domenica 23 dicembre 2012

UN NATALE ‘ARMATO’ (Alex Zanotelli)

Il 10 dicembre eravamo a Roma davanti al Parlamento per protestare contro la Riforma delle Forze Armate voluta dal Ministro della Difesa, l’ammiraglio Di Paola. I rappresentanti dei movimenti per la pace erano stretti attorno a una gigantesca bandiera della pace che occupava la larghezza dell’anti-piazza davanti al Parlamento. Eravamo lì per chiedere ai Parlamentari di non votare la Riforma delle Forze Armate. Tutto inutile! Quel pomeriggio il Parlamento ha definitivamente approvato il disegno di legge delega. La Destra ha votato compatta a favore, nonostante avesse appena sfiduciato il governo. Il PD, nonostante alcune voci contrarie, ha pure votato a favore. Unico partito contrario:IDV. Un amaro regalo di Natale questo che il governo Monti ci lascia prima di dimettersi. Un regalo alla casta dei militari, alla lobby dei mercanti di morte. La riforma infatti ci costerà nei prossimi dieci anni, l’astonomica cifra di 230 miliardi di euro!
 La Legge  autorizza le Forze Armate a riorganizzarsi in proprio in dodici mesi con una delega, per ora in bianco. Inoltre questa Legge prevede un taglio di 43 mila addetti sia militari come civili nei prossimi dieci anni.
 La cosa però che sorprende è che i soldi risparmiati rimangono al Ministero della Difesa per l‘ammodernamento ‘ dell’esercito. Mentre per la Spending Rewiew  di Monti, i soldi risparmiati avrebbero dovuto rientrare nel Bilancio dello Stato. Ed invece saranno usati per comperare i nuovi sistemi d’arma.
In poche parole il Ministro della Difesa avrà un miliardo di euro in più all’anno da spendere in nuove armi! Inoltre la nuova legge prevede che gli enti locali dovranno rimborsare il Ministero della Difesa per gli interventi di soccorso e prima emergenza come terremoti e alluvioni.
Tutto questo avviene mentre la crisi economica lascia senza lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e non ci sono soldi per il welfare, per la sanità, per la scuola , per il terzo settore.
Assistiamo attoniti al tradimento del governo Monti e dei partiti.
E mentre è passata in tutta fretta la Riforma della Difesa (se ne parlava da vent’anni!), non si è fatto nulla per la Riforma della Cooperazione, che è l’altra faccia della medaglia! E questo nonostante che ci sia un ministro cattolico, A. Riccardi, alla Cooperazione Internazionale.(E’ da vent’anni che girano in Parlamento proposte di riforma della Cooperazione internazionale che è ormai ridotta ai minimi termini!). Nel 2000 l’Italia aveva promesso all’ONU che avrebbe versato lo 0,7% del suo PIL per sconfiggere la povertà. L’Italia , all’ultimo posto nella graduatoria, ha disonorato in questi dodici anni gli impegni presi arrivando allo 0,2% del PIL mentre spende il 2% del PIL in armi.
Siamo giunti così alla follia di spendere, lo scorso anno ,26 miliardi di euro (dati SIPRI) a cui bisogna aggiungere 15 miliardi di euro per gli F-35. Si tratta di 41 miliardi di euro: una vera e propria manovra! Nessun taglio alle armi, anzi la Difesa avrà un miliardo in più da spendere nell’acquisto di sofisticati strumenti di morte. Mentre  il governo Monti ha tagliato fondi alla scuola, alla sanità, al terzo settore.
Mi amareggia il silenzio della Conferenza Episcopale Italiana. Altro che ‘pace in terra agli uomini di buona volontà’ che è il cuore del messaggio natalizio.
Il nostro paese sceglie ancora una volta la via della morte invece della vita.
E’ un Natale amaro, un Natale ‘armato’.


Alex Zanotelli
Attac Italia, Domenica 23 dicembre 2012

Auguri da Rifiutizero

Ecco le parole che Silvia ci ha concesso volentieri di inoltrare a tutti...

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Buongiorno!
Scrivo questa Mail x augurare a tutti voi i miei più sinceri e calorosi auguri di BUON NATALE!
Che sia un Natale di gioia e di pace x tutti quelli che collaborano alla causa del coordinamento rifiuti zero. Oggi ho partecipato alla S.U.S.A. (Sentiero umano di solidarietà ambientale e artistica) è stato bello trovare anche una bandiera "rifiutizero". Queste iniziative servono anche a "ricaricarsi" un po' a vedere che le persone di Buona volontà sensibili al rispetto e all'amore x l'Ambiente ci sono e che
non sei solo. In questi mesi riflettendo sul problema inceneritore e inquinamento generale ho capito che per smuovere qualcosa deve esserci anche un "risveglio delle coscienze". L'attenzione verso problemi di tutela ambientale vengono accolti solo da persone con una certa "sensibilita" ambientale ma secondo me anche "MORALE"...
Molte persone accettano la scelta inceneritore perchè scelgono "la strada breve", "la strada comoda"... Si fa un fuocherello e il problema e risolto... e possiamo continuare a produrre e a consumare in maniera compulsiva... Se per il tuo egoismo non guardi le conseguenze delle tue azioni, se non rispetti l'aria che respiri, l'acqua che bevi e la Terra su cui vivi non sei neanche capace di rispettare un'animale, un bambino, un parente, un collega, un vicino di casa. Il rispetto è totale a tutti i livelli se non hai rispetto di un debole e un indifeso non hai rispetto di neppure di un'emozione o dell'aria che respiri. Se solo il "possedere" e non "l'essere" ti da gioia allora è normale che ti va tutto bene e dell'inceneritore non te ne frega niente, che facciano cosa vogliono, basta avere abbastanza soldi da spendere al supermercato!
Tutti gli abitandi di Torino, Grugliasco, Collegno, Rivoli, Orbassano, Beinasco, ecc, ecc che in questo momento non si muovono che stanno zitti stanno facendo anche stare zitta la loro coscienza!
Si auto-convincono e si rassicurano e in cuor loro dicono: ma si metteranno dei filtri, ma si sapranno cosa fanno! Ma sì, tanto se non è una cosa è l'altra che inquina, ma sì il mondo va così.E chiudono gli occhi e guardano altrove. E la colpa è sempre di qualcun altro, di "quel gualcuno" generico "di quel
politico", "di quel tale" che fa sempre qualcosa.
Secondo me GLI ALTRI SIAMO NOI!. Io sono una semplice mamma nel mio piccolo ho fatto, sto facendo e continuerò a fare tutto quello posso per impedire che l'ambiente in cui viviamo venga violentato e intossicato. Penso che violentare e torturare un essere umano o un animale oppure inquinare e intossicare l'aria e la terra siano esattamente la stessa cosa. Sono credente per cui prego Gesù Bambino che venga a smuovere le coscienze! Ad aprire gli occhi a renderci meno attaccati alle nostre paure alle nostre debolezze al nostro egoismo! E che noi possiamo essere validi strumenti, nelle sue mani, x scuotere queste coscienze!! Seminare gentilezza, tolleranza, allegria, speranza ma anche affermare con fermezza le proprie convinzioni sono il modo che abbiamo per innescare un circolo virtuoso di cose buone, di fiducia, di ottimismo e di voglia di credere. Iniziare un cambiamento significa per prima cosa cambiare noi stessi, per credere nei sogni dobbiamo credere in noi stessi. Quello che facciamo è una goccia ma come dice Madre Teresa di Calcutta "Se quella goccia non ci fosse al mare mancherebbe". Anche questa mia mail è una "goccia" che vi scrivo con tutto il cuore Buon Santo Natale a tutti voi!

