lunedì 28 febbraio 2011

Opus Dei

Attraverso la manipolazione dei suoi adepti l’Opus Dei si colloca nei posti chiave del potere da dove capta risorse statali che utilizza per rafforzare se stessa
di Emanuela Provera - CadiInPiedi

È di questi giorni la notizia dell'indagine condotta dalla procura di Roma sulle selezioni affidate dalla municipalizzata Ama (Azienda Municipale Ambientale Spa), a Elis, consorzio dell'Opus Dei, per effettuare le assunzioni-scandalo: 840 nuovi assunti che si sono rivelati parenti e amici degli amici dell'ad Franco Panzironi. Dal 2006 l'Ama affida a Elis la selezione finale dei candidati inviati dai Centri per l'impiego e che sia un ente privato a decidere gli assunti in un ente pubblico è di per sé un' anomalia tanto che Sergio Bruno, presidente Consel,consorzio Elis, è finito nella lista degli indagati insieme a Luciano Cedrone, Gianfrancesco Regard e Ivano Spadoni. Secondo la Procura, Elis non avrebbe potuto procedere alla selezione del personale perché non sarebbe stata iscritta nell' albo previsto dalla legge Biagi. In secondo luogo, gli aspiranti dipendenti avrebbero sostenuto solo "colloqui confermativi", come dimostrerebbero le carte in possesso della procura. Insomma selezioni tutt'altro che scrupolose.

Cosa c'entra l'Opus Dei se il presidente di Elis è indagato? Vi chiederete. "Niente" risponderebbe Giuseppe Corigliano, portavoce della prelatura Opus Dei in Italia, che chiamato a rispondere in situazioni analoghe ha sempre affermato "...la Prelatura non gestisce direttamente nomine, enti, soldi perché ciascun membro dell'Opera è responsabile personalmente delle proprie scelte di etica professionale. La prelatura si limita ad offrire assistenza pastorale e orientamento dottrinale".
Di seguito cito solo qualche caso per il quale l'Opus Dei ha fornito la medesima risposta. Vincenzo Lorenzelli, soprannumerario dell'Opera, nel 2005, è stato chiamato dal cardinale Tarcisio Bertone a ricoprire l'incarico di commissario straordinario di uno degli ospedali pediatrici più importanti del mondo, l'istituto Gaslini di Genova; fu presidente della Fondazione Rui , ente di diretta emanazione dell'Opus Dei che, da Fondazione Banca Carige di cui lo stesso Lorenzelli è stato presidente, ha ricevuto cospicui finanziamenti.
Ettore Gotti Tedeschi, soprannumerario dell'Opera e presidente dello Ior, la banca vaticana, da qualche mese è indagato per violazione delle norme antiriciclaggio nella transazione di 23 milioni di euro depositati su un conto del credito Artigiano Spa Fondazione Carige, il cui vice presidente è Pierluigi Vinai, dell'Opus Dei e di area scajolana. Lo stesso che ha fatto entrare nel capitale di Banca Carige lo Ior, che ha acquistato obbligazioni per un valore di 100 milioni di euro.
Raffaele Calabrò, dell'Opus Dei, senatore Pdl, che ha steso la bozza del disegno di legge sul testamento biologico e il mese scorso ha firmato, insieme a Roberto Formigoni, una lettera aperta per chiedere ai cattolici italiani di sospendere ogni giudizio severo nei confronti di Silvio Berlusconi, indagato dalla procura di Milano per concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile. Sempre Calabrò è presidente dell'istituto IPE (Istituto per ricerche ed attività educative) di cui fanno parte Collegi universitari dell'Opus Dei, che, per statuto, riceve finanziamenti pubblici e nel cui Cda sono seduti altri membri dell'Opera.
Giuseppe Garofano, Giuseppe De Lucia Lumeno, Gastone Colleoni, uomini dell'Opus Dei, sono soci in banca MB, l'istituto di credito milanese che da più di un anno e mezzo è in amministrazione straordinaria , commissariato cioè da Bankitalia anche per aver dato "sostegno a soggetti con evidenti sintomi di difficoltà".

L'Opus Dei, negli anni, ha perfezionato il proprio bagaglio argomentativo e l'abilità amministrativa in modo da far ricadere le responsabilità dell'organizzazione sui singoli.
I dirigenti dell'Opus Dei che ufficialmente sostengono di avere come unica mission l'assistenza pastorale, in pratica intervengono nell'attività lavorativa degli adepti attraverso il controllo minuzioso delle loro entrate ed uscite, visionando e approvando i progetti di investimento con le relative richieste di finanziamento, nel caso di attività d'impresa, elaborando il prospetto economico annuale di ciascuno per fornire consigli e orientamenti che servono ad alimentare l'organizzazione e ad evitare di appesantirla dal punto di vista economico.
Per fare un esempio concreto sull' intervento operativo da parte dei direttori dell'Opus Dei nelle attività professionali dei membri numerari e aggregati che conducono attività d'impresa, cito un passo dai documenti interni (Obra de San Miguel - Desprendimiento en el uso de los bienes materiales) che prescrive quanto segue:
"Durante il colloquio fraterno i fedeli della Prelatura vengono aiutati a vivere con delicatezza la pratica del distacco; se il Consiglio locale lo ritiene opportuno e almeno una volta all'anno i fedeli dell'Opera informano i direttori sui traguardi economici raggiunti e sul preventivo per l'anno seguente, in riferimento alla quota societaria che gli corrisponde. E' sufficiente produrre una nota informativa breve, chiara e semplice con i commenti utili ad offrire una visione reale e completa della propria situazione economica; i direttori locali inviano una copia della nota alla Commissione regionale con le osservazioni del caso; quest'ultima formulerà a sua volta indicazioni precise perché siano trasmesse all'interessato, se è conveniente. La nota presentata dal fedele della prelatura viene poi distrutta"

Attualmente il capo della Commissione regionale dell'Opus Dei in Italia è don Matteo Fabbri. Dovremmo chiedergli quali sono le precise indicazioni che il suo governo ha formulato sui bilanci aziendali dei membri dell'Opera.

