giovedì 26 aprile 2012

Caro Assessore ti scrivo...

L’Assessore Passoni tra TINA e BENI COMUNI

L’intervista dell’assessore Passoni a La Stampa del 23 aprile suscita la sgradevole reminiscenza dell’acronimo tatcheriano: TINA – There Is No Alternative.
Non che il nostro assessore adombri l’abolizione delle politiche sociali che sono un vanto della nostra Città (anche se quelle culturali hanno dimenticato da lungo tempo la lezione Balmas di ricchezza dei contenuti con bilancio spartano).
L’ assessore propone invece la cosiddetta “apertura al privato sociale” in grado – a suo dire - di mantenere l’alto livello dei servizi finora garantito dalla gestione pubblica, a costi inferiori a quelli che il Comune non sarebbe più in grado di affrontare.
Lungi da noi negare le reali difficoltà del bilancio comunale. Riteniamo però che esse non siano superabili con l’ingresso dell’iniziativa privata nella gestione dei Beni Comuni pena una mutazione genetica dei nostri Servizi Pubblici Locali.
Dispiace e delude che il nostro giovane assessore non abbia colto il nuovo che la nostra città sta esprimendo sul grande tema dei Beni Comuni, rivelato anche dal voto referendario, espressione di una visione della società alternativa a quella finora quotidianamente praticata e propagandata.
Con i 388.099 torinesi che hanno votato Sì all’Acqua pubblica, molti dei quali stanno ora firmando perché il loro voto sia rispettato ripubblicizzando la SMAT, il Comitato Acqua Pubblica di Torino, lancia una sfida ideale e culturale per l'affermazione di nuove modalità di gestione del servizio idrico e promuove così un'azione di contrasto alle ricette ultraliberiste che impongono la (s)vendita dei servizi pubblici quale unica soluzione per fare cassa e fronteggiare la precaria situazione finanziaria nella quale si dibattono i Comuni.
Non bastano dichiarazioni estemporanee (''Il patto di stabilità è stupido” ha affermato a fine anno il Sindaco Fassino), per denunciare la subalternità della politica alla volontà dei mercati. Gli strettissimi vincoli alla spesa imposti dal Patto devono essere con forza contestati, con un’iniziativa che trovi slancio proprio a livello locale, che porti al centro del dibattito e della proposta politica la riappropriazione della Cassa Depositi e Prestiti quale strumento per sostenere la spesa pubblica locale. Essa è nata a Torino, in via Bogino 6, nel 1850 e con l’Unità d’Italia è diventata l’Ente pubblico nazionale per raccogliere il risparmio postale e finanziare, a tasso agevolato, gli investimenti di Comuni e Province.
La sua recente trasformazione in Spa ed il susseguente ingresso delle fondazioni bancarie, portano la Cassa Depositi e Prestiti ad agire sempre più come un fondo privato d’investimento, distogliendo così progressivamente un’ enorme massa di liquidità frutto del risparmio dei cittadini (oltre 200 mld. di raccolta annui) dal suo scopo originario, cioè il servizio nell’interesse pubblico.
Ragionare di una nuova finanza pubblica significa anche richiedere con forza l’adozione della Tassa sulle Transazioni Finanziarie (ex Tassa Tobin). Una modesta aliquota applicata sugli enormi volumi di denaro che la grande speculazione muove ogni giorno sui mercati finanziari, consentirebbe di acquisire risorse fondamentali per mantenere e sviluppare quei servizi pubblici che danno la misura del livello di civiltà ed equa distribuzione delle risorse che la nostra Costituzione garantisce.
Assessore Passoni, muova almeno un primo passo in questa direzione per Torino Bene Comune.
Torino, 25 aprile 2012

Forum italiano dei movimenti per l’acqua
Comitato provinciale Acqua Pubblica Torino

www.acquapubblicatorino.org - tel.
388 8597492


mercoledì 11 aprile 2012

siamostatiinvaldisusa #3


siamostatiinvaldisusa#3
TAV, una questione di debiti

Il 9 marzo 2012 il Governo ha pubblicato sul proprio sito istituzionale un documento (http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/TAV/domande_risposte.pdf) con il quale, rispondendo a 14 domande da se stesso formulate, motivava le ragioni per la realizzazione della Torino-Lione.