Silvia Magnetti

martedì 11 dicembre 2012

Laicità, movimenti e contro movimenti

Parte un’offensiva contro la laicità, un vero e proprio “contro-movimento” che importa il modello del “tea party” Usa e attacca, alla vigilia delle elezioni, i diritti civili.
di Donatella Della Porta (sbilanciamoci.info)

Il Discorso alla Città pronunciato dal cardinale Angelo Scola nella Basilica di Sant’Ambrogio, alla vigilia della festa del santo patrono di Milano, è stato accolto nella sfera pubblica con non poco stupore per quello che molti commentatori hanno definito come inusitata durezza. Molteplici, e non mutualmente escludenti, sono state le interpretazioni della apparente svolta.

Una spiegazione locale, se non nazionale, è legata al contingente avvicinarsi delle elezioni sia regionali che politiche. In un momento di debolezza della destra partitica, il discorso di Scola sembra mirare a una polarizzazione, e quindi a un potenziale allineamento elettorale del cattolicesimo più integralista. Nella particolare situazione della Lombardia, con il presidente del governo regionale, il ciellino Roberto Formigoni, dimissionario perché coinvolto in una serie di scandali e indagato per corruzione, l’intervento del cardinale Scola – di cui viene spesso menzionato il passato ciellino – è stato anche letto come un assist a Comunione e Liberazione, in un momento di indubbia crisi spirituale e politica di quella organizzazione.

C’è comunque anche una lettura meno contingente, proposta tra l’altro da Massimo Faggioli, docente di storia del cristianesimo all’Università di St. Thomas (Usa). In un intervento sull’Huffington Post, Faggioli colloca il discorso di Scola all’interno di un più ampio progetto, interno alla chiesa cattolica, seppure lì stesso contestato, di attacco al modello laico di rapporto tra stato e chiesa che è dominante (seppure con tante eccezioni) in Europa, per proporre invece il modello statunitense. Come osserva Gian Enrico Rusconi su La Stampa, nel discorso cardinalizio, sia la prognosi che la diagnosi sono poco elaborate: la riforma sanitaria di Obama (coprendo le spese per contraccettivi e interruzione volontaria di gravidanza), citata da Scola come esempio di attacco alle libertà dei credenti, non costringe certo i religiosi a usare contraccettivi o ad abortire, e l’idea che lo stato debba rispettare la “precedenza” della società civile, “limitandosi a governarla e non pretendendo di gestirla” è espressa confusamente.
Più elaborata è invece la proposta ideologica di un nuovo “conflitto di civiltà”, che non passerebbe questa volta – come nella versione di Samuel Huntington – tra Islam e occidente, ma tra religiosi e laici. Come nella versione originale del conflitto di civiltà, lo scontro è presentato come epocale, i confini netti, il nemico assoluto. Non a caso, non nel discorso di Scola ma nei siti del cristianesimo integralista, un termine come “cristofobo” è utilizzato per stigmatizzare i comportamenti e i valori non solo degli avversari politici – i laici – ma anche spesso degli “avversari interni”, i credenti non schierati sul conflitto di civiltà. La neutralità dello stato rispetto alle confessioni religiose viene infatti, nel discorso di Scola come in varie teorizzazioni (definite come neo-liberali o neo-conservatrici) provenienti appunto dagli Stati Uniti, considerata come attacco alla libertà religiosa. Nel discorso del cardinale, la laicité “si basa sull’idea dell’in-differenza, definita come ‘neutralità’, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso”. Ma tale neutralità si sarebbe “rivelata assai problematica, soprattutto perché essa non è applicabile”. La conclusione è l’esistenza di un conflitto non tra religioni ma tra religiosi e non. Nelle parole del cardinale, che riprendono le teorizzazioni “americanizzanti” di cui parla Faggioli, “oggi nelle società civili occidentali, soprattutto europee, le divisioni più profonde sono quelle tra cultura secolarista e fenomeno religioso, e non - come spesso invece erroneamente si pensa – tra credenti di diverse fedi. Secondo questa argomentazione, la aconfessionalità dello Stato dissimula “sotto l’idea di ‘neutralità’, il sostegno dello Stato a una visione del mondo che poggia sull’idea secolare e senza Dio”, e così la cultura secolare “attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti delle altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili tendendo ad emarginarle, se non espellendole dall’ambito pubblico”.

Sulla ipocrisia nel riferimento (non autocritico) alla libertà di religione, conquista dello stato laico, da parte di un esponente di una chiesa che tale libertà ha riconosciuto ai credenti di altre fedi (incluso cristiano protestanti) solo nel 1965 ha commentato, su La Repubblica, Vito Mancuso. La sociologia dei movimenti sociali ci offre qualche pista interpretativa, non alternativa ma complementare a quelle finora esposte, sulle potenziali condizioni e conseguenze del riemergere di una visione di cattolicesimo polarizzante ed escludente. Dal punto di vista empirico, la ricerca sui movimenti sociali in Europa smentisce innanzitutto l’esistenza di un conflitto tra laici e credenti. In molte campagne di protesta – da quelle sulla pace a quelle sui diritti umani, ma anche sulla giustizia sociale, dal processo dei forum sociali a inizio del millennio alle mobilitazioni anti-austerity contemporanee – gruppi di ispirazione religiosa e gruppi laici hanno collaborato, costruendo visioni comuni sui diritti sociali, ma anche su quelli civili e sul rapporto tra politica istituzionale e politica “dal basso”. Se queste collaborazioni sono state frequenti anche in passato, l’attenzione del movimenti più recenti alla costruzione di arene inclusive e plurali, alla democrazia deliberativa e al metodo del consenso ha portato a una comprensione reciproca crescente e a una elaborazione comune tra laici e credenti. Questo dialogo, per esempio nel movimento per la pace, ha contribuito alla riflessione sul rapporto tra etica e politica e sul valore della prefigurazione delle scelte politiche nei comportamenti quotidiani.

