il tradizionalismo cattolico reazionario alla Charles Maurras (leader della famigerata Action francaise, organizzazione antisemita a vocazione autoritaria che appoggiò il regime di Pétain), e la classe dirigente argentina, aveva radici antiche e risaliva indietro nei decenni del dopoguerra. Anche l’antisemitismo era diffuso in un Paese dove l’emigrazione ebraica era stata consistente e spesso ebrei erano stati dirigenti politici e sindacali di sinistra. La messa preconciliare in latino, “l’ordine cristiano”, la legge di Dio contro i sovvertimenti rivoluzionari, sono stati alcuni dei contenuti ideologici sui quali una classe di militari e di alta borghesia, ha riportato la “disciplina” nel Paese fondandola su migliaia di morti, di sequestri, di sparizioni, con episodi agghiaccianti – svelati nel corso degli anni - come quello dei prigionieri scaraventati nell’Oceano semisvenuti, cioè vivi. E’ una storia in buona parte conosciuta, eppure meno noto è che la Fraternità di San Pio X mise radici in Argentina proprio in quegli anni, si articolò in varie città, fu finanziata. Anche uno dei quattro vescovi oggi riammessi dal Papa, Alfonso de Galarreta fu ordinato sacerdote da Lefebvre in Argentina nel 1980, tre anni prima che cadesse la dittatura.

Vale a questo punto rilevare alcune similitudini. Marcial Maciel, con i suoi Legionari di Cristo, è stato un criminale accusato di reati gravi come gli abusi sessuali su minori e le violenze su ragazzi e su donne; fu inoltre sacerdote che tradì gli ordini diventando padre di diversi figli, diffuse il culto della propria personalità nella congregazione, accumulò una fortuna in denaro, corruppe le alte
gerarchie vaticane e fu appoggiato dalla destra repubblicana degli Stati Uniti e dai miliardari messicani come Carlos Slim. Negli statuti della congregazione, particolare non indifferente, si spiegava che obiettivo del movimento era anche quello di combattere la teologia della liberazione. Lungo questo crinale storico, se Maciel è la faccia impresentabile di una chiesa reazionaria per via di
un’immoralità personale manifesta e un po’ grottesca, Lefebvre – al contrario – è il fondatore di un movimento che si inscrive, lucidamente, nella categoria del crimine politico attraverso la controriforma liturgica e l’appoggio alle dittature fasciste che dilagarono in America Latina negli anni ’70. E’ dunque a queste origini che bisogna risalire per comprendere l’identità dei lefebvriani e per prendere nota della portata politica e storica di un negoziato con la Santa Sede che è parte di una strategia di stravolgimento del Concilio Vaticano II e di negazione della modernità come percorso lungo il quale avanzano la democrazia e i diritti umani.



giovedì 10 maggio 2012

Torino: SMAT SpA

Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

Comunicato


SMAT SpA : applicazione del Referendum sull’acqua pubblica
Comune di Torino - Mercoledì 9 maggio 2012 ore 12,30
Audizione presso la I e VI Commissione Consiliare e la Commissione Capigruppo riunite.

Finalmente una riunione con un’ottima presenza e partecipazione dei consiglieri comunali.
Una decina di acquaiol* ha esibito in silenzio le nostre bandiere “Il mio voto va rispettato” creando un bell’effetto cromatico e anche politico (v. galleria fotografica) .
Erano in discussione due Mozioni sull’applicazione dell’esito referendario nella gestione del SII Torinese, una presentata dal Movimento 5Stelle che rifletteva correttamente le posizioni del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, e una di SEL e altri che proponeva un sostanziale “Status quo ante referendum” (“… evitare qualsiasi tentativo di liberalizzazione o privatizzazione che interrompa la gestione in house …” e “…ridefinire la tariffa SMAT in modo da liberare ulteriori risorse da destinare agli investimenti...”)
SEL ha posto rimedio all’errore politico iniziale, presentando due emendamenti al testo del sua stessa Mozione sottoscritti anche dagli altri firmatari due dei quali del Gruppo PD.
Particolare interesse ha riscosso l’intervento del Capogruppo PD Stefano Lorusso che, dopo aver ricordato i passi già compiuti dal Consiglio Comunale di Torino per l’acqua pubblica, ha dichiarato esplicitamente che questa Amministrazione Comunale non ha alcuna intenzione di privatizzare SMAT e che non esistono preclusioni né obiezioni pregiudiziali alla modifica della struttura societaria di SMAT una volta garantita la sostenibilità economica delle opzioni politiche proposte.
Il Presidente della VI Commissione da parte sua ha preannunciato una prossima audizione sull’applicazione del secondo quesito referendario e cioè l’abrogazione della “remunerazione del capitale investito”
Il nostro Comitato si è dichiarato interessato e disponibile a continuare il confronto così avviato.
Ha anche ribadito che - pur avendo già superato il numero di firme richieste dal regolamento ad appena un mese dall' inizio della campagna (2.200 sulle 1.500 previste) per la trasformazione di SMAT in Azienda Speciale Consortile - proseguirà la raccolta per il tempo restante concesso dal Regolamento comunale, per continuare in tal modo un contatto esteso e proficuo con i nostri concittadini e maturare insieme la consapevolezza dell’importanza di questo atto da sottoporre al voto del Consiglio comunale in adempimento della volontà espressa a larghissima maggioranza dai torinesi nel Referendum del 12 e 13 giugno 2011.