Licio Gelli e l'anello

Il Venerabile torna sui poteri della prima Repubblica:
«Io avevo la P2, Cossiga Gladio e Andreotti l'Anello»

di Stefania Limiti
- CadoInPiedi

Se a parlare è Licio Gelli bastano anche poche parole ma l'effetto è sicuro: si va con la mente su e giù attraverso gli anni della Repubblica e vengono i brividi. Recentemente il Venerabile è tornato sulle vecchie dicerie che vogliono Andreotti capo della P2 e, conversando con una giornalista del settimanale Oggi, ha detto: «per carità...tutte storie, io avevo la P2, Cossiga Gladio e Andreotti l'Anello».... Poche parole che vogliono dare l'idea di una ripartizione precisa e 'democratica' delle strutture segrete e per la prima volta offrono la conferma da parte di un personaggio di calibro dell'esistenza dell'Anello, espressamente ricondotto all'influenza di Giulio Andreotti. Gli scettici, e quanti hanno tentato di contrastare la verità su questa struttura segreta, si mettano l'anima in pace: l'iceberg si è sciolto...anche se Gelli non dovesse aggiungere più nulla, quelle parole pesano come pietre.
Non sapremo mai se Gelli ha parlato sapendo che il suo vecchio amico Giulio non ha energie per replicargli ma questo ormai poco importa. Ed anche quella rigida divisione dei compiti convince poco: secondo Gelli ognuno godeva di fatto di un suo personale servizio segreto - perché questo sono state le tre strutture menzionate. Si può accettare che ognuno avesse una sua sfera d'influenza nella quale era più 'di casa' di quanto non lo fossero gli altri, per vicinanza agli uomini e alla loro storia. Ma non convince questa rappresentazione un po' casareccia di tre organismi che hanno influenzato dal sottosuolo, e attraverso l'influenza esterna, più di ogni altra cosa la dialettica democratica ed il corso degli eventi della nostra Repubblica; ancora meno, poi, l'estraneità di Andreotti alla P2.
Fascista e repubblichino, Gelli si era distinto come il più giovane volontario della guerra di Spagna: è forse lì che inizia il suo legame con il generale Mario Roatta, capo del Sim e padre del Noto Servizio? E' assai probabile, visto che dal '41-'42 Gelli è stato agente segreto del Sim e protagonista di una delle operazioni più eclatanti e ancor oggi misteriose, il trasporto dell'oro del Regno di Jugoslavia in Italia. Certo è che Gelli ebbe l'investitura direttamente dal Duce: nel 38 fu convocato a Roma, a Palazzo Venezia, dove in una immensa stanza ricevette l'abbraccio di Benito Mussolini e probabilmente l'indicazione della missione a cui era stato predestinato. Il capo della P2 non entra nei particolari di quella giornata particolare ma ammette che <> della sua lunga vita. Il suo curriculum lo rende senz'altro molto credibile quando parla di Anello e questo è ciò che più conta in quelle poche parole.
Molti si interrogano poi sul loro significato attuale: qui si entra nel piano inclinato delle deduzioni ma si possono mettere insieme alcuni elementi. Prima di quell'intervista, Gelli aveva anticipato al quotidiano "Il tempo" alcune analoghe considerazioni, senza fare ancora il nome esplicito dell'Anello: in entrambe le occasioni poche parole sul passato e tante considerazioni sull'oggi e sul suo amico Berlusconi verso il quale Gelli è stato assai severo. Gli ha rimproverato molte cose e sembra dirgli: caro mio, il tuo tempo è finito e a te ormai neanche la P2, Gladio o l'Anello posso cacciarti dai guai. Sembra che voglia rivendicare la sua venerabile parte di grande burattinaio. Una megalomania da grande vecchio? Può darsi ma Berlusconi per lui non è un estraneo, su di lui la P2 aveva puntato molto. Come sostiene il professore Giuseppe De Lutiis nell'introduzione a L'Anello della Repubblica forse Giuseppe Cabassi, uomo dell'Anello, nonché figlio del peccato, cioè di padre Zucca, era il cavallo sul quale aveva puntato la P2 (l'amministratore delegato del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, Bruno Tassan Din, aveva detto che Cabassi era della Loggia) prima di scegliere un uomo con maggiore carisma, cioè Silvio Berlusconi. Il nostro presidente del Consiglio è strettamente legato al passato della nostra Repubblica non solo attraverso stallieri e mafiosi: Berlusconi finanziò, ad esempio, la scissione del Movimento sociale italiano, nel 1976, operazione ampiamente sponsorizzata dall'Anello.
Nel 1977, ricordò solo recentemente Rino Formica, Berlusconi gli manifestò l'intenzione di fare il ministro degli Esteri: quali onorevoli meriti gli consentivano di osare tanto? L'anno successivo, durante i 55 giorni del caso Moro, una delle trattative avviate per la sua liberazione fu portata avanti da padre Zucca e comprendeva, oltre che un enorme pagamento in denaro, la liberazione di due terroristi della Raf che si trovavano nelle carceri di Tito: sapete che mise a disposizione dell'entourage della famiglia Moro il suo aereo personale per andare a fare la trattativa in Jugoslavia? Silvio Berlusconi.
Insomma, il Cavaliere è nato e cresciuto a pieno titolo nella prima Repubblica: e tra i fondatori dei circoli di Forza Italia, oltre ai mafiosi al Sud, ci sono al Nord uomini che ruotavano intorno all'Anello. Dunque, con le sue parole sembra quasi che Gelli voglia 'disattivare' il logoro Berlusconi. Proprio come furono disattivati anni fa gli agenti dell'Anello.

Anche noi abbiamo un sogno !

Chi Siamo: Siamo un gruppo di laici del Centro Giovanile Antonianum di Padova, convinti che come cristiani non si possa più tacere di fronte a quanto sta accadendo nel nostro paese.