Naturalmente, i credenti attivi nei movimenti sociali appena menzionati rappresentano solo una componente – seppure numericamente rilevante e politicamente influente – dei credenti politicamente impegnati. Accanto ad essi, altre componenti – variamente definite come integraliste o conservatrici – hanno utilizzato l’appartenenza religiosa in funzione escludente. La categoria di “contro movimento”, utilizzata nello studio dei movimenti sociali, può essere utile a comprendere tempi e contenuti di questa nuova crociata. Come avviene, ad esempio, su tematiche sociali (la frattura di classe, come la definiva il sociologo Stein Rokkan), anche sulle tematiche relative al rapporto tra istituzioni pubbliche e istituzioni religiose (la frattura Stato-Chiesa, nel linguaggio di Rokkan), la mobilitazione per alcuni diritti è spesso seguita da contro mobilitazioni, orientate a opporsi ai cambiamenti emergenti. In tempi recenti, campagne di protesta hanno avuto successo nell’ottenere (spesso anche in termini di politiche pubbliche) un allargamento dei diritti civili (tipico esempio, la legalizzazione in diversi paesi dell’Unione Europea del matrimonio tra persone dello stesso sesso). Nella “post-democrazia” neoliberista di cui parla Colin Crouch, i movimenti anti-austerity chiedono anche (con crescente risonanza nella opinione pubblica) una difesa di diritti sociali e beni comuni, e con questo un rafforzamento di quelle istituzioni pubbliche che in passato questi diritti erano chiamate a difendere e realizzare. Il discorso di Scola – e del “contro movimento” in cui può essere collocato – rappresenta una reazione ad entrambi i processi: l’attacco alla estensione di quei diritti civili, presentati (incongruamente) come riduzione delle libertà dei credenti, e l’appello alla sussidiarietà della società civile, come disconoscimento delle responsabilità delle istituzioni pubbliche nella difesa e implementazione di quei diritti.

La ricerca sui movimenti sociali ha permesso anche di osservare che nel discorso dei contro-movimenti la retorica è spesso escludente, mirando a conquistare sostegno attraverso una polarizzazione. Come osserva Massimo Faggioli, l’alternativa americana alla laicité europea è sempre più in crisi, provocando un massiccio esodo dalla chiesa cattolica degli (ex) fedeli critici. Al contempo però, come si è visto nelle vicende del Tea Party, essa produce mobilitazioni escludenti. Il tentativo di importare quel modello (apparentemente perdente) in Europa, sembra corrispondere alla dinamica spesso settaria dei contro-movimenti: orientata a reagire ad una percepita crisi con la attivazione di confini rigidi, attraverso un discorso battagliero-di guerra di civiltà, appunto.

Ultima nota: per i movimenti sociali i contro-movimenti rappresentano spesso sfide e opportunità. Da un lato, le mobilitazioni avverse rischiano di rimettere in discussione conquiste acquisite e rendere più difficile un’espansione dei diritti. La ricercata polarizzazione rischia di produrre anche nei movimenti retoriche altrettanto escludenti di quelle presenti nei discorsi dei contro-movimenti. Movimenti e contro-movimenti possono così avvitarsi in spirali di radicalizzazione. Dall’altra parte però, la dinamica tra movimenti e contro movimenti può anche portare a una maggiore consapevolezza della posta in gioco, focalizzando l’attenzione su tematiche che acquistano, nella sfera pubblica, rilevanza – come appunto la elaborazione sulla laicità, nelle versioni di essa esistenti, ma anche nelle sue potenziali evoluzioni.

domenica 9 dicembre 2012

Chávez investe Nicolás Maduro come suo successore

Nel giorno di uno dei più grandi trionfi della Rivoluzione bolivariana, il pieno ingresso nel Mercosur del Venezuela, dopo anni di lotta, il presidente Hugo Chávez annuncia la gravità della sua situazione di salute, la riapparizione del tumore maligno, la necessità di operarsi e la possibilità che non riesca ad insediarsi alla presidenza il prossimo 7 gennaio chiamando all’Unità e designando il Vicepresidente della Repubblica Nicolás Maduro (nella foto) come suo successore.
Con un discorso di mezz’ora in diretta televisiva alle 21.30 di ieri ora venezuelana, il presidente ha informato la nazione sulla gravità della sua situazione di salute. Apparendo comunque in buono stato, ha comunicato di aver chiesto autorizzazione al parlamento per ritornare immediatamente a Cuba, 24 ore dopo il suo ritorno in patria dopo nove giorni di trattamento. Sarà operato all’Avana probabilmente già stasera, dopo il voto parlamentare previsto per stamane che lo autorizzerà a uscire dal paese. Hugo Chávez non si è limitato a tranquillizzare il popolo che lo ha rieletto appena il 7 ottobre scorso, ma ha chiaramente esposto uno scenario drammatico che potrebbe non permettergli di entrare in carica  il 7 gennaio.
«Se si presentassero le condizioni inabilitanti –ha affermato il presidente- o soprattutto per entrare in carica nel nuovo periodo, Nicolás Maduro non è solo la persona che deve concludere il periodo ma è la persona che in mia opinione, chiara come la luna piena, se dovessero sussistere le condizioni per la convocazione di nuove elezioni, deve essere il candidato e chiedo al popolo che elegga Nicolás Maduro come presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela».
Lo scenario, anche costituzionale, che si apre è complesso. Tra appena una settimana in Venezuela si vota per le amministrative in tutto il paese, ma evidentemente la situazione di salute del presidente non ha permesso di attenderne l’esito. Hugo Chávez è allo stesso tempo presidente in carica e presidente eletto. L’investitura di ieri ha quindi due funzioni: chiamare i dirigenti del processo bolivariano all’obbligo di unità intorno alla figura di Maduro ma anche continuare a tracciare un cammino di libertà costituzionali nel quale le elezioni sono un passaggio ineludibile. Secondo la Costituzione bolivariana Chávez ha adesso un periodo di 90 più 90 giorni prima che il Parlamento debba costatarne «l’impossibilità assoluta» a tornare al governo e il presidente di questo, Diosdado Cabello, sia obbligato a chiamare a nuove elezioni nelle quali il candidato del campo popolare sarà Nicolás Maduro.
Nicolás Maduro, 50 anni, è uno dei dirigenti bolivariani più vicini da sempre a Hugo Chávez. Autista di autobus a Caracas e sindacalista si avvicinò a questo nel momento più difficile quando sua moglie avvocato ne assunse la difesa dopo il 4 febbraio 1989. Parlamentare dal 2000 è stato soprattutto, per sei anni e mezzo, il ministro degli esteri della Rivoluzione bolivariana, l’uomo che con Chávez ha tessuto la tela dell’integrazione latinoamericana di questi anni che proprio ieri ha portato al vertice di Brasilia, il primo nel quale il Venezuela (dopo anni di boicottaggio in particolare delle destre brasiliane e paraguayane) ha partecipato come pieno membro e nel quale è stata registrata la richiesta di adesione della Bolivia.
«Oggi abbiamo una patria –ha concluso Chávez commosso- e, succeda quello che succeda, i nostri sforzi di tutti questi anni faranno sì che continueremo ad averla. Non mancheranno quelli che cercheranno di restaurare il neoliberismo capitalista. La risposta dei patrioti dev’essere l’Unità».