Il documento ci informa che l’Unione Europea ha finanziato la progettazione e le opere preparatorie nel 2008 per 671 milioni di euro, una cifra di per sé enorme trattandosi solo di valutare la fattibilità tecnica ed economica dell’opera.
Il governo si dimentica però di specificare quali spese esattamente copre il contributo dell’UE: il 50% degli studi di fattibilità e solo il 27% delle opere preliminari (il tunnel geognostico della Maddalena).
Dalle casse franco-italiane dovrebbe uscire un ulteriore miliardo e mezzo entro la fine del 2013 solo per completare la fase preliminare.
A questo finanziamento si aggiunge un ulteriore contributo della Commissione Europea del 2005 pari a 48 milioni di Euro per gli studi preliminari..


Quando il governo parla dei soldi europei sembra riferirsi a risorse generate dal nulla o atterrate in Val di Susa direttamente da Marte. L’Italia è il terzo contributore del bilancio europeo, nel 2011 con 14 miliardi e mezzo di Euro pari a quasi il 15% del totale.


Le stime contenute nel documento secondo le quali la realizzazione delle opere comuni tra Italia e Francia dovrebbe costare 8,2 miliardi di Euro di cui la Commissione verserebbe il 40% (il 15% dei quali sono soldi italiani) sono numeri di mera propaganda.

Il costo dell’alta velocità in Italia è passato da un costo previsto di 9,4 milioni di euro per chilometro nel 1991 a 51, 1 nel 2010 a progetto realizzato.

Inoltre, i finanziamenti a disposizione per le reti di connessione trans-europee non sono così ingenti rispetto al numero di opere da finanziare. Si calcola che circa 31,7 miliardi di Euro saranno a disposizione da parte dell’Unione Europea nel periodo 2014-2020 per finanziare 30 assi prioritari di trasporto in Europa. Ciò vuol dire una media piuttosto bassa per singolo progetto – circa un miliardo di Euro – che non coprirebbe tutto il 40% a cui mirano Monti e gli omologhi d’oltralpe (ossia almeno 3,28 miliardi di cofinanziamento a perdere).


Dunque, dove si prendono i soldi mancanti?
Il professor Monti, che le alchimie finanziarie le conosce bene, lo scorso 19 marzo ha incontrato a Roma il presidente della Banca Europea per gli Investimenti (BEI) chiedendo di implementare in tempi brevi il nuovo strumento finanziario dei “project bond”.

Si tratta di un nuovo tipo di titoli pensati per convincere gli investitori privati a immobilizzare per periodi lunghi la propria ricchezza ed aiutare a finanziare le grandi opere europee tra cui la TAV, con dei tassi di interesse allettanti e la certezza di essere ripagati.
La vera novità di questi titoli consiste infatti nello scaricare sui cittadini il rischio degli investitori privati. Secondo il diritto, e come il default greco insegna, in caso di insolvenza gli Stati di norma sono ripagati ma non gli investitori privati. Con i project bond i paesi Europei, azionisti della BEI, rinuncerebbero al loro grado di “seniority” e qualora qualcosa andasse storto si prenderebbero l’onere di ripagare gli investitori privati. Ossia se c’è un costo extra, se l’opera ha problemi tecnici, se mancano altri finanziamenti e si ferma, o se succede altro e le società e i governi coinvolti non ripagano i debiti contratti, allora i governi europei metterebbero mano al loro portafoglio generando ulteriore debito pubblico.
Esiste anche una variante “all’italiana” di questi project bond, già menzionata nel decreto “Libera-Italia”, per favorire la realizzazione delle infrastrutture. Infatti Mario Ciaccia, Viceministro con delega alle infrastrutture, sostiene che si possano emettere obbligazioni puramente “privatistiche” che alla fine non generino debito. In breve, il governo sogna che investitori istituzionali (quali fondi pensioni, assicurazioni e banche di investimenti, nonché fondi di private equity) possano non solo acquistare i titoli ma garantirseli direttamente tra di loro. E per le società veicolo dei progetti create si permetterebbero esenzioni agli attuali obblighi di ipoteca che non superino determinate soglie del capitale sociale. Insomma, un effetto leva enorme che ricorda quello del tanto deprecato “sistema bancario ombra”, nonché il rischio di impacchettamenti pericolosi di questi debiti alla “sub-prime”.