Un giorno chi guida la Chiesa in Italia riuscirà a denunciare i comportamenti inaccettabili con chiarezza e determinazione, perché avrà come unico interesse l’annuncio della Buona Notizia.
    In situazioni come quelle odierne, dirà che chi offende ed umilia le donne in modo così oltraggioso non può governare un paese.
    Dirà che coinvolgere minorenni in questo mercato sessuale è, se possibile, ancora più sconcertante.
    Dirà che chi col denaro vuol comprare tutto, col potere vuol essere al di sopra delle leggi, con i sotterfugi evita continuamente di rendere conto dei propri comportamenti, costui propone e vive una vita che è all’opposto di quanto insegna il nostro maestro Gesù.
    Per evitare ambiguità dirà chiaramente che questa persona è il nostro Primo Ministro.
    Da quel giorno, ogni giorno, chi guida la Chiesa ci esorterà all’onestà, alle scelte etiche, alla coerenza, dimostrando anche con l’esempio che davvero ciò che più conta sono i valori evangelici.
    Allora noi smetteremo di pensare che siano gli interessi economici o di potere a giustificare il sostegno a chi si comporta in modo così scandaloso.

    Un giorno anche il silenzio di noi laici, la nostra rassegnazione, la nostra mancanza di iniziativa e passione finiranno: troveremo il modo di partecipare alle decisioni ed alle prese di posizione della Chiesa. I nostri Pastori gradiranno e sosterranno il nostro cammino di crescita nella responsabilità.

    Quando la Chiesa italiana sarà chiamata ad una verifica di cosa ha detto e fatto in questi momenti tragici della vita politica italiana non saremo dunque costretti a riconoscere che le nostre lampade erano spente e nascoste sotto il moggio.

    Sogniamo che questo giorno sia oggi: non possiamo più tacere

puoi sottoscrivere il documento, se lo condividi, al seguente link:
https://sites.google.com/site/anchenoiabbiamounsogno/Sottoscrivi

Nuovo documento di riflessione (.doc):
La tua legge, Signore, è nel profondo del mio cuore!
(Sal 39,9)  
http://www.antonianum.info/wp-content/uploads/2011/02/La-tua-legge.doc

giovedì 24 febbraio 2011

Date consultazioni

L'annuncio di Maroni che i referendum si terranno il 12 giugno, nonostante questo comporti enormi costi aggiuntivi rispetto all'accorpamento con le elezioni amministrative, sembra voler scoraggiare la partecipazione al voto referendario delle cittadine e dei cittadini.
Il Forum dei movimenti per l'acqua chiede l'accorpamento della data del referendum con quello delle prossime elezioni amministrative.
Qui di seguito un articolo di Alberto Lucarelli che motiva la richiesta del Forum.
SE NO L'AVETE ANCORA FATTO... FIRMATE L'APPELLO online a favore di tale richiesta,
http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php?option=com_petitions&view=petition&id=171



Luca

** 12 Giugno, una proposta irricevibile **
 di Alberto Lucarelli (Il Manifesto del 10 Febbraio 2011)

Il ministro Maroni ha dichiarato di voler fissare la data dei referendum domenica 12 giugno, ovvero l'ultima data utile prevista dalla legge. Il Forum dei movimenti per l'acqua, subito dopo le sentenze di ammissibilità della Corte, aveva inoltrato una lettera al Presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio ed al ministro degli Interni chiedendo che il voto dei referendum si svolgesse in contemporanea con il voto delle amministrative. Tale richiesta sembrerebbe per il momento essere stata del tutto ignorata e l'idea di fissare le consultazioni referendarie il 12 giugno, in prossimità dell'estate e degli esami di maturità, sembra proprio portare in sé l'obiettivo di scoraggiare i cittadini a recarsi alle urne. Non dimentichiamo che negli ultimi quindici anni i referendum di giugno non hanno mai raggiunto il quorum.

La legittima ed opportuna richiesta del Forum si fonda su due argomentazioni, entrambe di notevole rilevanza:

 1) la scelta del giorno in cui fissare la consultazione elettorale deve essere esercitata nel rispetto del principio del favor del referendum, e più in generale della partecipazione politica, ovvero nell'obiettivo, in linea con il disposto dell'art. 1 Cost. che attribuisce la sovranità al popolo che lo esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, di adottare soluzioni organizzative e procedurali che non sacrifichino il circuito della democrazia sia diretta, prevista dall'art. 75 della Costituzione, sia rappresentativa, prevista dagli artt. 55-70 della Costituzione. È evidente infatti che la concreta possibilità di tre consultazioni elettorali nell'arco di un mese (amministrative, ballottaggio e referendum) possa costituire un serio rischio alla partecipazione dei cittadini sia per le amministrative che per il referendum;

 2) la frammentazione dei momenti elettorali rappresenta un ingiustificato ulteriore costo per la finanza pubblica. L'occasione che si presenta di unificare i futuri momenti elettorali va colta dunque anche nel senso di risparmio di soldi pubblici, la cui entità sembra di non poco conto.  Come è noto l'art. 87 della Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica il potere di indire il referendum, ma tale atto è preceduto sulla base dell' art. 34 della legge n. 352 del 1970 dalla deliberazione del consiglio dei ministri cui spetterebbe in concreto la determinazione della data di svolgimento della consultazione. Tuttavia tale potere governativo va esercitato sia un'ottica di correttezza istituzionale e di leale collaborazione con il Presidente della Repubblica (che non sembrerebbe essere stato nemmeno consultato sul punto) sia nel senso di favorire la partecipazione e quindi il concreto esercizio della sovranità popolare. Invece, il governo su proposta del ministro degli interni fissando la data della consultazione elettorale il 12 giugno farebbe un cattivo esercizio della sua discrezionalità, ponendosi di fatto in contrasto con i principi generali dell'ordinamento costituzionale.