Torino, 10 maggio 2012
Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Comitato Provinciale Acqua Pubblica Torino
via Verdi 34 – 10124 Torino
www.acquapubblicatorino.org – cell 388 8597492

mercoledì 9 maggio 2012

TAV Torino-Lione: quali opportunità e criticità [Atti del Convegno]


Pubblicati gli atti del convegno scientifico del 26 Aprile 2012 al Politecnico di Torino: "TAV Torino-Lione: quali opportunità e criticità", promosso da esperti e docenti di varie Università.
Sono disponibili gli interventi di tutti i relatori in formato audio-video, così come i documenti utilizzati (presentazioni PowePoint, documenti pdf...)
Trovate tutto qui: http://www.notavtorino.org/documenti-02/poli-26-04-2012/

Ad inizio 2012, oltre 360 tecnici e docenti universitari avevano inviato un appello al Presidente del Consiglio chiedendo un ripensamento sulla questione della linea Torino-Lione.
Attraverso dati oggettivi e criteri di valutazione verificabili con metodo scientifico, il convegno ha esaminato la reale consistenza tecnica degli argomenti indicati a sostegno della costruzione di una nuova linea ferroviaria in aggiunta a quella già in esercizio tra Torino e Lione, e le sue criticità.

Invitiamo a dare la massima visibilità a questo materiale nei diversi siti, nelle mailing list ecc.
Crediamo sia importante che chi non ha partecipato al convegno, soprattutto chi vive lontano dalla Val di Susa e da Torino, possa conoscere cosa è stato detto in quella sede: se dimostrare di avere ragione non è certo sufficiente per indurre governo e soci (in affari) a fare retromarcia non è da sottovalutare l'importanza di iniziative come questa che puntano a far crescere il consenso sulle ragioni no-tav. Pubblicizzare ciò che è stato detto al convegno è uno dei tanti modi per tentare di far terra bruciata intorno agli irriducibili che non vogliono sentir ragione.

Notizie dal Comitato NO TAV Torino - n.8
www.notavtorino.org

martedì 8 maggio 2012

Campagna contro i caccia F-35

Leggete fino in fondo e scoprirete quante cose utili abbiamo la responsabilità di realizzare con quei soldi, e vi sarà chiaro quante rinunce e difficoltà era possibile evitare se finora chi ha avuto la possibilità di decidere al riguardo avesse dato priorità alla costruzione di un Futuro umano e al soddisfacimento delle esigenze di base della collettività.

Taglia le ali alle armi
La campagna contro i caccia F-35 prosegue: nessuna decisione è ancora presa e ci si può ancora mobilitare  <http://www.disarmo.org/rete/a/35320.html>

Rete Italiana per il Disarmo e la Campagna "Taglia le ali alle armi" chiedono a gran voce un dibattito pubblico e in parlamento per fermare - senza ulteriori costi - un progetto problematico e mastodontico, un vero spreco da segnalare!

