sabato 9 aprile 2011

AlReves: Messico


Il sangue dei narcos
Messico: la “guerra della droga” ha già provocato 30mila morti in quattro anni

Nel 2001, il Segretario di Stato Usa, Colin Powell, a proposito della lotta al narcotraffico in America latina dovette riconoscere che il problema della droga, che da decenni affligge la regione, non è endemico, bensì “dipende da ciò che succede nelle strade di New York e nelle vie di tutte le nostre grandi città”. In altre parole, il narcotraffico nell’area latinoamericana cresce e si alimenta grazie alla domanda di stupefacenti che proviene, prevalentemente, dagli Stati Uniti.

In Messico dopo l’adozione del Plan Mérida, che prevede aiuti economici per 350 milioni di dollari all’anno, il governo panista di Felipe Calderón aveva cominciato una vera e propria guerra contro i cartelli della droga, mobilitando migliaia di soldati tra effettivi dell’esercito, della marina militare e della polizia federale. A distanza di qualche anno, i “risultati” raggiunti sono ora sotto gli occhi di tutti: i massacri all’ordine del giorno, le operazioni di polizia anticrimine degenerate in guerra civile e il Paese trasformato in un gigantesco, orrendo, mattatoio.

In teoria, e secondo gli accordi presi con i vicini nordamericani, la guerra ai narcotrafficanti avrebbe dovuto impedire alla droga proveniente dal Sudamerica di fare il suo ingresso in Messico, attraverso la frontiera con Guatemala e Belize, per poi essere smistata verso gli Stati Uniti. Ma nei fatti, l’offensiva poliziesco-militare non ha prodotto alcun effetto positivo. Anzi, nel sud del Messico regna incontrastata la famigerata banda dei “Los Zetas” che si arricchisce, oltre che con la droga, anche con il traffico dei migranti centroamericani, in cerca di fortuna al nord, sfruttando questo enorme serbatoio di mano d’opera a buon mercato nella prostituzione e nella schiavitù del lavoro nei campi.

Secondo molti analisti, i fautori di questa guerra inutile, il presidente Calderón e i suoi mèntori nordamericani, continuano ad ignorare - o forse fanno finta di non sapere - che per affrontare opportunamente la questione narcotraffico si dovrebbe tener conto, anzitutto, di tre fattori fondamentali. E tutti e tre riconducibili alla medesima matrice.

In primo luogo, la maggiore richiesta di stupefacenti proviene dalla stessa nazione che più si impegna a combattere la proliferazione del narcotraffico in tutta l’America latina. Negli Stati Uniti, infatti, vivono milioni di consumatori di droga che si servono di un terzo di tutta la cocaina prodotta nel mondo: un giro d’affari gigantesco che fa gola un po’ a tutti, coinvolgendo anche le banche statunitensi. Dalla XII Conferenza Internazionale sul Riciclaggio è emerso che gli istituti di credito Usa, solo nell’ultimo decennio, avrebbero accolto nei loro caveaux tra i 2,5 ed i 5 trilioni di dollari, frutto di attività illecite come - appunto - il narcotraffico.

Dunque, meglio farebbero le autorità statunitensi a concentrarsi di più sugli aspetti legati alla prevenzione del fenomeno (magari investendo più risorse in programmi sociali per limitare il consumo di droghe nella popolazione), anziché insistere unicamente sul versante della repressione manu militari.

In secondo luogo, dagli Stati Uniti arrivano anche le armi per i cartelli messicani, grazie ad una fitta rete di “collaboratori”, tra funzionari di frontiera compiacenti e poliziotti corrotti, e alle protezioni a livello politico-imprenditoriale di cui godono gli stessi narcos.

Ed infine, andrebbero esaminate più a fondo alcune tra le più disastrose conseguenze del NAFTA, lo sciagurato accordo di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico, entrato in vigore a fine anni ’90. Il NAFTA, oltre a provocare l’impoverimento progressivo di intere masse di popolazione, ha costretto milioni di contadini svantaggiati ad abbandonare per sempre le loro terre, oppure a dedicarsi a coltivazioni più redditizie, passando dal mais all’oppio (e/o alla marijuana). Ciò risulta pure da un recente dossier pubblicato dal periodico “La Jornada”, che denuncia la presenza nel nord del Messico di grandi latifondi coltivati ad oppiacei, molti dei quali sono addirittura sorvegliati dai militari. Secondo le stime più ottimistiche, un quarto di tutta l’economia messicana sarebbe già nelle mani dei narcos.

Per molti Paesi dell’America latina, decidere di adottare la strategia nordamericana di contrasto al narcotraffico, con i suoi metodi repressivi, significa esporsi sempre di più all’ingerenza della Casa Bianca nei propri affari interni, con il rischio di cadere - o ricadere - sotto il suo controllo militare, economico e politico. Come nel caso messicano, in cui la sovranità del Paese è stata consegnata agli Stati Uniti in cambio dell’adozione di una politica antidroga cinica e spietata. Ed è ovvio che dietro il paravento della lotta al crimine organizzato si nascondono soprattutto ingenti interessi economici. Così, mentre il sangue di tanti messicani scorre a fiotti nelle strade, pochi privilegiati si ingrassano con i lauti profitti della “narcoguerra”.

Andrea Necciai

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