 In questo caso, dunque, proprio perché si tratta di un potere condiviso (la Corte costituzionale da ultimo con ordinanza n. 38 del 2008 ha riconosciuto al governo un ampio potere di valutazione in ordine al momento di indizione ma non un suo potere esclusivo) e perché la fissazione della data del 12 giugno è un'evidente scelta irrazionale (duplicazione delle spese) strumentale ed inopportuna, in quanto mira di fatto a svilire la consultazione elettorale e a non far raggiungere il necessario quorum richiesto dalla legge, il Capo dello Stato potrebbe assumere le iniziative necessarie al fine di adottare (o indurre ad adottare) l'atto in concomitanza con le consultazioni amministrative.  Si tratterebbe di esercizio del potere presidenziale inteso come controllo e garanzia di piena ed effettiva esplicazione della volontà popolare e quindi come atto sostanzialmente presidenziale ed appartenente alla sua sfera di discrezionalità. Un atto di garanzia contro l'arroganza e la scorrettezza del governo che non sembra voler tener in nessun conto che è la prima volta nella storia della Repubblica che una richiesta referendaria sia stata sottoscritta da quasi un milione e mezzo di cittadini. Questo dato va rispettato, tutto il resto costituisce un evidente abuso di potere. L'auspicio è che il governo rimediti sulle sue inaccettabili intenzioni fissando la data dei referendum in concomitanza con le amministrative. Per restare in tema possiamo dire che la proposta del 12 giugno è irricevibile!

martedì 22 febbraio 2011

Da Algeri a Teheran: dovuti distinguo

*I media internazionali tendono a trattare tutti allo stesso modo teatri molto differenti, dove non mancano gli elementi in comune, ma tante sono anche le peculiarità
di Christian Elia, peacereporter.net, 15/02/2011

Un'onda, potente e rabbiosa. L'immagine che il mondo arabo e islamico sta lanciando nel mondo è dinamica. Esperti e studiosi, inviati e commentatori, riversano fiumi di inchiostro su quello che accade, ma sono senza parole rispetto a quello che potrebbe accadere, perché in fondo nessuno lo sa. Egitto e Tunisia sono archiviate, almeno per coloro che ritengono esaurita la fase rivoluzionaria, in attesa dell'evoluzione democratica in entrambi i paesi. Il fuoco è in cammino e non sarà facile spegnerlo. Con il rischio, però, di omologare situazioni molto differenti tra loro.
L'Algeria, in primis. Grande manifestazione sabato scorso <http://it.peacereporter.net/articolo/26837/Algeria,+capitale+blindata+in+vista+della+grande+protesta+di+domani> , grande manifestazione sabato prossimo. L'ex colonia francese - a grandi linee - si muove nello stesso solco dei vicini nordafricani.
Con una differenza molto importante: la memoria. La guerra civile che ha insanguinato il Paese, dal 1990 al 1998, che ha causato la morte di almeno 150mila persone, è una ferita ancora aperta nella memoria collettiva del Paese. Ecco che, pur in presenza di evidenti metastasi nella situazione socio-economica del Paese, pare molto più improbabile che la società civile algerina si lanci in un salto nel vuoto istituzionale, sul modello tunisino. Più probabile un passaggio di poteri all'interno dell'elité economico-militare che governa il Paese, se la situazione dovesse aggravarsi. Di fronte a un'opposizione, però, che al momento ha un'identità molto islamista. Con tutto quello che questo ha comportato negli anni Novanta.
Situazione ancora differente quella dello Yemen. Da giorni, nonostante le garanzie fornite dal presidente Saleh di non ricandidarsi e di non lasciare il potere nelle mani del figlio, la piazza ribolle <http://it.peacereporter.net/articolo/26870/Yemen,+studenti+universitari+in+marcia+verso+il+palazzo+presidenziale> . Uno schema, sulla carta, simile a quello egiziano. Solo che, a differenza dell'Egitto, dove classi sociali differenti si sono saldate attorno alla voglia di cambiamento, facendo leva sull'esercito come elemento di garanzia, lo Yemen è uno stato a pezzi. I ribelli sciiti del nord, i secessionisti del sud, gli integralisti islamici dei clan dello Yemen centrale. A tutto questo si uniscono i milioni di profughi del Corno d'Africa, la cui gestione rappresenta una grande incognita per il Paese. Ecco che, in presenza di elementi comuni, il fronte delle opposizioni al regime di Saleh è frantumato, con l'esercito che si arrocca attorno al presidente, avvinti in un ballo del potere che non regala un'alternativa ai due sodali.
Sono giorni di fuoco anche in Bahrein. I media tradizionali, almeno la maggioranza degli stessi, sta calibrando i racconti da Manama sulla stessa sceneggiatura di quelli visti e sentiti al Cairo o a Tunisi. Difficile metterli sullo stesso piano. La dinastia al-Khalifa, sul modello della famiglia di Ben Alì o della cricca di Mubarak, detiene
il potere in modo assoluto da sempre. Una ristretta minoranza della popolazione, circa il 30 percento, di sunniti legati alla famiglia reale gode di un elevato tenore di vita e di tutto il potere, economico e politico. Il restante 70 percento, invece, vive una discriminazione permanente. Si tratta degli sciiti. Ecco che in Bahrein il conflitto prende più i connotati di una eventuale guerra civile <http://it.peacereporter.net/articolo/26866/Bahrein,+morto+il+manifestante+antigovernativo+ferito+ieri> , con la componente sciita della popolazione decisa a rovesciare lo status quo.
In Libia, per il 17 febbraio, è stata  convocata - su internet - una grande manifestazione per chiedere le dimissioni di Gheddafi <http://it.peacereporter.net/articolo/26868/Libia,+l%27opposizione+chiede+le+dimissioni+del+colonnello+Gheddafi> . Il giorno scelto non è casuale: è quello del massacro di Bengasi, nel 2006. La polizia libica, in difesa del consolato italiano assaltato da dimostranti inferociti (il giorno prima il ministro Calderoli aveva mostrato una maglietta al Tg1 che riproduceva le vignette su Maometto ritenute offensive dai musulmani), massacrò undici persone. La criminale provocazione del ministro italiano, però, è solo la scintilla per un confronto storico, in Libia: il potere centrale, arabo, e la minoranza berbera, che ha proprio a Bengasi il suo fortino. Ecco che la protesta in Libia prende connotati etnici, più che politici. Le rivendicazioni contro il regime del Colonnello, passano ancora una volta nella tensione tra Tripoli e i berberi, anche perché Gheddafi è stato forse il più lungimirante dei dittatori regionali, distribuendo una parte dei proventi dei suoi ricchi traffici alla popolazione, aiutato anche dal piccolo numero di abitanti del Paese. Una spaccatura trasversale alla società libica, più che verticale, come in Tunisia o Egitto.
Ultimo, ma non meno importante, l'Iran. Paese che arabo non è, ma islamico sì. Il 14 febbraio scorso, per un attimo, pareva di essere tornati ai momenti di tensione <http://it.peacereporter.net/articolo/26869/La+rabbia+di+Teheran>  del 2009, con le violenze che seguirono la rielezione di Ahmadinejad, prima a giugno e poi a ottobre. Una lacerazione che la Rivoluzione Islamica non aveva mai conosciuto. L'onda verde, la chiamarono. Difficile dire se gli scontri del 14 siano sullo stesso registro: mancano alcuni elementi. In primo luogo il bersaglio era molto più l'ayatollah supremo Khamenei che Ahmadinejad. Bisogna indagare il perché. Il presidente Ahmadinejad non è, all'improvviso, diventato gradito alle opposizioni. Ma i movimenti di emancipazione hanno subito, tra il 2009 e il 2010, un colpo durissimo. Al punto che sembra quasi un sommovimento interno alla gerarchia. Alla passione dei ragazzi iraniani, pagata a caro prezzo e in prima persona, non si può mancare di rispetto. Ma di sicuro incuriosisce una dinamica che, nel grande incendio, rischia di far confondere l'osservatore, accecato da tanto fumo, dove tutto sembra uguale, ma non lo è.