A Maggio porteremo a Roma le oltre 70.000 firme raccolte dalla campagna
<http://www.disarmo.org/rete/a/35280.html>
intanto possiamo scrivere al Governo, che ha chiesto il parere dei cittadini sugli sprechi nella spesa pubblica, segnalando come l'acquisto di 90 cacciabombardieri d'attacco e con capacità nucleare sia un insulto a chi oggi si trova in difficoltà economiche e di sopravvivenza, senza considerare i dubbi di natura tecnica e di costo che tutti i partner del Programma (Stati Uniti compresi) hanno sollevato!
Clicca sul link <http://www.governo.it/scrivia/RedWeb_Form.htm> compila i campi richiesti e scrivi:

"Gentile Presidente del Consiglio Mario Monti, egregi Ministri, vi segnalo come spreco rilevante ed assolutamente inutile di denaro pubblico l'acquisto preventivato nei prossimi anni di circa 90 esemplari del caccia di quinta generazione JSF F-35 (costo attuale di solo acquisto oltre 10 miliardi,
almeno 30 miliardi con il mantenimento).
Con gli stessi soldi si potrebbero dare risposte concrete ai problemi economici che affliggono molte famiglie italiane, investendo in istruzione, sanità, lavoro, recupero e sistemazione del territorio. La invitiamo quindi a prendere in considerazione le alternative a questo scellerato acquisto seguendo le proposte e le indicazioni della campagna "Taglia le ali alle armi" che ha anche elaborato numerosi dati a sostegno della problematicità del progetto JSF F-35.
Cordialmente"


Perchè bisogna dire NO al cacciabombardiere F-35 Joint Strike Fighter:
Anche se il Governo tiene bloccata da tempo (almeno dalla fine 2009) la decisione definitiva, l'Italia a breve potrebbe perfezionare l'acquisto dei cacciabombardieri d'attacco Joint Strike Fighter F-35. Il nuovo annuncio del Ministro Di Paola di riduzione a 90 esemplari non significa nulla: nessun contratto è ancora stato firmato e possiamo quindi fermare completamente questo acquisto (anche perchè la proposta rimodulazione della Difesa deve passare per una discussione parlamentare) Quello del caccia F-35 è un programma che ad oggi ci è costato già 2,7 miliardi di euro ne costerà - in
caso di acquisto di 131 aerei - almeno altri 15 solo per l'acquisto dei velivoli, che potrebbero scendere a 10 miliardi con una riduzione a 90 (il prezzo unitario si alzerà, secondo l'azienda produttrice Lockheed Martin).
Complessivamente arriveremo ad un impatto tra i 15 e i 20 miliardi nei prossimi anni. Senza contare il mantenimento successivo di tali velivoli.

Rilanciano e sostengono questa mobilitazione:
Campagna Sbilanciamoci! - Rete Italiana per il Disarmo - Tavola della Pace - GrilloNEWS - Unimondo - Science for Peace

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INFO:
Votate in parlamento le mozioni F-35: qualche spiraglio verso il ripensamento sul programma
<http://www.disarmo.org/rete/a/35993.html>

La campagna contro i caccia F-35 alla Camera: i dati del Ministero non sono trasparenti. In audizione alla Commissione Difesa i rappresentanti di "Taglia le ali alle armi" chiedono un'indagine conoscitiva sul programma JSF
<http://www.disarmo.org/nof35/la-campagna-contro-i-caccia-f-35-alla-camera-i-dat>

Il programma Joint Strike Fighter: costi, problemi ed analisi della partecipazione italiana documento predisposto in vista della audizione alla Commissione Difesa della Camera dei Deputati della Rete Italiana per il Disarmo
<http://www.disarmo.org/nof35/il-programma-joint-strike-fighter-costi-problemi-e>

I volti noti a sostegno della campagna
<http://www.disarmo.org/rete/a/34846.html>

Taglia le ali alle armi
<http://www.disarmo.org/rete/a/35320.html>


Argomenti in Pillole contro i caccia F-35:

il solo il propulsore del caccia #F35 costa come un aereo antincendio Canadair, cosa difende meglio il nostro territorio? #noF35facts diffondi!

con un solo radar del caccia F-35 (10 milioni) si potrebbero produrre ed installare 10.000 pannelli solari #noF35facts bit.ly/wj7SpZ

un caccia F35 nuovo fiammante pronto a bombardare... o 32.250 borse di studio per studenti universitari? cosa costruisce futuro? #noF35facts

Un caccia F-35 armato di tutto punto o 250 scuole italiane messe in sicurezza? cosa difende meglio noi e i nostri figli? #nof35facts

Sistema ottico di puntamento di un caccia F-35 o gestione di 5 anni di raccolta differenziata per un comune di 100mila abitanti? #nof35facts

un cacciabombardiere F-35 oppure 18.500 ragazze e ragazzi in servizio civile? scegliete voi #nof35facts

Al costo di un cacciabombardiere F35 si potrebbe fornire indennità di disoccupazione a oltre 17.000 precari - #nof35facts diffondi!