Ecco cosa c’è dietro la crisi di governo

Il Cavaliere ieri puntava a non far approvare dal governo il decreto ''Liste pulite''. Ora rischia di non potersi candidare

Scritto da - 7 dicembre 2012
berlusconi torna Ecco cosa cè dietro la crisi di governoLa crisi, i dati economici non esaltanti, le poche riforme fatte, l’election day? Macché. Silvio Berlusconi punta a far cadere il governo Monti per fermare il decreto sull’incandidabilità di politici condannati. Ma Monti, nonostante lo spauracchio della crisi di governo, non ha ceduto al ricatto. Il testo approvato dall’esecutivo prevede che siano incandidabili come deputato, senatore e parlamentare europeo tutti coloro che siano stati condannati in maniera definitiva con pene superiori ai due anni per i reati di associazione mafiosa, terrorismo e corruzione. Inoltre, saranno esclusi dalle liste – o decadrebbero se eletti prima della condanna – quelli condannati per reati non colposi con pena superiore ai quattro anni.
Quel “maledetto” decreto. Se il decreto finisse in Parlamento e il governo ponesse il voto di fiducia, sarebbe difficile per il Pdl votare contro, se non a costo di essere etichettato come il partito dei corrotti. Per questo Berlusconi ha tutto l’interesse a ricattare il governo se non addirittura a sfiduciarlo prima dell’approvazione della legge di stabilità.
Berlusconi incandidabile. Infatti, Berlusconi, in base al testo uscito ieri dal Consiglio dei Ministri, decadrebbe o non si potrebbe candidare nel caso in cui fosse condannato nel processo sui diritti tv, che lo vede come imputato.
Niente fiducia, per ora. E poco importa se lo spread torna a volare. Il governo deve tirare il freno a mano, o sarà crisi. E ieri in Parlamento si respirava aria di “quasi-crisi”; l’orlo del baratro. E già le parole dure di Alfano sulla scelta dell’election day avevano fatto presagire nulla di buono ma nessuno avrebbe pensato che Berlusconi si sarebbe spinto fino a tanto. Così ha dato ordine ai suoi di astenersi (“per senso di responsabilità”) sia alla Camera che al Senato sul decreto “Sviluppo” e sulla riduzione dei costi della politica, provvedimenti approvati ma sui quali era stata posta la fiducia. Di fatto, con questa astensione, il Pdl non appoggia più il governo.
La dura legge della campagna elettorale. Cosa potrà succedere nei prossimi giorni è un enorme punto interrogativo. Da una parte Berlusconi potrebbe spingersi fino alle estreme conseguenze e giocare il ruolo del “liberatore” da un “governo opprimente e incapace”. Dall’altra, però, questa decisione potrebbe trasformarsi in un boomerang impazzito. E non tutti nel Pdl potrebbero seguirlo in questa “folle” (forse l’ultima) impresa.

giovedì 6 dicembre 2012

La storia della Finanziaria Sviluppo Utilities srl (FSU)



FSU è la società individuata dai Comuni di Genova e Torino quale veicolo finanziario per gestire la partecipazione da essi detenuta in Iride prima e Iren poi, la società multiservizi del Nord Ovest.
La sua vicenda è emblematica per capire qual è la reale portata delle operazioni di trasformazione delle vecchie aziende municipalizzate di gestione dei servizi pubblici in società per azioni quotate in borsa, non più regolate dal diritto pubblico.
Emblematica ed importante per evidenziare che la ricetta neoliberista per risanare i bilanci pubblici attraverso la vendita (svendita) del patrimonio pubblico produce per i cittadini piatti avvelenati.

A Torino la vicenda prende avvio nel 1997 con la trasformazione dell’Azienda Energetica Municipale, AEM, da azienda municipalizzata in società per azioni. Ciò anche sulla base degli incentivi legislativi che lasciavano presupporre dall’operazione vantaggi fiscali, rivelatisi poi infondati.
Nel 2000 AEM Spa viene quotata in Borsa. Pur mantenendo il Comune una netta maggioranza del capitale (69% ca.), il fatto che ad esso si affianchi un azionariato diffuso, tra cui banche, fondi di investimento e fondi pensione,  fa si che il Comune, snaturando gradualmente il suo ruolo di gestore di un servizio pubblico, divenga “azionista”, cioè portatore di interessi in contrapposizione con quello pubblico.

Con la nascita di Iride Spa, multiservizi del Nord Ovest risultante dalla fusione di AEM con AMGA, società genovese con identica storia, si rafforzano le caratteristiche di azionista del Comune. Iride infatti intende “competere” a tutto tondo sul mercato energetico nazionale.
Quindi, si determina l’abbandono di quel legame con il territorio di appartenenza che era caratteristica fondamentale delle due società originarie.

FSU nasce proprio in questo contesto e con l’unico scopo di gestire la partecipazione Iride incassandone i dividendi e distribuendoli ai due Comuni azionisti.
Vale la pena sottolineare che sin dalla sua costituzione, il contenitore FSU già si indebitava, con il Gruppo Intesa San Paolo, per circa €230 milioni per acquistare, dal Comune di Torino, parte delle azioni di AEM.

Come ha utilizzato queste somme l’amministrazione comunale torinese?

Con FSU si crea, di fatto, un cuscinetto tra la società operativa e i Comuni.
Essendo FSU l’azionista di riferimento di Iride contribuisce a cancellare la responsabilità politica di gestione del patrimonio pubblico, trasformandola in responsabilità “tecnica” degli amministratori di Iride e, appunto, di FSU.

Con l’accordo del 2010 tra Iride e Enia, analoga società i cui principali azionisti sono i comuni di Reggio Emilia, Parma, Piacenza, l’operazione multiservizi del Nord Ovest viene rafforzata. Nasce infatti Iren, uno dei principali operatori italiani nei settori dell’energia elettrica, del gas, del teleriscaldamento, dei servizi idrici, energetici e ambientali.

Le accresciute dimensioni rendono ancora più evidenti le criticità sopra esposte, in termini di svuotamento del ruolo dei Comuni nella gestione di quello che ormai ha sempre meno le caratteristiche del servizio e sempre più quelle di attività dalla quale estrarre un valore finanziario.
A questo riguardo è illuminante la gestione che gli amministratori di FSU hanno fatto della partecipazione Iride/Iren. Nonostante la progressiva perdita di valore di quest’ultima rispetto al costo sostenuto, fino al 2010 gli amministratori di FSU mantengono il valore di carico, 831 milioni, basandosi sulla quotazione di Borsa del titolo.
Nel bilancio 2011, a seguito di una perizia richiesta a Deloitte che stima il valore dell’azione Iren compreso tra €1,28 e €1,36, viene effettuata la svalutazione assumendo il valore di €1,35, per un totale di € 257 milioni, determinando quindi una perdita di esercizio di 259 milioni. Ma, la quotazione del titolo Iren ha continuato a scendere: a dicembre 2011 non raggiungeva gli €0,8 e a giugno 2012, data di approvazione del bilancio 2011, era prossima agli €0,5, quotazione che sostanzialmente mantiene a fine ottobre.

Nonostante la ben nota e prolungata fase di crisi dei mercati finanziari, in questi anni gli amministratori FSU non hanno ritenuto di procedere alla creazione di accantonamenti a fronte del concreto rischio di svalutazione della partecipazione.

Gli utili di FSU derivano dai dividendi assegnati da Iren.
E’ fondamentale evidenziare che questi dividendi sono stati erogati assorbendo totalmente gli utili prodotti da Iren stessa, anzi, intaccando spesso le riserve.
La politica di bilancio di FSU ha consentito di garantire un costante flusso di dividendi ai comuni azionisti, che non si sarebbero potuti erogare se fossero stati disposti prudenziali e progressivi accantonamenti in conto economico.