lunedì 21 febbraio 2011

Lo sconfitto d'interesse

Lo scorso 15 febbraio l'Autorità Garante della Concorrenza e del mercato ha inoltrato al Parlamento la relazione con la quale, secondo la vigente disciplina in materia di conflitto di interessi, ogni semestre dovrebbe informare il Parlamento degli episodi di conflitto da parte dei membri del Governo riscontrati e dei provvedimenti adottati.
Quella appena arrivata a Montecitorio è la dodicesima relazione.
Negli ultimi sei anni, tuttavia, le ipotesi nelle quali l'Autorità ha registrato conflitti o incompatibilità si contano sulla punta delle dita e riguardano, sempre, "figure minori" ed episodi davvero di poco conto rispetto ai grandi conflitti di interesse sotto gli occhi di tutti e dei quali siano, ormai, rassegnati a leggere su qualche giornale e, più di rado, a sentir parlare in televisione.
Ancora una volta, anche in relazione al semestre giugno-dicembre 2010, secondo l'Autorità va tutto bene.
Né il Presidente del Consiglio né i membri del suo Governo avrebbero, infatti, indebitamente gestito la "cosa pubblica" a proprio vantaggio e per proprio comodo o, almeno, mai lo avrebbero fatto adottando atti in conflitto di interessi nel senso previsto dalla vigente disciplina.
Leggere la relazione dell'Autorità Garante è un'esperienza disarmante e, ad un tempo sconfortante che, pure, aiuta a capire che se il Paese si trova nell'attuale condizione la colpa non può semplicemente essere attribuita all'attuale maggioranza ma va, con maggior onestà intellettuale, equamente imputata a chi, negli anni passati, pur avendo i numeri per cambiare le "regole del gioco" democratico ha preferito guardare dall'altra parte e preoccuparsi di altro.
Il presidente del Consiglio dei ministri, Tycoon indiscusso dell'industria radiotelevisiva italiana, assume - e conserva per oltre 150 giorni - l'incarico, ad interim, di ministro dello Sviluppo economico, dicastero nella cui sfera di competenza, rientra anche la materia delle comunicazioni e, dunque, la gestione dell'universo radiotelevisivo ma, secondo l'Autorità garante della concorrenza e del mercato è tutto regolare e non c'è alcun conflitto di interessi perché "La circostanza che alcune imprese di proprietà del presidente del Consiglio operassero in settori interessati dalle attribuzioni istituzionali del ministero dello Sviluppo economico, non ha potuto di per sé costituire una condizione sufficiente per avviare un procedimento ai sensi dell'art. 6, della legge sul conflitto di interessi." in quanto "A tale fine, si sarebbe dovuto, in concreto, individuare un atto (o omissione) posto in essere dall'on. Berlusconi che fosse suscettibile di incidere sul settore radiotelevisivo in cui operano le società delle quali il medesimo titolare di carica è proprietario."
L'atto in questione arriva il 6 agosto 2010, in piena estate, quando il Ministro dello Sviluppo economico, alias Silvio Berlusconi, assegna alla RTI SpA - ovvero ad una società di sua proprietà - l'utilizzo provvisorio del canale 58, affinché lo utilizzasse sino alla data di pubblicazione del bando di gara per l'assegnazione delle frequenze destinate al dividendo digitale.

Un bel vantaggio per le imprese del biscione ed un grande svantaggio per i concorrenti ma, anche in questo caso, secondo l'Autorità Garante, va tutto bene.

 Scrivono, infatti, gli uffici dell'Autorità nella relazione "L'Autorità, avendo verificato che tale autorizzazione era stata rilasciata, su richiesta di Elettronica Industriale Spa [n.d.r. controllante di RTI], dalla 'Direzione generale per i servizi di comunicazione elettronica e radiodiffusione' del Dipartimento comunicazioni, a seguito di parere positivo espresso dalla Direzione generale Pianificazione e gestione dello spettro radioelettrico dello stesso Dipartimento, ne riconosceva la piena natura amministrativa, non ritenendo l'atto in alcun modo riferibile al vertice politico". 
Come dire giacché non è stato Berlusconi ad auto-assegnarsi le frequenze in questione ma se le è fatte assegnare dai dirigenti del ministero del quale era responsabile ad interim, deve escludersi l'ipotesi del conflitto di interessi.
In Italia non c'è nessun conflitto di interessi: non c'è se il Ministero delle comunicazioni è gestito come se fosse un ufficio di RTI, non c'è quando il parlamento è trasformato d'imperio nello Studio Legale dell'Avv. Ghedini, non c'è quando immobili pubblici vengono utilizzati in modo clientelare e, naturalmente, non c'è neppure quando si usano le risorse pubbliche per garantire al Sovrano qualche momento di relax ed intrattenimento.
E' troppo augurarsi che la nuova stagione politica - quando sarà - possa, tra l'altro, inaugurarsi con il varo di una nuova legge sul conflitto di interessi?
[guido scorza]