Con i soldi che si dovrebbero spendere per un singolo caccia, potremmo acquistare oltre 20 treni per pendolari (12500 posti) #nof35facts


altre notizie in primo piano dalla rete disarmo:

Italia: Aumenta l'export di armi, ma diminuisce la trasparenza
<http://www.disarmo.org/rete/a/36164.html> >>>

Per conoscere la Rete scarica questa scheda:
<http://www.disarmo.org/rete/docs/3170.pdf>





Da settembre 2011 è in corso la seconda fase della campagna di pressione
(originariamente lanciata da Sbilanciamoci! e da Rete Italiana per il Disarmo) affinché il Governo italiano rinunci all'acquisto dei cacciabombardieri F-35 "Joint Strike Fighter".


Per sostenerci anche tu, vai alla pagina www.disarmo.org/nof35 oppure
diventa fan su Facebook alla pagina www.facebook.com/taglialealiallearmi -
segnala la pagina di raccolta firme ad amici e conoscenti!


ControllARMI -
Rete Italiana per il Disarmo
www.disarmo.org
segreteria@disarmo.org



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Sii il Cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo - Gandhi

lunedì 7 maggio 2012

Inceneritore del Gerbido, il ricorso

Anche se mancano ormai pochi mesi alla prevista entrata in funzione dell’inceneritore del Gerbido in regime sperimentale, non c’è alcun segnale di resa da parte della vasta galassia di movimenti e comitati spontanei di cittadini responsabili che si oppongono con forza all’inaugurazione del nuovo ecomostro. In questo rinnovato clima di lotta si inserisce l’iniziativa del Coordinamento No Inceneritore Rifiuti ZeroTorino: la presentazione di un ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte (T.A.R.), firmato dall’Associazione Pro Natura e da alcuni cittadini residenti nelle vicinanze dell’erigendo impianto. Il Movimento 5 Stelle Piemonte ha dato disponibilità a fornire supporto finanziario per affrontare le spese legali, integrando le donazioni volontarie dei cittadini stessi.

Il ricorso - presentato contro la Provincia, il Comune di Torino, l’A.R.P.A. e T.R.M. - impugna il rinnovo dell'Autorizzazione Integrata Ambientale (A.I.A.) per la realizzazione e la successiva gestione
dell’inceneritore. Vengono asserite, in particolare, violazioni rispetto alla recente e consolidata giurisprudenza amministrativa in materia di V.I.A. (ossia la valutazione dell'impatto ambientale dell'impianto sul territorio circostante), sulla base della legislazione ambientale interna, di norme europee in materia, nonché della Costituzione Italiana.

L’aspetto più innovativo del ricorso - che in questo si differenzia dalle altre cause legali presentate in precedenza - è che in esso sono presenti richieste volte a far valere la grave omissione dell’esame prioritario delle alternative all’incenerimento; esame prioritario dovuto in base alla vigente normativa internazionale ed europea, motivato dalla ormai scientificamente accertata tossicità per l’uomo di taluni inquinanti emessi da questi impianti e rispetto al quale il ricorso alle migliori tecnologie disponibili è criterio che opera in subordine.

Fra le motivazioni addotte dagli avvocati Mattia Crucioli ed Enzo Pellegrin nelle 41 pagine del documento, spicca l’ampia casistica di danni alla salute riscontrabili negli individui che vivono in prossimità degli inceneritori e che sono pertanto esposti a sostanze chimiche in grado di contaminare aria, cibo, acqua e suolo. Non a caso tutti i cittadini ricorrenti abitano entro un raggio di 3 km dall’attuale cantiere.

All’interno del ricorso, inoltre, vengono citati autorevoli studi e ricerche a sostegno delle asserzioni avanzate: fra questi il recentissimo Studio Moniter, promosso dalla Regione Emilia Romagna e pubblicato nel 2011, che ha preso in esame lo stato di salute degli abitanti nei pressi degli otto inceneritori presenti sul territorio regionale. Nello Studio è stato accertato un aumento di Linfomi Non Hodgkin, di bambini nati pretermine e con basso peso alla nascita connesso all’esposizione agli inquinanti tipici degli impianti d’incenerimento.