Questa strategia ha dei risvolti particolarmente gravi:
- gli amministratori di FSU, pur operando negli ambiti previsti dalla legge, hanno dato prova di una pessima gestione societaria, mantenendo inalterato il valore della partecipazione in Iride/Iren nonostante la progressiva perdita di valore e senza provvedere agli opportuni accantonamenti;
- la società operativa Iride/Iren è stata utilizzata come un bancomat dal quale estrarre liquidità, anche a costo di intaccare le riserve patrimoniali, gettando le basi per la crisi finanziaria nella quale attualmente versa;
- i Consigli Comunali, che rappresentano gli effettivi proprietari della partecipazione, sono di fatto rimasti all’oscuro di quanto stava avvenendo, determinando quindi la sostanziale perdita di controllo democratico sulla gestione di attività fondamentali al servizio del territorio.

Ancora, FSU pur non svolgendo alcuna attività di produzione di beni o servizi, è un “contenitore” che ha dei costi non indifferenti, rappresentati prevalentemente da compensi agli amministratori, al collegio sindacale, alla società di revisione mentre la fornitura di servizi aziendali (contabilità, amministrazione etc.) è resa, guarda caso, da Iren.. Complessivamente, i costi ammontano a ben €4.6 milioni. A questi vanno aggiunti gli oneri relativi al finanziamento contratto con Intesa S. Paolo, che nello stesso periodo sono stati pari a circa €35 milioni ai quali vanno aggiunti altri 9 milioni su contratto derivato a copertura rischio di tasso stipulato con Goldman Sachs.

In sostanza, sono stati generati costi improduttivi salvo che per le banche con le quali FSU si è indebitata e salvo che per i componenti dei suoi organi societari, che percepiscono significativi compensi. Va notato, inoltre, che i nominativi di questi ultimi, in alcuni casi ricorrono nei consigli di amministrazione di altre società o fondazioni bancarie.


Attac Torino e Genova -  CARP Coord. Ambientalista Rifiuti Piemonte - Comitato Acqua Pubblica Torino e Genova –  Comitato Gestione Corretta Rifiuti Genova - Comitato NO Debito Torino–  Pro Natura Torino – Re.Common –  Rifiuti Zero Torino – Smonta il Debito Genova

mercoledì 5 dicembre 2012

Disarmare l'economia, costruire la pace

La crisi economica e la spesa militare
Questa visione è confermata dalle riduzioni di budget per alcuni ministeri tra cui: Sviluppo economico, con una riduzione di più del 30% delle risorse (da 13,9 miliardi nel 2013 a 10 miliardi nel 2015); Istruzione che nel 2015 perde circa 700 milioni di euro, o il ministero della Salute (100 milioni di euro in meno nel 2015). Invece, il ministero della Difesa aumenta le risorse a disposizione, e come affermato nella nota integrativa del bilancio, con questo provvedimento il governo compirebbe i primi passi verso le parole chiave del futuro della difesa ovvero ammodernamento, riduzione degli organici e maggiori investimenti, ma in realtà nella freddezza dei prospetti contabili si nota il mantenimento delle scelte di spesa tradizionali.
Sbilanciamoci!I tagli della Spending Review non risultano dalla Legge di Bilancio quanto dal Decreto di Stabilità in discussione in cui debbono essere specificati. La Legge del Bilancio di previsione, nel complesso delle spese di competenza per ogni singolo ministero, mostra come nel triennio 2013-2015 la tendenza sia quella di mantenere il rigore generale per contenere la spesa pubblica.
In tre anni, il ministero della Difesa aumenta del 5,3% le proprie risorse, pari a più di un miliardo di euro. L’aumento è superiore ai tagli previsti dalla Spending Review per il ministero: 236,1 milioni nel 2013, 176,4 milioni nel 2014 e 269,5 milioni di euro nel 2015.
 Con l’avvio dell’iter parlamentare del Bilancio di Previsione dello Stato per l’anno finanziario 2013 e del bilancio pluriennale per il triennio 2013-2015, il governo Monti mostra la sua visione del ruolo dello stato e della spesa dei ministeri per i prossimi tre anni. In un contesto di riduzione della spesa pubblica e dei servizi ai cittadini, sanciti da tagli sia ai ministeri, sia agli enti locali, sia da provvedimenti come la Spendine Review e manovre di stabilità che si sono concretizzate in tagli lineari nello stile del ministro Tremonti, risalta il ministero della Difesa che riesce a mettere a bilancio un aumento del proprio budget nel prossimo triennio. Il bilancio del ministero passa infatti dai 19.962 milioni dell’esercizio 2012 a 20.935 di euro nel 2013, fino a 21.024 milioni di euro nel 2015.
Nei mesi scorsi il ministro della Difesa e ammiraglio della Marina, Giampaolo Di Paola, ha rivendicato le scelte del governo italiano di investimento nella difesa come una particolare forma di “keynesismo militare”. Spendere nei prossimi anni 14 miliardi di euro per 90 cacciabombardieri F35 e oltre 200 miliardi per la nuova riforma delle Forze armate, così come disegnata dal disegno di legge governativo presentato nella scorsa primavera, farebbe ripartire l’economia, darebbe nuove opportunità alle imprese, creerebbe nuovi posti di lavoro.
Di Paola non è un “liberal”, né – probabilmente – un attento lettore di Stiglitz e Krugman, né tanto meno di Keynes, che nei libri delle accademie militari è difficile trovare citato. È semplicemente il difensore degli interessi spiccioli di una corporazione – forse si può definire “casta” – quella dei militari. Una corporazione che in questi anni, nonostante la crisi, è stata a malapena sfiorata dai tagli alla spesa pubblica.
Non siamo in guerra (almeno che qualcuno non la auspichi sperando così di ritirare su le sorti dell’economia) e quindi non c’è da chiamare in causa il “keynesismo militare”: quello che è successo 70 anni fa è fortunatamente irripetibile e molte ricerche recenti dimostrano che mediamente l’investimento nel militare ha un impatto inferiore rispetto all’investimento del settore civile. L’Università del Massachussetts ha stimato che con un miliardo di dollari di investimenti si creano nel settore della difesa 11mila posti di lavoro, ma ben 17mila nel settore delle energie rinnovabili e 29mila nel settore dell’istruzione.
Di Paola e altri generali hanno detto che la produzione degli F35 porterà circa 10mila posti di lavoro nuovi: una colossale balla, visto che a regime non saranno più di 7-800. I benefici ce l’hanno invece gli affaristi e i faccendieri di Finmeccanica e delle lobby a questa collegate. Monti ha scelto di non applicare il rigore ai militari, ma solo ai lavoratori, ai pensionati, agli insegnanti, ai precari. Anche nelle politiche di rigore non c’è stata equità. Si è evitato di toccare gli interessi di una corporazione così forte e la Spending Review ha solo ritoccato una spesa tanto alta che, nel frattempo, si è “rimodulata” (per usare l’espressione di Di Paola) verso gli investimenti nei sistemi
d’arma. In sostanza, i soldi risparmiati dalle mancate riassunzioni del personale in uscita sono stati destinati ai carri armati e ai caccia bombardieri.
Si spende troppo per le Forze armate in Italia: troppi sprechi, troppe spese inutili, troppi soldi per le armi, troppi privilegi per una casta che in questi anni ha saputo ben difendere i propri interessi corporativi e rinviare quella necessaria riforma della Difesa che manca da troppo tempo. Doveva essere la crisi economica a scoperchiare la pentola.
Il ministro della Difesa Di Paola ha ammesso in qualche modo la necessità di una riduzione di alcuni costi della difesa (in particolare del personale: si è parlato di una riduzione programmata di 30mila unità in 10 anni) in modo tale da avere più soldi da investire nell’efficienza (cioè armi) delle Forze armate. In realtà, bisognerebbe ridurre almeno il doppio di quanto previsto da Di Paola. Le nostre Forze armate potrebbero benissimo fare a meno di 60mila ufficiali e soldati, senza venir meno agli obblighi costituzionali (la “difesa della patria”) e agli impegni internazionali nelle missioni “di pace” (tra cui quella “di guerra” dell’Afghanistan). Mai come in questo momento bisognerebbe “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Purtroppo il nostro governo sta facendo l’opposto. E pochi si rendono conto, e quasi nessuno ne parla, che mentre vengono salvaguardati gli interessi e i privilegi della casta militare, i fondi per il Servizio Civile sono passati in pochi anni da 300 a 71 milioni: decine di migliaia di ragazzi non potranno svolgere un servizio che, utile alla comunità, ci fa risparmiare un sacco di soldi per tutti quei servizi sociali che vengono erogati grazie alla loro presenza.
Dalla crisi si esce con un nuovo modello di sviluppo di cui fa integralmente parte la riconversione civile dell’economia militare.
Disarmare l’economia, renderla ecologicamente sostenibile e redistribuirne in modo più equo la ricchezza sono tre elementi di un paradigma e di un modello di sviluppo radicalmente diversi da quelli del passato. Quante volte, durante le riunioni dei Forum sociali mondiali ed europei, si è affermato che neoliberismo e guerra sono due facce della stessa medaglia. Ecco perché disarmare l’economia è un modo per contribuire a rendere più equo e sostenibile il nostro modello di sviluppo.
Il cosa produrre e il cosa consumare per un nuovo modello di sviluppo impone di archiviare definitivamente un’idea di modello militare-industriale che è nello stesso tempo fonte di sofferenze umane, spreco di risorse e produttore di quelle “esternalità negative” (distruzioni, devastazioni, inquinamento) che comportano poi dei costi di soccorso e di ricostruzione immani. Serve a tal fine un grande disegno di riconversione industriale (fatto di risorse, ma soprattutto di volontà politica e di programmazione degli interventi) dalle produzioni militari a quelle civili che creano più posti di lavoro, soddisfano bisogni essenziali per le popolazioni, non determinano costi diretti o indiretti per la comunità.
In questo contesto disarmare l’economia e riconvertirla a fini ecologici e sociali non è semplicemente lavoro di pacifisti e antimilitaristi, ma obiettivo più generale di chi lavora per il cambiamento, per un modello di sviluppo diverso, per stili di vita nuovi, per la cooperazione e la solidarietà. Cambiare produzioni e consumi dentro la cornice di un nuovo modello di sviluppo e di riconversione industriale significa ad esempio chiedere alle industrie di cacciabombardieri di produrre aerei per spegnere gli incendi; o a quelle che fanno radar e sistemi di puntamento di produrre i macchinari per fare le Tac; o a quelle che fanno camion militari di fare pullman per il trasporto pubblico; o a quelle che producono sistemi di precisione o apparecchiature elettroniche per i sistemi d’arma di fare i pannelli fotovoltaici; o a quelle che fanno gli elicotteri da combattimento di farne invece di quelli (senza mitragliatrici) che servono per l’elisoccorso. Gli esempi si sprecano.
Certo, per fare tutto questo  servono risorse, direttrici di politica industriale, investimenti e incentivi: ma questi non mancherebbero se le scelte di politica economica e di destinazione della spesa pubblica fossero diverse. In sostanza bisogna spostare risorse, interventi, sostegno dal militare al civile. Si tratta, di fronte a questa crisi, di scelte non più rinviabili.