venerdì 18 febbraio 2011

Referendum's

Segnalo agli interessati la possibilità di firmare la petizione che chiede l'accorpamento dei referendum con le votazioni amministrative, con evidente risparmio di denaro (e chiedetevi perché i genialoidi burocrati del ministero dell'interno non ci hanno pensato!):
http://www.acquabenecomune.org/raccoltafirme/index.php?option=com_petitions&view=petition&id=171
Attraverso la pagina web
http://www.referendumacqua.it/sostieni.html
invece è possibile fare con bonifico o carta di credito una donazione a sostegno dei comitati referendari oppure -per chi ama le scommesse- una sottoscrizione;
rammento che in questo secondo caso i soldi sono solo "prestati" agli organizzatori, che in caso di validità della consultazione li restituiranno ai cittadini utilizzando i soldi del rimborso (in alternativa si potrà scegliere di reindirizzarli a progetti di sostegno cooperativistico).
I due siti citati
http://www.referendumacqua.it/
http://www.acquabenecomune.org
sono anche il punto di partenza per chi desiderasse approfondire la tematica.

Luca

 


La data dei referendum contro la privatizzazione del servizio idrico dovrebbe essere – a dire del Ministro Maroni - il 12 giugno, ossia l’ultima domenica utile in quell’arco di tempo indicato dall’art. 34 della legge n. 352 del 1970 per lo svolgimento di queste  consultazioni. Se la data fosse confermata, si verificherebbero due fenomeni decisamente criticabili; in primo luogo, il voto referendario sarebbe scisso da quello delle elezioni amministrative, che si terranno in molte città a metà maggio e - se si considera l’eventuale ballottaggio -  basta un occhio al calendario per rendersi conto che molti cittadini saranno chiamati alle urne per ben tre volte nel giro di un mese. Il secondo luogo, spingendo la data a ridosso del termine fissato ex lege, si finirebbe per entrare in un periodo in cui molti italiani saranno già in vacanza.
Da queste due considerazioni sembrerebbe emergere una chiara strategia di disincentivo al voto, finalizzata a far sì che non sia raggiunto il quorum, quella quota di votanti necessaria affinché, in caso di vittoria del Sì, possa riconoscersi come avvenuta l’abrogazione delle norme oggetto dei quesiti. Una riflessione su questa strategia fa emergere, a mio avviso, un problema di natura istituzionale e un interrogativo sul senso attuale del concetto di  partecipazione.
Il problema di natura istituzionale è molto complesso, perché mette in luce un match dai contorni decisamente paradossali. In quest’ottica, il campo da gioco del referendum sembrerebbe contrapporre due squadre, quella del governo in carica contro  tutti i cittadini chiamati al voto; l’oggetto della contesa è il mantenimento di una legge emanata dal primo dei due contendenti. Il gioco tuttavia non è fair, ma anzi il governo ostacola in ogni modo quei cittadini che  potrebbero votare a favore dell’abrogazione. Si badi bene, il problema nasce sì dal caso concreto che stiamo affrontando, ma ha contorni generali e, anzi, costituisce una vera e propria tendenza consolidata: infatti, se proviamo a guardare le date ricorrenti in cui il referendum abrogativo è stato indetto nella storia repubblicana, è facile notare che il periodo più quotato – si ricordi, su un arco di tempo pari a due mesi – è sempre coinciso con i quindici giorni di giugno.
E’ corretto ritenere che sul campo del referendum si giochi una partita tra governo in carica e cittadini votanti? Una risposta positiva a questa domanda sarebbe in grado di cogliere soltanto gli aspetti più formali della questione, concentrandosi quindi sul mero oggetto del contendere, ossia l’abrogazione di una legge espressione della forza politica in carica. Sarebbe sufficiente un’attenta lettura della Costituzione per comprende che così non è, che in questo match non esistono squadre contrapposte: la sovranità appartiene al popolo recita la nostra Costituzione, e il trionfo della democrazia rappresentativa non può cancellare dal panorama istituzionale del Paese la democrazia diretta, di cui il referendum è appunto espressione.
La scelta di rinviare all’ultima data disponibile il referendum costituisce uno schiaffo all’idea di democrazia; separare il voto referendario dalle elezioni amministrative è un atto di grave arroganza politica, oltre ad essere palesemente privo di efficienza economica (si conta uno spreco pari a quattrocento milioni di euro).
Oltre che una battaglia in difesa dei beni comuni, il referendum per l’abrogazione delle norme che privatizzano il servizio idrico rappresenta anche lo strumento per liberarsi delle spoglie di consumatore/spettatore sotto cui è sommerso il cittadino: il televoto esercitato comodamente da casa ha sedotto molti, inculcando in maniera subdola l’idea secondo cui o i diritti sono di facile fruizione, oppure “il gioco non vale la candela”.
Inoltre, la dimensione del consumatore ha radicato un’idea di proprietà idiosincratica molto forte, da cui scaturisce una volontà di azione strettamente legata all’idea di possesso diretto, per cui mi sento colpito soltanto se un mio bene sta per subire un attacco diretto e violento. Si è persa la nozione di res publica e si è ignorata per troppo tempo quella di comune, a favore dell’egoismo del proprio orticello, contro la tutela delle generazioni future e sotto un velo di diffuso torpore che proprio la campagna referendaria Acqua Bene Comune ha infranto, consegnando alle istituzioni il sostegno di un milione e quattrocentomila persone.
Per queste ragioni, se venisse confermata la data del 12 giugno, ai cittadini - per essere tali - toccherà dimostrare che l’esercizio della democrazia può anche comportare fatiche e che è giusto che i grandi cambiamenti richiedano impegno individuale. Sarà doveroso dimostrare che  la rivoluzione non si può organizzare restando seduti sul proprio sofà e che l’attacco di ciò che è pubblico, altro  non è, in fondo,  che un attentato a ciò che è anche mio.
Alessandra Quarta