E’ utile ricordare che Ciaccia è stato chiamato al ministero da Corrado Passera, suo collega presso il BIIS, la Banca per le infrastrutture e lo sviluppo del gruppo Banca Intesa.
Finito un conflitto di interessi se ne fa un altro.



L’ingegneria finanziaria pensata dal governo italiano somiglia molto alle operazioni di swap sugli interessi del debito pubblico che la Goldman Sachs, allora guidata da Mario Draghi, ha consigliato alla Grecia ed altri paesi una decina di anni fa.
Oggi sappiamo com’è andata a finire.
La storia del liberismo degli ultimi decenni ci insegna che alla fine il debito torna e sono sempre gli Stati a pagare il conto, dove il privato fallisce.
Le grandi opere fanno debito, inevitabilmente, non c’è trucco finanziario che tenga, i professori lo sanno molto bene.

Per una lettura critica delle domande e risposte contenute nel documento del governo si rimanda alla lettura del documento redatto dalla Commissione tecnica della Comunità Montana Valle Susa e Val Sangone in collaborazione con docenti universitari, economisti ed esperti del territorio. (http://ascoltateli.org/images/materiali/analisidocumentogoverno28marzo2012.pdf)









mercoledì 4 aprile 2012

Argentina, economia reale

** Argentina, il Banco Centrale è patrimonio pubblico e sociale: si torna all’economia reale **

L’Argentina ha abbattuto un altro pilastro delle politiche neoliberiste sancendo la fine dell’autonomia della Banca Centrale dalla politica. Questa settimana è prevista la conferma al Senato della Repubblica del nuovo Regolamento Organico della BCRA, approvato lo scorso mercoledì alla Camera de Deputati.
La modifica dello status dell’istituzione era stato il principale annuncio politico fatto dalla presidente Cristina Kirchner nell’inaugurazione dell’anno legislativo del 2012, agli inizi del mese di marzo. L’autonomia delle banche centrali è stata uno dei capisaldi delle politiche imposte dal FMI e dagli organismi internazionali negli anni ’90, sotto il paradigma del Consenso di Washington in America Latina. Riforme in questa direzione sono state promulgate in Cile (1989), Argentina (1992), Venezuela (1992), Messico (1994), con l’argomento che la politica monetaria – ovvero la preservazione del valore della moneta – è una funzione eminentemente tecnica che deve essere staccata dalla politica economica di un paese e lasciata in mano dei tecnici.
In Argentina la norma seguiva e completava la “legge sulla convertibilità” (1991), che aveva stabilito la parità cambiaria del peso con il dollaro e l’obbligo di mantenere delle riserve in valuta statunitense equivalenti alla massa monetaria circolante, conducendo in pratica alla dollarizazzione dell’economia. Entrambe le leggi nascevano con la finalità di stabilizzare l’economia e mettere fine all’enorme inflazione che creava nere prospettive per la giovane democrazia riconquistata negli anni 80.
Non occorre soffermarci sui risultati delle politiche di aggiustamento strutturale e deflazione promosse dal FMI, che hanno avuto come sbocco la enorme crisi finanziaria del 2001 in Argentina e episodi similari nel resto dei paesi dell’America Latina. D’ora in poi, dunque, la missione primaria e fondamentale della Banca Centrale argentina non sarà soltanto “preservare il valore della moneta” ma includerà anche “lo sviluppo economico con giustizia sociale, l’occupazione e la stabilità finanziaria”. Finalità analoghe hanno le banche centrali di diversi altri paesi, a cominciare degli Stati Uniti, e abbondano anche gli esempi internazionali sull’uso di riserve per investimenti produttivi. Lo ha fatto il Brasile nel 2008-2009 per soccorrere imprese in difficoltà e per finanziare le esportazioni; la Cina per creare nel 2007 un grande fondo sovrano per gli investimenti; l’Ecuador nel 2009 per riattivare l’economia mediante la creazione di opere pubbliche e programmi d’impiego; il Giappone per aiutare la Toyota a altre sue imprese nel 2009.