Le spese militari nel Bilancio 2013

Spese militariIl modello da seguire per il governo è esplicitato nella nota aggiuntiva 2012 del ministero della Difesa, in cui il ministro indica la criticità del peso eccessivo delle spese di personale sul totale del budget, mentre il modello da seguire dovrebbe consistere in una ripartizione delle spese con 50% personale, 25% operatività e 25% investimenti. La lettura delle tabelle della Legge di Bilancio dell’annesso del ministero della Difesa non va in questa direzione, anzi mostra la stabilità dell’attuale ripartizione dei costi, concentrata per oltre il 70% sul personale fino al 2015.
Per quanto riguarda gli investimenti, anch’essi in crescita, in un quadro in cui tutti i ministeri sono stati costretti a ridurre la spesa per investimenti, rimangono le perplessità avanzate da molti sull’opportunità di alcune scelte strategiche, come gli F35, che sempre più costose “ingessano” il bilancio per diversi anni. Proprio il caso degli F35 è emblematico della visione “conservatrice” del ministero che difende scelte fatte in passato anche nella prospettiva di migliorare l’efficienza delle risorse a disposizione.
La spesa militare destinata ai lavoratori del ministero, civili e militari, oltre al complesso militare nazionale, che ricade quasi per intero nel perimetro di un singolo gruppo imprenditoriale, è l’asse su cui il governo punta per aumentare la domanda interna, evitando lo stesso rigore riservato agli enti locali e a servizi pubblici strategici come scuola e sanità. Il modello di difesa, aldilà dei limiti della Legge di Bilancio, prevede da oggi al 2024 la riduzione degli organici dell’esercito di 40mila unità (da 190mila a 150mila soldati, anche se oggi il numero complessivo dell’esercito non supera le 183mila unità) e la riduzione del personale civile a 20mila unità, dalle quasi 30mila in servizio oggi. La visione del ministero consiste nel risparmiare risorse di personale per raggiungere un modello di spesa meno orientato alla manodopera e più agli investimenti.
Il raggiungimento degli obiettivi di riduzione degli organici prevede una serie di salvaguardie per il personale in esubero, che in molti casi transiterebbe nelle altre amministrazioni dello stato con problemi di competenze e con un aumento della spesa pubblica. Inoltre, nella Legge di Bilancio ritorna il tema della presenza militare italiana all’estero, voce peraltro fuori dai capitoli di spesa del ministero della Difesa. Il governo Monti nei primi mesi di mandato ha subito rivisto al ribasso il costo dell’impegno militare italiano all’estero portando l’onere a circa 750 milioni di euro annui.
Il ritiro dall’Iraq, assieme alla cancellazione di alcune missioni minori, ha ridotto l’impegno italiano a circa 6600 unità (oltre 2ooo in meno rispetto al 2007). Per il futuro lo stesso governo Monti impegna per il 2013 oltre un miliardo di euro per le missioni militari all’estero, lanciando un segnale preoccupante per quanto riguarda sia gli oneri, sia le scelte di politica estera e di ricorso allo strumento militare già per il 2013. Come per il budget del ministero, si nota anche per le missioni una forza immanente del mantenimento della spesa, che seppure abbia conosciuto qualche battuta d’arresto nei momenti più critici della gestione del governo, ha già ripreso quota in prospettiva, con modelli di costi tradizionali e non certo nella visione dell’ammodernamento e della riduzione degli organici. Il miliardo in più di spesa pubblica destinato alle spese militari se dirottato su altri obiettivi come istruzione, ricerca e sviluppo economico mostrerebbe un maggiore impatto nel contrastare il declino economico del paese.
Proprio il mantenimento del programma F35, decantato per le ricadute sul territorio, mostra come, a fronte di investimenti miliardari, lo sviluppo locale ottenga solo benefici marginali, mentre l’investimento delle stesse risorse in settori civili, come gli asili nido, non solo genererebbe una maggiore quantità di occupazione diretta ma migliorerebbe la qualità del mercato del lavoro grazie ai benefici che si concentrerebbero nel meridione e per le categorie più colpite dalla crisi: le giovani donne.