Questa azione legale è da considerarsi una grande battaglia di civiltà volta a dimostrare che la filosofia del «decisionismo ad ogni costo», completamente sordo ad ogni controindicazione, è una pratica politica indegna per un sistema democratico, soprattutto quando è seriamente minacciato l’inalienabile diritto alla salute. Occorre invece riaffermare, in casi come questo, l’importanza del «principio di precauzione».

Il Coordinamento No Inceneritore Rifiuti Zero Torino esprime infine la propria gratitudine a tutti i cittadini che hanno finora sostenuto economicamente la causa legale, ricordando che è possibile dare il proprio contributo alle donazioni seguendo le indicazioni contenute sul sito web www.noinctorino.org.

sabato 5 maggio 2012

Brasile: nuovo codice forestale

Non sono state sufficienti le pressioni e le proteste delle associazioni ambientaliste di tutto il mondo, né è bastata la lunga lista nera di omicidi legati alla terra e alla foresta, quella foresta che in Brasile pare valere più dell’oro e che continua a fare gola a tanti. A troppi e troppo potenti.  Lo scorso mercoledì, infatti, la Camera dei deputati brasiliana ha approvato in via definitiva la legge sul nuovo Codice Forestale, che prevede un deciso allentamento nei controlli sulla deforestazione e sullo sfruttamento delle aree forestali, in particolare quelle amazzoniche. Con 274 voti favorevoli e 184 contrari, il nuovo regolamento è ora nelle mani del Presidente brasiliano Dilma Roussef: a lei la scelta di respingerlo o di trasformarlo in legge a tutti gli effetti. E a lei si sono appellate le associazioni ecologiste come Greenpeace, secondo cui questa nuova versione del Codice Forestale potrebbe segnare «l’inizio della fine delle foreste».

Il nuovo Codice Forestale. L’attenzione è concentrata in particolar modo sulle aree forestali amazzoniche, universalmente riconosciute come il “polmone verde” del mondo e fino ad oggi tutelate da leggi particolari che ne hanno permesso la sopravvivenza. Secondo la versione del Codice Forestale risalente al 1965 e ancora in vigore,  infatti, i proprietari terrieri sono obbligati a mantenere intatta almeno una certa percentuale di foresta nativa sui propri terreni – percentuale che nel caso delle aree amazzoniche raggiunge l’80% dei possedimenti – mentre alcune aree forestali particolarmente delicate (quali ad esempio quelle sulle rive dei fiumi) sono inserite nella categoria di area protetta permanente. La nuova versione del Codice, invece, andrebbe ad allentare proprio le restrizioni sulle aree più sensibili, permettendo il disboscamento anche sulle vette di colline e montagne (fino ad ora protette), e concederebbe il condono delle multe per i responsabili di disboscamenti illegali fino al 2008 e la concessione del “credito agricolo” a chi ha deforestato, con la conseguente possibilità di costruzione di fattorie nelle zone dissodate in maniera illecita prima del luglio 2008.

La “catastrofe” delle foreste brasiliane.«I coltivatori – ha affermato  al riguardo Paolo Piau, autore della riforma del Codice Forestale – avranno così più stabilità e sostegno politico. La produzione e l’ambiente non potranno che beneficiarne. Con una legge confusa, non ci sono invece benefici». Un punto di vista, questo, non condiviso dall’opposizione, secondo cui «con questa nuova legge – così ha affermato il deputato d’opposizione Sarney Filho – stiamo per modificare tutti quegli aspetti che avevano portato ad un decremento del tasso di deforestazione», né dalle associazioni ecologiste, che vedono nella modifica del Codice Forestale una «catastrofe», soprattutto in vista della conferenza Onu sulla sostenibilità ambientale prevista a Rio dal 20 al 22 giugno prossimi.  Secondo uno studio dell’Università di Brasilia riportato sul sito di Greenpeace, infatti,  se il nuovo Codice Forestale diventasse legge si verificherebbe entro il 2020 un aumento del 50% della deforestazione in Amazzonia ed il Brasile potrebbe perdere 22 milioni di ettari di foresta pluviale: un’area pari a quella del Regno Unito o dello stato del Minnesota.