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Report incontro consegna firme moratoria a Vicepresidente Camera On. Bindi

Roma, 17 Febbraio 2011
Oggi una delegazione del Comitato Referendario 2 Sì per l'Acqua Bene Comune, costituita da Tonino Mancino, Corrado Oddi, Enzo Vitalesta e Paolo Carsetti ha incontrato la Vicepresidente della Camera dei Deputati On. R. Bindi per consegnare le oltre 20.000 firme a sostegno della richiesta di moratoria sulle scadenze del Decreto Ronchi e della Legge Calderoli, oltre all'elenco degli Enti Locali che hanno approvato atti formali a sostegno di tale richiesta.
E' stata sottoposta all'attenzione della Vicepresidente l'importanza di questa campagna che si pone l'obiettivo di far svolgere i referendum prima che i provvedimenti suddetti abbiano esplicato i loro effetti e ci sia stato l'ingresso massiccio dei privati nella gestione del servizio idrico.
Inoltre è stata anche presentata la proposta che il Comitato sta avanzando rispetto all'accorpamento dell'indizione dei referendum con le elezioni amministrative.
In ultimo è stato richiesto all'On. Bindi, nella sua veste di rappresentante del Partito Democratico, di farsi promotrice all'interno del partito delle istanze del Comitato referendario oltre a far si che il PD prenda una posizione chiara ed esplicita sui referendum.
L'On. Bindi ha dimostrato grande sensibilità per i temi sollevati dai referendum sull'acqua pur rivendicando per il suo partito la necessità di promuovere una legge quadro come quella presentata nei mesi scorsi.
Per quanto concerne la definizione della data dei referendum ha sottolineato che se il Governo avrà la sensibilità di contattare l'opposizione su tale questione, come è prassi consolidata, si farà promotrice delle nostre richieste.
Per quanto riguarda le firme consegnate queste verranno protocollate, verrà fatto un annuncio durante una prossima seduta della Camera e contemporaneamente saranno inviate alla Commissione competente perchè ne prenda visione.

Segreteria Comitato Referendario 2 Sì per l'Acqua Bene Comune

mercoledì 16 febbraio 2011

Il silenzio dei padri


di Claudio Fava
(24 gennaio 2011
)

Non solo il cavaliere, non solo le ragazzine, non solo le maitresse e gli adulatori, non solo gli amici travestiti da maggiordomi, le procacciatrici di sesso, i dischi di Apicella e la lap dance in cantina: in questa storia da basso impero ci sono anche i padri. E sono l’evocazione più sfrontata, più malinconica di cosa sia rimasto dell’Italia ai tempi di Berlusconi. I padri che amministrano le figlie, che le introducono alla corte del drago, le istruiscono, le accompagnano all’imbocco della notte. I padri che chiedono meticoloso conto e ragione delle loro performance, che si lagnano perché la nomination del Berlusca le ha escluse, che chiedono a quelle loro figlie di non sfigurare, di impegnarsi di più a letto, di meritarsi i favori del vecchio sultano. I padri un po’ prosseneti, un po’ procuratori che smanacciano la vita di quelle ragazze come se fossero biglietti della lotteria e si aggrappano alle fregole del capo del governo come si farebbe con la leva di una slot machine… Insomma questi padri ci sono, esistono, li abbiamo sentiti sospirare in attesa del verdetto, abbiamo letto nei verbali delle intercettazioni i loro pensieri, li abbiamo sentiti ragionare di arricchimenti e di case e di esistenze cambiate in cambio di una sveltina delle loro figlie con un uomo di settantaquattro anni: sono loro, più del drago, più delle sue ancelle, i veri sconfitti di questa storia. Perché con loro, con i padri, viene meno l’ultimo tassello di italianissima normalità, con loro tutto assume definitivamente un prezzo, una convenienza, un’opportunità.
Ecco perché accanto ai dieci milioni di firme contro Berlusconi andrebbero raccolti altri dieci milioni di firme contro noi italiani. Quelle notti ad Arcore sono lo specchio del paese. Di ragazzine invecchiate in fretta e di padri ottusi e contenti. Convinti che per le loro figlie, grande fratello o grande bordello, l’importante sia essere scelte, essere annusate, essere comprate. Dici: colpa della periferia, della televisione, della povertà che pesa come un cilicio, della ricchezza di pochi che offende come uno sputo e autorizza pensieri impuri. Balle. Bernardo Viola, voi non vi ricordate chi sia stato. Ve lo racconto io. Era il padre di Franca Viola, la ragazzina di diciassette anni di Alcamo che, a metà degli anni sessanta, fu rapita per ordine del suo corteggiatore respinto, tenuta prigioniera per una settimana in un casolare di campagna e a lungo violentata. Era un preludio alle nozze, nell’Italia e nel codice penale di quei tempi. Se ti piaceva una ragazza, e tu a quella ragazza non piacevi, avevi due strade: o ti rassegnavi o te la prendevi. La sequestravi, la stupravi, la sposavi. Secondo le leggi dell’epoca, il matrimonio sanava ogni reato: era l’amore che trionfava, era il senso buono della famiglia e pazienza se per arrivarci dovevi passare sul corpo e sulla dignità di una donna.
A Franca Viola fu riservato lo stesso trattamento. Lui, Filippo Melodia, un picciotto di paese, ricco e figlio di gente dal cognome pesante, aveva offerto in dote a Franca la spider, la terra e il rispetto degli amici. Tutto quello che una ragazza di paese poteva desiderare da un uomo e da un matrimonio nella Sicilia degli anni sessanta. E quando Franca gli disse di no, lui se l’andò a prendere, com’era costume dei tempi. Solo che Franca gli disse di no anche dopo, glielo disse quando fece arrestare lui e i suoi amici, glielo urlò il giorno della sentenza, quando Filippo si sentì condannare a dodici anni di galera.
Il costume morale e sessuale dell’Italia cominciò a cambiare quel giorno, cambiò anche il codice penale, venne cancellato il diritto di rapire e violentare all’ombra di un matrimonio riparatore. Fu per il coraggio di quella ragazzina siciliana. E per suo padre: Bernardo, appunto. Un contadino semianalfabeta, cresciuto a pane e fame zappando la terra degli altri. Gli tagliarono gli alberi, gli ammazzarono le bestie, gli tolsero il lavoro: convinci tua figlia a sposarsi, gli fecero sapere. E lui invece la convinse a tener duro, a denunziare, a pretendere il rispetto della verità. Tu gli metti una mano e io gliene metto altre cento, disse Bernardo a sua figlia Franca. Atto d’amore, più che di coraggio. Era povero, Bernardo, più povero dei padri di alcune squinzie di Arcore, quelli che s’informano se le loro figlie sono state prescelte per il letto del drago. Ma forse era solo un’altra Italia.