Il Servizio Civile

Quando nel novembre 2011 fu costituito il governo Monti, una delle sorprese più intriganti e portatrici di aspettative fu la costituzione del ministero Cooperazione Internazionale e Integrazione, affidato ad Andrea Riccardi.
Sembrava giunto il momento di collocare il Servizio Civile Nazionale nel suo alveo storico della promozione della pace in modo nonviolento, collegato in modo forte sul piano politico e progettuale alla cooperazione internazionale e sul versante interno ai temi dell’integrazione, della cittadinanza. In tal modo, la valenza educativa e formativa rivolta ai giovani sarebbe stata valorizzata a vantaggio di tutto il Paese.
Un anno dopo, le ombre dominano sulle luci. Dopo una fugace apparizione pubblica a marzo 2012, in materia di Servizio Civile Nazionale è calato il silenzio nell’agenda politica di Riccardi. La politica è ritornata alla ribalta alla fine di luglio quando con l’art. 10 della legge del 7 agosto 2012, n.135 sono stati soppressi molti organi collegiali compresi nell’articolo 68, comma 2, del decreto legge del 25 giugno 2008, n.112, convertito, con modificazioni, dalla legge del 6 agosto 2008, n.133. In quell’elenco è compresa anche la Consulta Nazionale del Servizio Civile, organo previsto fin dalla legge dell’8 luglio 1998, n.230 “Nuove norme in materia di obiezione di coscienza al servizio militare” e confermato dalla legislazione in materia di Servizio Civile Nazionale.
Nella Consulta Nazionale, composta da 15 membri, sono presenti tutti gli attori che permettono all’Amministrazione statale di operare: le Regioni e Province Autonome, le Amministrazioni centrali dello Stato (nel caso specifico il Dipartimento di Protezione Civile), i cosiddetti enti accreditati, dall’Anci alla Cnesc, alle principali organizzazioni del terzo settore, quattro rappresentanti dei giovani in Servizio Civile Nazionale. I costi di questo organismo sono stati nel 2010 pari a 861,20 euro (3 sedute) e nel 2011 a 2.458,01 euro (3 sedute).
A tutt’oggi, nonostante le rassicurazioni fornite, è decaduta la Consulta e il sistema del Scn è privo di un organo che permetta la partecipazione dei vari soggetti alla programmazione e regolazione del Scn.
Tutta la vicenda si iscrive nel nodo più ampio di disconoscimento del governo Monti dell’ interlocuzione con la società civile organizzata democraticamente e, vera beffa, con i giovani che stavano realizzando dal 2008 un interessante percorso di partecipazione ed esercizio di rappresentanza. Sul piano economico, dopo la batosta dei tagli effettuati a ottobre 2011 con la Legge di Stabilità 2012-2014 Berlusconi- Tremonti (riduzione di 44.183,00 milioni di euro sui 112.985,00 previsti per il 2012) che produssero il blocco del Servizio Civile Nazionale e lo slittamento di molti mesi nell’avvio dei progetti di Scn, con danni ai cittadini, il ministro Riccardi è riuscito nel 2012 a reperire 50.000,00 milioni di euro straordinari. I fondi provengono per 20.000,00 milioni dai tagli alla programmazione dell’ex Dipartimento Gioventù, e per 30.000,00 milioni di euro dalla legge del 7 agosto 2012, n.131. A queste risorse si aggiungono 3.000,00 milioni, tratte sempre dall’ex Dipartimento Gioventù, per finanziare due bandi straordinari, uno per le popolazioni colpite dal sisma del maggio/giugno 2012 e uno per le popolazioni colpite dal sisma del 2009.
Sarà quindi importante conoscere l’ammontare dei residui al 31 dicembre 2012 per sapere quanti giovani potranno essere avviati al servizio nel 2013, al netto dello stanziamento della Legge di Stabilità 2013-2015. Su questo versante la proposta governativa depositata con l’Ac 5534 bis è negativa. Infatti vengono addirittura diminuite le risorse stanziate dal precedente governo Berlusconi.
Nel 2013 sono previsti 71.214,00 milioni con un taglio di 5.041,00 milioni (-6,61%) sulle risorse previste dal governo precedente, nel 2014 sono previsti 76.251,00 milioni con un taglio di 7.546,00 milioni (-9,00%).
Con queste risorse, sul piano pratico diventa un miraggio avviare al servizio i circa 19.000 giovani annunciati a giugno 2012, e sul piano politico continua la linea dello smantellamento progressivo del Scn, reso di fatto sempre più elitario.
Tutto questo mentre, anche per effetto della crisi che sconvolge le condizioni giovanili, nel 2011 ci sono state 75.794 domande per 16.325 posti. Il tema del passaggio a una dimensione di massa, a cui chiamare, oltre lo Stato, anche altri soggetti al finanziamento, diventa ineludibile, se vogliamo evitare lo snaturamento del servizio civile stesso, elitario tanto da apparire un privilegio.
Per certi versi è un segno dei tempi che proprio in questo 2012 da alcune parti sia stato riproposto il servizio civile obbligatorio ed europeo. La sfida è quella di fare del Scn, su base volontaria, il nocciolo duro capace di preparare le infrastrutture per una sfida così impegnativa e di far maturare il necessario consenso sociale. È in questa prospettiva che serve stanziare nel 2013-2015 almeno 200 milioni l’anno per portare a circa 40.000 unità il contingente annuo.


DISARMARE L’ECONOMIA, COSTRUIRE LA PACE.

LE PROPOSTE NEL DETTAGLIO


Riduzione delle spese militari. È possibile la riduzione di 4 miliardi di euro della spesa militare. Questo potrebbe avvenire grazie alla riduzione degli organici delle forze armate a 120 mila unità e a un’integrazione – con economie di scala – dentro la cornice europea e delle Nazioni Unite, naturalmente prevedendo un ruolo per le forze armate legato ad autentici compiti di prevenzione dei conflitti e mantenimento della pace, rifiutando ogni interventismo militare.
Riduzione dei programmi d’arma. Chiediamo al governo italiano di cancellare il programma della produzione dei 90 cacciabombardieri Joint Strike Fighter e di cancellare i finanziamenti previsti per il 2013 per la produzione dei 4 sommergibili Fremm e delle due fregate Orizzonte. Risparmio previsto: 800 milioni di euro.

Riconversione dell’industria militare. Chiediamo una legge nazionale per la riconversione dell’industria militare e la costituzione di un fondo annuale di 200 milioni di euro per sostenere le imprese impegnate nella riconversione da produzioni di armamenti a produzioni civili.