Foresta che uccide. Le questioni relative alla terra e alle ricche aree forestali in Brasile sono una ferita aperta da molti anni. Nella zona – particolarmente importante dal punto di vista ecologico – si scontrano ferocemente interessi di diversa natura ma egualmente potenti: dell’industria del legno, del commercio di carne bovina  – di cui il Brasile è uno dei maggiori esportatori mondiali e che richiede sempre nuovi pascoli – ma anche dell’estrazione mineraria e dello sfruttamento infrastrutturale dell’area (strade, ferrovie, dighe). Interessi che negli ultimi anni hanno condotto ad uno scontro sempre più feroce anche con quei contadini e quegli ambientalisti che vi si sono opposti: i dati della Commissione Pastorale per la Terra (Cpt) della Chiesa cattolica brasiliana infatti parlano di più di 1.500  omicidi negli ultimi 25 anni per questioni legate allo sfruttamento della terra in Brasile.

mercoledì 2 maggio 2012

Dal "privato è bello" al "privato è ineluttabile"


Disarmare i mercati
per la democrazia dei beni comuni
di Marco Bersani (Attac Italia)

1. La crisi morde, attanaglia, non dà respiro
Investe l’economia e la società, l’ambiente e le condizioni di vita, la democrazia e le relazioni sociali.

La crisi rivela. Scopre la grande menzogna di quaranta anni di modello neoliberista e l’enorme espropriazione sociale messa in atto ai danni delle persone.
Allora, grazie ad una serie di innovazioni tecnologiche nel campo dell’informatica, della comunicazione e dei trasporti, l’ideologia neoliberale ha raccontato a tutti la favola oggi trasformatasi in incubo : “Facciamo dell’intero pianeta un unico grande mercato, liberalizziamo i mercati finanziari e diamo piena libertà ai movimenti di capitali; togliamo loro ‘lacci e lacciuoli’, legati a concezioni obsolete e sconfitte dalla storia, eliminiamo tutti i vincoli sociali e ambientali, e sarà il libero dispiegarsi del mercato a regolare la società, producendo un’enorme ricchezza che, se anche non eliminerà le diseguaglianze sociali, produrrà a cascata benessere per tutti
La favola ha trovato un suo primo momento di impasse già alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, quando, contrariamente a quanto enfaticamente annunciato, le diseguaglianze tra la parte più ricca e quella più povera del pianeta si sono rivelate mai così ampie nella storia dell’umanità, al punto che la stragrande maggioranza della popolazione può essere considerata “fuori mercato”, ovvero talmente impoverita e depredata da non poter accedere neppure al ruolo di consumatore. Contemporaneamente, la parte minoritaria della popolazione,che ha continuato a detenere un potere d’acquisto, si è trovata nella condizione di aver sostanzialmente già comprato quasi tutto, determinando per il modello capitalistico una situazione di sovrapproduzione di merci e una crescente difficoltà nell’allocarle su nuovi mercati.

2. La prima conseguenza di questa impasse è stata l’abnorme espansione dei mercati finanziari: Poiché l’obiettivo di ogni detentore di capitali è quello di ottenere, nel più breve tempo possibile, più denaro di quanto ne avesse prima, in caso di difficoltà nel campo della produzione di merci e di servizi, si apre la via della valorizzazione dentro la sfera finanziaria e del capitale fittizio. Con esiti da incubo che alcuni semplici dati possono ben chiarire : gli scambi di valute all’interno del sistema finanziario hanno oggi superato i 3.000 miliardi di dollari al giorno a fronte di un commercio transfrontaliero di beni di 10.000 miliardi di dollari l’anno; i prodotti finanziari derivati, negoziati sui mercati non regolamentati “over the counter” hanno raggiunto una cifra pari a 12/15 volte l’intero Pil del pianeta.
L’espansione della sfera finanziaria dell’economia, lungi dall’aver provocato la crisi di una presupposta “buona” economia reale, ne ha invece consentito la posticipazione di almeno altri due decenni, fino ai giorni nostri, con lo scoppio della bolla dei subprime e della “crisi” del debito.