Una novità importante è la capacità che avrà l’organismo, di orientare e promuovere il credito, che oggi rappresenta soltanto il 14% del PIL (il livello più basso a livello regionale) ed è concentrato nel consumo e nel commercio estero. Si cerca così di incidere su uno dei fianchi deboli dell’economia, promuovendo lo sviluppo produttivo mediante la regolazione dei tassi d’interesse e il sostegno alle imprese per accedere al credito. Si incorporano anche nuove funzioni in riferimento alla regolazione e supervisione del sistema finanziario e alla protezione degli utenti. “L’attuale Carta Organica della Banca Centrale è dissociata dal modello produttivo. La nuova norma sancisce ciò che si sta facendo negli ultimi anni”, ha spiegato la presidente della BCRA Mercedes Marcò del Pont. Due sono i punti contestati dall’opposizione ed entrambi riguardano la quantità di riserve trasferibili all’Erario e i vincoli all’utilizzo di fondi da parte del Governo. Le nuove regole sanciscono nella Carta Organica – ma al contempo modificano – disposizioni promulgate durante il governo di Nestor Kirchner . L’ex presidente aveva inaugurato l’uso di riserve da parte dello Stato allo scopo esclusivo di saldare il debito con gli organismi di credito internazionali, quando introdusse, mediante un decreto del 2005, il concetto di “riserve di libera disponibilità” che stabiliva che quando le riserve superassero il 100% della base monetaria, in condizioni di surplus della bilancia commerciale, gli eccedenti potevano essere utilizzati con questo fine. In questo modo sono stati rimborsati 10.000 milioni di dollari al FMI e cancellato il debito con questo organismo, seguendo la politica di“desindebitamento” portata avanti pure dal Brasile nello stesso periodo.
La Riforma attuale incrementa i fondi disponibili per lo Stato. Per fare ciò abolisce l’obbligo del 100% di copertura in dollari – retaggio della politica di convertibilità – e stabilisce che è competenza delle autorità monetarie fissare nuovi parametri fondati sul livello di riserve ottimale alla politica economica e al modello di sviluppo attuale. In aggiunta – ma soltanto in condizioni eccezionali per l’economia nazionale o internazionale – si duplica l’ammontare che il Banco può anticipare in forma transitoria al Governo e si prolungano i tempi per il suo reintegro (dal 10 al 20% delle entrate fiscali del precedente anno e da 12 a 18 mesi).
L’opposizione di centro-destra mette in guardia sul rischio di un innalzamento dell’ inflazione vista la discrezionalità con la quale l’Esecutivo potrebbe ricorrere all’ emissione monetaria. Il Governo – affermano – cerca soltanto di aumentare gli introiti in previsione della crisi e del termine della fase di crescita e di risultati positivi nell’interscambio commerciale, in modo di continuare ad incrementare la spesa pubblica e pagare i debito estero.
Questo ultimo punto è il bersaglio delle critiche dell’opposizione di centro-sinistra, dal momento che lo scopo principale della misura ufficiale non sembra tanto essere l’ampliamento della capacità produttiva del paese quanto piuttosto la negoziazione del debito con i paesi creditori riuniti nel forum conosciuto come “Club di Parigi”, un tema che ha subito diverse dilazioni e che la Presidente vuole concludere entro il 2012. E’ requisito indispensabile per il Governo disporre di dollari per avanzare nella politica adottata dai tempi di Kirchner riguardo al debito estero: pagare sì, ma alle proprie condizioni, in primo luogo con l’esclusione del FMI nelle negoziazioni.
Comunque sia, è indubbio che la riforma rappresenta un cambiamento di paradigma e implica un ritorno alla politica e all’economia reale. La sovranità della politica economica torna allo Stato, che recupera la guida delle variabili macroeconomiche indispensabili per orientare qualsiasi strategia di sviluppo. Perché, come ha sostenuto un analista locale [1], “separare le riserve accumulate da un popolo, grazie al suo lavoro, dal resto delle risorse nazionali e lasciarle alla volontà di un gruppo di tecnocrati senza voti è uno sproposito ed è antidemocratico”, si guardi come si guardi.