Ritiro dall’Afghanistan. Chiediamo il ritiro delle truppe italiane

dalla missione in Afghanistan (il ruolo e la presenza dell’Isaf sono strettamente intrecciati a Enduring Freedom in una funzione bellica e di lotta militare al terrorismo) e da tutte quelle missioni internazionali che non abbiano la copertura e il sostegno delle Nazioni Unite. Questa misura farebbe risparmiare 740 milioni di euro alle casse pubbliche.

ATTIVITÀ DI PACE
Corpi di pace. Si propone lo stanziamento di almeno 20 milioni di euro per dar vita a un primo contingente di corpi civili di pace, destinati alla formazione e alla sperimentazione della presenza di 500 volontari da impegnare in azioni di pace non governative nelle aree di conflitto o a rischio di conflitto. Si tratta di dare forza a forme di interposizione e di peace keeping civile che abbiano una cornice e un riconoscimento istituzionale.
Servizio Civile Nazionale. Oggi il Servizio Civile Nazionale corre gravi rischi per mancanza di finanziamenti e decine di migliaia di giovani rischiano di non poter fare questa esperienza. La Legge di Stabilità assegna al Servizio Civile Nazionale solo 71 milioni di euro, che a malapena garantiranno gli impegni già presi. Proponiamo lo stanziamento di 200 milioni di euro aggiuntivi per il Servizio Civile Nazionale, al fine di consentire nel 2013 l’avvio di 40.000 volontari in servizio, ma soprattutto per iniziare a investire nella qualità del servizio civile con la programmazione, formazione, il servizio civile all’estero.
Istituto per la pace. Al pari di altri paesi (come la Svezia e la Norvegia) che hanno istituti di ricerca sui temi della pace prestigiosi e riconosciuti internazionalmente, si propone il finanziamento, con 7 milioni di euro, di un istituto indipendente di studi che possa realizzare ricerche a sostegno della pace e del disarmo.

Leopoldo Nascia
Fonte: Campagna Sbilanciamoci! - 04 dicembre 2012

Note: Per informazioni sulla campagna e sulla "ControFinanziaria" www.sbilanciamoci.org

Acqua Bene Comune (ABC)



                                   NAPOLI, CAPITALE DELL’ACQUA PUBBLICA

E’ con grande gioia che salutiamo la decisione del Comune di Napoli di trasformare ARIN ( Azienda Risorse Idriche Napoli), una Spa a totale capitale pubblico, in ABC( Acqua Bene comune) Napoli, un’Azienda Speciale. Ciò è finalmente avvenuto il 21 novembre scorso con l’ultimo adempimento redatto dal prof. Giancarlo Laurini, presidente del Consiglio Nazionale del Notariato.

Il Consiglio comunale di Napoli aveva già deciso questo quasi all’unanimità il 26 ottobre 2011 inseduta plenaria, alla presenza dei comitati dell’acqua. Ma le pressioni da parte dei potentati economico-finanziari sono state talmente forti che è stato necessario oltre un anno per tradurre in pratica quel voto.

Se si è riusciti ad arrivare alla gestione pubblica dell’acqua dobbiamo ringraziare l’impegno dei comitati cittadini napoletani e campani; un impegno portato avanti con tenacia per otto lunghi anni. Tutto infatti inizia nel 2004 quando 136 comuni delle provincie di Napoli e Caserta (ATO2) decidono di privatizzare il servizio idrico. I comitati con una energica campagna obbligano i sindaci a votare il 31 gennaio 2006 la ripubblicizzazione dell’acqua di ATO2, una decisione storica che non divenne però operativa. Fu la vittoria referendaria a dare il colpo d’ala necessario ad arrivare all’ABC- Napoli. Questo è avvenuto grazie all’impegno dell’assessore Alberto Lucarelli con l’appoggio del sindaco Luigi De Magistris.

Napoli diviene così la prima grande città che decide di obbedire al referendum. Questa città, che ha una così cattiva stampa, diventa oggi un esempio da seguire.

Noi ci aspettiamo che altre città, come Venezia, Trento, Palermo, Milano… facciano altrettanto.

Chiediamo a tutti i comitati acqua d’Italia di fare pressione perché i comuni passino alla gestione pubblica utilizzando la formula dell’Azienda Speciale. Napoli ha dimostrato che si può fare. E’ un passaggio fondamentale per la nostra stessa democrazia. Solo se le comunità locali potranno decidere sui beni comuni fondamentali : acqua, aria, energia e terra, ci potrà essere vera democrazia. Abbiamo bisogno di tante vittorie locali per forzare i partiti e il governo Monti a rispettare il Referendum.

E’ grave che , in questa stagione elettorale, il tema dell’acqua non sia oggetto di dibattito. Dobbiamo chiedere che tutti i partiti manifestino la propria posizione sull’acqua. Vale anche per le elezioni europee previste per il 2014.E’fondamentale

riportare la lotta a Bruxelles dove le istituzioni comunitarie risentono dell’enorme pressione delle multinazionali dell’acqua, da Vivendi a Coca Cola, da  Suez a Pepsi, che finanziano buona parte dei quindicimila lobbisti al lavoro in quella città. Per questo è nata la ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei), un movimento sorto dal basso per costringere il Parlamento Europeo a porre le risorse idriche fuori dalle logiche di mercato.L’ICE è uno strumento, introdotto da Trattato di Lisbona, che assegna ai cittadini il diritto di proporre alla Commissione Europea atti legislativi sulle politiche di propria competenza. Per formalizzare la proposta sono necessarie un milione di firme raccolte in almeno sette paesi dell’Unione. Per questo diventa sempre più importante lavorare in  rete in chiave europea. E’ quanto abbiamo tentato di fare al Forum di Firenze 10+10 (8-11 novembre) rafforzando la rete europea dei comitati che lavorano perché il Parlamento europeo proclami l’acqua un diritto. La raccolta di firme da portare a Bruxelles è aperta sia in forma cartacea sia in internet(www.right2water.eu).

In Italia riteniamo importante poi l’impegno contro la costituzione della mega multiutility del Nord che ingloberebbe le varie aziende locali da A2A a Hera per formare un mostro finanziario che gestirebbe i servizi anche idrici di tutto il Nord Italia. Il Forum dei Movimenti dell’acqua ha indetto una manifestazione il 15 dicembre p.v. a Reggio Emilia.

Diamoci da fare perché la situazione climatica mondiale sta peggiorando. E’ quanto traspare dal Rapporto rilanciato il 18 novembre dalla Banca Mondiale che dà per certo entro la fine del secolo un aumento medio di 4 gradi, mentre per gli USA e i paesi del Mediterraneo sarà di 6 gradi. Questo cambiamento climatico avrà conseguenze gravissime per l’acqua potabile, che andrà sempre più scarseggiando a fronte di una popolazione in aumento. Ecco  perché le multinazionali, la finanza vogliono mettere le mani sull’oro blu, per fare lauti guadagni a spese di milioni di morti di sete.

Quello che stiamo vivendo è l’eterna lotta del Drago contro la Donna così ben descritta nel libro dell’Apocalisse. Diamoci da fare perché vinca la Donna, l’acqua:la madre della vita sul pianeta Terra.


                                                                                  Padre Alex  Zanotelli
Napoli, 1 dicembre 2012