3. La seconda conseguenza è stata –ed è tuttora – la necessità da parte del modello capitalistico di mettere a valorizzazione finanziaria l’intera vita delle persone, da una parte smantellando l’insieme dei diritti del lavoro e lo stato sociale , e dall’altra consegnando ai capitali finanziari la natura, i beni comuni e i servizi pubblici locali.
Terreno sul quale si è tuttavia sviluppata una variegata, per quanto frammentata, conflittualità sociale, fino all’esperienza del movimento per l’acqua che, attraverso un lavoro capillare di radicamento territoriale e di sensibilizzazione sociale di massa, ha permesso –con la straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011- di affermare la rottura collettiva della catena culturale che per decenni aveva legato le persone all’idea dell’indiscutibilità del pensiero unico del mercato, facendo irrompere nell’immaginario collettivo la categoria dei beni comuni e nella pratica sociale l’esigenza di un nuovo protagonismo diretto delle persone e di una nuova democrazia.

4. E’ anche per rispondere a questa nuova insorgenza democratica che si è prodotta la sapiente costruzione dello shock del debito e della relativa emergenza. Noncuranti del fatto di come l’innalzamento del debito pubblico sia stato direttamente provocato dalle politiche liberiste messe in atto –drastica riduzione delle imposte sui redditi da capitale, spinta all’elusione ed evasione fiscale come scelta di politica economica orientata al sostegno ai profitti, corruzione generalizzata nella gestione della cosa pubblica- l’aumento del debito pubblico viene spiegato alle popolazioni come una sorta di colpa collettiva per aver abusato di garanzie sociali e di privilegi individuali, l’espiazione dei quali rende inevitabili anni di rigore, di austerità e di sacrifici.
E se fino a cinque anni prima l’ideologia del “privato è bello” parlava ai cuori e alle menti delle persone con l’obiettivo di convincerle, ora si passa al “privato è obbligatorio e ineluttabile”, chiedendo non più un’adesione ideale, bensì una mesta rassegnazione.

5. Se il modello capitalistico, per la sua stessa sopravvivenza, è necessitato a mettere a valorizzazione finanziaria l’intero pianeta e la vita delle persone, diviene evidente come l’etimologia della parola crisis, che significa scelta, ponga ai movimenti sociali la necessità di una nuova consapevolezza sull’insostenibilità strutturale di tale modello e di un salto di qualità nell’azione collettiva.
Si tratta di un passaggio sostanziale dall’intervento a valle dei processi in direzione dell’intervento a monte, ovvero nei luoghi della accumulazione delle risorse e della decisionalità politica.
Non ci si può più accontentare dell’esercizio quotidiano del consumo critico a valle senza rivendicare la critica della produzione e la riconversione ecologica a monte, non si possono più contrastare le politiche di privatizzazione a valle senza rivendicare un altro modello sociale e le relative risorse a monte.

6. Emerge nella sua piena drammaticità la crisi della democrazia. L’attacco delle politiche liberiste e monetariste della Bce e dei poteri forti all’anomalia del continente europeo –lo stato sociale- e ai diritti collettivi in ogni singolo Paese, rende evidente il progressivo divorzio fra capitalismo e democrazia, anche nella sua versione più formale, quella di una democrazia rappresentativa consegnata agli interessi particolaristici di piccoli o grandi potentati.
E, d’altronde, la richiesta comune a tutte le conflittualità sociali –che siano i metalmeccanici della Fiat, la resistenza valsusina al TAV o la battaglia per la ripubblicizzazione dell’acqua- è proprio quella di una nuova democrazia, fondata sulla partecipazione diretta delle persone e sulla collegialità dei luoghi in cui si possa affermare.
La questione della democrazia chiama in causa la relazione fra movimenti e politica, che rappresenta, da Genova 2001 in poi, uno dei nodi irrisolti che attraversa le mobilitazioni sociali in questo Paese. E’ su quel nodo che il movimento di allora si è infranto, non sapendo affrontare in maniera compiuta la dialettica tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, come il disastro del Governo Prodi ha reso evidente.
E’ un nodo particolarmente difficile da sciogliere, perché presenta contraddizioni da qualunque punto lo si affronti : se da una parte il ruolo dei partiti è venuto progressivamente scemando sino a metterne in discussione l’utilità sociale, dall’altra il problema per i movimenti di accumulare forza sociale per vederla ogni volta respinta dal muro di gomma di istituzioni impermeabili fino all’’autismo’ si pone con sempre maggiore evidenza.