Adriana Bernardotti
(Buenos Aires, 20 MARZO) cambiailmondo.org

[1] <Mario Wainfeld, “Movidas en el Congreso”, Pagina 12 > 11 marzo 2012.
 

Ecuador, tra buen vivir e progresso

L’Ecuador sta vivendo una fase cruciale della sua nuova vita di paese cosciente dei propri mezzi sociali, culturali ed economici e consapevole di poter arrivare a garantire a tutti i cittadini democrazia e dignità di vita.

Da una parte c’è il Governo di Rafael Correa, che punta a gestire le risorse naturali del sottosuolo in nome dello sviluppo economico per tutti gli ecuadoriani, dall’altro i movimenti indigeni, che rigettano i ragionamenti economici e pensano solo basandosi sulla difesa appassionata dell’armonia fra uomo e natura. Al di là dei numeri e dei confronti tra la marcia indigena “per l’acqua, la vita e la dignità” e la contromanifestazione governativa “in difesa della democrazia”, la prova di forza a cui si è assistito nelle ultime settimane in Ecuador ripropone un tema chiave nell’attuale panorama latinoamericano.

Da un lato i governi socialisti che puntano a recuperare la sovranità sulle risorse naturali per sfruttarle e investire gli ingenti ricavi in opere infrastrutturali e servizi di base. Dall’altro, i movimenti indigeni e contadini che non ci stanno a ragionare in termini meramente economici, appellandosi al buen vivir e ai diritti della natura. Un confronto che in Ecuador è sfociato nelle manifestazioni e negli scontri, non solo verbali, dei giorni scorsi.

In nome della crescita, l’attuale presidente Rafael Correa ripropone un modello economico estrattivista con una variante fondamentale rispetto al passato. I profitti dell’estrazione di petrolio, gas e metalli preziosi non finiscono più nelle tasche di multinazionali straniere e politici corrotti ma ingrossano le casse di uno Stato che può così costruire strade, fognature, case popolari e soddisfare i bisogni primari delle fasce più povere della popolazione. In sintesi, uno stato socialista imperniato su un modello produttivo capitalista. Una formula che sta dando risultati significativi nel breve termine. La povertà è scesa di nove punti percentuali, l’occupazione è in costante crescita, il prodotto interno lordo è aumentato dell’8 per cento e la forbice tra ricchi e poveri si è ridotta.


Ma qual è nel lungo periodo il futuro di uno Stato che continua a basare la propria economia sull’estrazione e vendita di petrolio, gas e rame? Che fine fanno i beni comuni, i diritti della natura e la plurinazionalità, promossi da una Costituzione all’avanguardia? Non si tratta di questioni semantiche ma di temi che, a detta di dirigenti indigeni e intellettuali dello spessore di Alberto Acosta, ex presidente dell’Assemblea costituente, sono determinanti per la costruzione di un modello di sviluppo egualitario e sostenibile.