7. Occorre prendere atto, dal punto di vista dei partiti, che il filo rosso che, fino agli ’70 del secolo scorso, collegava in piena osmosi l’espressione di bisogni da parte della società, la loro rappresentanza sociale attraverso grandi organizzazioni sindacali e associative e la loro rappresentanza politica attraverso i partiti come organizzazioni di massa, si è definitivamente rotto.
Oggi i partiti sono quasi sempre luoghi autoreferenziali che leggono la realtà come proiezione delle proprie analisi sempre più inadeguate o sedi di interessi particolaristici di piccola bottega o vero e proprio clan.
L’idea che il ruolo dei partiti sia la rappresentanza generale di interessi sociali, di per sé parziali, costringe gli stessi a sottovalutare ogni nuova conflittualità perché non ‘centrale’ e, nello stesso tempo, a sottovalutare l’esigenza di un protagonismo sociale non mediato da istanze che rischiano di anestetizzarne la tensione radicale.
Occorre tuttavia contemporaneamente prendere atto di un’ancora insufficiente elaborazione da parte dei movimenti sociali in merito alla complessità del tema, spesso dagli stessi risolto o con il definitivo approdo ad un’antipolitica accompagnata da una poco realistica autosufficienza dei movimenti, sia specularmente attraverso spericolate operazioni di incursione dentro la politica istituzionale, nelle diverse forme della cooptazione, contrattazione politicista di posti o nell’idea di soggetti politici ‘nuovi’, ma già direttamente incamminati sulla strada della scorciatoia politico-elettoralistica, con gli inevitabili corollari di delega, leadership carismatica e contrattazione nel mercato della rappresentanza.
Il tema in tutta evidenza c’è e rimane sul piatto, ma entrambe le strade rischiano solo di aggravarne le conseguenze.
Perché è sui nodi della riapertura di spazi pubblici della decisionalità politica che va riaperto il confronto e la conflittualità politica e sociale : dentro l’espropriazione di diritti e beni comuni portata avanti dai mercati finanziari, il ruolo dello Stato non si riduce quantitativamente, bensì viene stravolto qualitativamente.
Se il pubblico non può più essere la sede della programmazione economica e sociale, né il luogo che dispensa servizi e garantisce diritti collettivi, il suo ruolo non può che verticalizzarsi assumendo i connotati dell’autoritarismo e del controllo sociale.

8. Rompere questa spirale significa aprire una vasta mobilitazione per la riappropriazione sociale dei beni comuni, della finanza e della democrazia, ovvero ragionare sulla costruzione di una coalizione sociale plurima che dal livello locale a quello nazionale e internazionale ponga la necessità di ricostruire luoghi pubblici, trasparenti e collettivi dentro i quali si prendano le decisioni e si destinino le risorse sociali.
Occorre sottrarre al mantra della redditività finanziaria i beni comuni naturali e sociali che sono essenziali alla vita e alla dignità della stessa; occorrono politiche di controllo democratico dei capitali finanziari e di risocializzazione del credito, a partire dall’enorme patrimonio collettivo raccolto dalla Cassa Depositi e Prestiti; occorre una lotta contro le politiche monetariste europee e l’attuale patto di stabilità per sottrarvi tutte le risorse destinate agli investimenti per i beni comuni e il welfare collettivo, occorre prendere di petto l’artificio del debito, rimettendone in discussione i presupposti e i pagamenti.
Ma per poter fare tutto ciò, serve una grande battaglia per la riapertura degli spazi di democrazia a tutti i livelli, dagli enti locali di prossimità allo spazio sociale europeo.
La costruzione di una grande coalizione sociale che veda al suo interno movimenti sociali, forze sindacali, associative e culturali, forze politiche diviene il primo passo per un ‘assedio’ ai luoghi oggi impermeabili della decisionalità politica e per il riconoscimento della necessità di una democrazia partecipativa plurilivello come humus di un nuovo modello economico e sociale.
Una coalizione che non finalizzi la mobilitazione sociale all’approdo nelle aule parlamentari di qualche rappresentanza più o meno carismatica, ma che abbia come scopo l’allargamento della partecipazione e degli spazi di democrazia e che, solo con questa lente, valuti di volta in volta senso e possibilità di una presenza istituzionale.
Perché occorre disarmare i mercati per poter parlare di futuro.