I nodi al pettine del governo sono in tal senso molteplici. Primo tra tutti, l’attuale assetto economico produttivo che non appare conciliabile con quel principio del buen vivir che lo stesso Correa ha voluto nel preambolo dell’attuale Costituzione. Un’eredità indigena che mira all’armonia tra uomo e natura e su cui il presidente voleva inizialmente incentrare lo Stato nuovo che si apprestava a costruire. In secondo luogo, il ruolo secondario attribuito alle comunità indigene nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo. Secondo quanto previsto dalla Costituzione ecuadoriana e dalla Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro, il governo ha l’obbligo di consultare i popoli nativi quando si appresta ad adottare misure che li riguardano direttamente. Un principio che vale soprattutto nel caso di attività di esplorazione ed estrazione di risorse presenti nel sottosuolo. In più occasioni il governo ha però mostrato un certo fastidio verso questo principio, sostenendo che un gruppo di “cittadini” non può porre il veto allo sviluppo di un intero paese. Per finire, rimangono congelate in parlamento le leggi per un’equa redistribuzione delle terre e delle risorse idriche, al fine di ridurre l’impatto sociale ed economico del latifondo e per far sì che l’acqua non sia un diritto umano soltanto per chi legge l’articolo 12 della Costituzione, ma per tutti i cittadini ecuadoriani, ad iniziare da indigeni e contadini a cui l’accesso all’acqua è spesso negato perché concentrato nelle mani di pochi latifondisti.

Nonostante il movimento indigeno ecuadoriano abbia sofferto negli ultimi anni di una grave crisi di rappresentanza, dovuta a scelte politiche errate e ad una dirigenza poco lungimirante che non ha capito l’importante momento storico avviato con la presidenza Correa, è dunque evidente che le richieste avanzate oggi dai popoli nativi e dai movimenti sociali non possono essere liquidate come semplici congetture destabilizzanti che mirano a sovvertire l’ordine democratico. Anche perché quello che chiedono gli indigeni non è un cambio di governo, ma un cambio di rotta di questo governo.

Correa farebbe bene dunque a riaprire il dialogo con i popoli nativi e a costruire uno Stato davvero plurinazionale. E dovrebbe farlo per almeno due ragioni. La prima è che questo modello estrattivista non è sostenibile nel lungo periodo perché le risorse non rinnovabili, com’è evidente, sono destinate ad esaurirsi e perchè lo stesso correismo è destinato a concludersi. La seconda, ancora più importante, è che è responsabilità di questo governo lasciare alle generazioni future un paese nuovo, con un assetto industriale indipendente dai sacchi d’oro su cui è seduto, in grado di produrre beni e servizi e soprattutto in grado di trovare un equilibrio nuovo tra economia e ambiente, un equilibrio basato appunto sul buen vivir.

Altrimenti il rischio concreto è che il nuovo Ecuador di Rafael Correa duri meno di una primavera.
E-mensile (27 marzo 2012), Tancredi Tarantino


Referendum regionale sulla caccia


Il 3 giugno prossimo (salvo pastrocchi trasversali) il Piemonte voterà per il referendum abrogativo di alcune norme regionali sulla caccia.

Si deciderà per:
• il divieto assoluto di caccia agli uccelli migratori e ad altre specie, per un totale di 25;
• il divieto di caccia alla domenica, in modo che si possa passeggiare tranquilli nei boschi;
• il divieto di caccia sui terreni ricoperti dalla neve, quando gli animali hanno già delle difficoltà;
• la restrizione di vari privilegi per le aziende faunistico-venatorie.
Per raggiungere il 50% + 1 degli elettori piemontesi, oltre un milione e mezzo di persone dovranno recarsi alle urne.

Ti chiediamo due cose:
• di votare il tuo SI al referendum
• di convincere 10 persone a votare e che queste, a loro volta, convincano altre 10 persone!
Così ce la possiamo fare!
Grazie per tutto quello che farai, per la LIPU, per gli uccelli, per la natura.

Per informazioni e per partecipare attivamente contattaci:
LIPU Sede Nazionale 0521 273043 - LIPU Torino 011 266944
www.lipu.it - www.referendumcaccia.it - info@lipu.it - lipu@arpnet.it

Fagiano - foto di C.Torchio