lunedì 14 febbraio 2011

Re: Giorno del Ricordo 2011

Ancora su "Foibe e dintorni", altre fonti di racconto e lettura
[...Archivio documenti storici...]

Luca


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Dal blog Italia rossa
Per una soluzione rivoluzionaria della crisi italiana
Domenica, 11 febbraio 2007 (prima edizione)-

I morti non sono tutti uguali
Ci sono oppressi e ci sono oppressori; aggrediti e aggressori; vittime e boia.
Solo i primi meritano rispetto



Nelle <<Foibe>> vennero gettati gerarchi fascisti e nazisti miliziani e collaborazionisti, oppositori vari. La violenza dei partigiani di Tito contro gli invasori fascisti e nazisti, nonché quella dei partigiani triestini, era legittima; fu reazionaria nei confronti di operai e avanguardie comuniste. L’equiparazione postuma dei morti non supera il passato né elimina le responsabilità. La storia non si cancella. Condanniamo il cordoglio odierno, di fascisti e antifascisti, sui morti delle “Foibe” come manifestazione di revanschismo imperialistico e mettiamo in guardia “esuli” italiani e sloveni confinari sulle mire espansionistiche dell’Italia. (Riceviamo e pubblichiamo)

Istria e Trieste, da luoghi di massacri, debbono ritornare centri di INTERNAZIONALISMO PROLETARIO.

Le “ foibe” non furono né un genocidio del totalitarismo "comunista" (non c’era comunismo né in Russia né in Jugoslavia ed è una bestialità allineare Marx - Lenin con Tito, Stalin, Mao, Pol Pot); né una pulizia etnica né una “folle vendetta“ attuata da gente disperata; né una “barbarie di guerra”; né una “grande tragedia”; né altro di consimili cose sciorinano giornali e televisioni con grande noncuranza o mistificazione degli avvenimenti storici. Le “foibe”, cui ci limitiamo a quelle del 1945, furono una pratica di giustiziazione politica attuata dall’esercito di liberazione jugoslavo contro i nazi-fascisti e i loro accoliti che, che con le loro atrocità e invasione, avevano causato la morte di 1.700.000 persone.
La presenza delle truppe di Tito a Trieste e Gorizia va dal 2 maggio al 12 giugno 1945. In questi quaranta giorni ci furono esecuzioni e deportazioni nei campi di concentramento jugoslavi ma non ci fu alcun genocidio o pulizia etnica. L’esercito di Tito epurò le due città essendo nei suoi piani, avvallati da Togliatti, spostare il confine fino al Tagliamento, ma non operò alcuna eliminazione sistematica in base alla nazionalità. Le direttive ai comandanti sloveni erano di arrestare i nemici e di epurare in base all’appartenenza al fascismo (gli sloveni avevano giustiziato più di 10.000 connazionali perché collaborazionisti ).
Dal novembre 1945 all’aprile 1948 sono state recuperate dai crepacci tra Trieste e Gorizia circa 500 salme. Metà erano di militari metà di civili. Le “foibe” furono quindi la modalità esecutiva di un più vasto repulisti politico operato con metodi sommari e feroci da una armata di liberazione nazionale che tendeva a stabilire la padronanza sul campo prima delle trattative di pace in una zona di confine conteso.
Il P.C.I. triestino ammetteva la tattica delle “foibe” raccomandando ai propri militanti di non sbagliare bersaglio e di colpire dirigenti responsabili del regime fascista e della RSI membri della milizia e della guardia repubblichina collaboratori aperti dei nazisti . Quindi scaraventare l’avversario nei crepacci faceva parte della lotta antifascista ed era una giusta reazione alla violenza nera. Questo il contesto storico di allora. Dal 1992 operano 2 commissioni miste, una italo- slovena, l’altra italo-croata, per ricostruire questi episodi. Non c’è molto da scoprire. I fatti storici a parte i dettagli sono noti.
L’unico capitolo da ricostruire è la distruzione dei reparti più combattivi della classe operaia giuliana e delle avanguardie comuniste ad opera congiunta del nazionalismo titino e dello stalinismo del P.C.I. triestino. Ma non ci aspettiamo niente dalle predette commissioni e esortiamo perciò quanti hanno a cuore l’argomento e la possibilità di farlo di cimentarsi in questa ricostruzione.
Che oggi gli ex partigiani si inchinino davanti le “fobie” in compagnia degli ex fascisti , i quali per quaranta anni ne hanno fatto un vessillo speculando sul dramma dei profughi da loro creato, non ci sorprende affatto. Fascismo e antifascismo sono due facce della stessa medaglia borghese e già nell’89 il P.C.I. di allora aveva deposto i primi fiori alla “foiba” di Basovizza. Ma è un incolmabile atto di ipocrisia sostenere che tutti i morti sono uguali e che la violenza parifica i soggetti. Nossignori. Le repressioni, le atrocità, gli stermini degli imperialisti e degli oppressori non possono essere equiparati alle uccisioni e violenze dei movimenti nazionali né tantomeno a quelli degli oppressi. La persona umana non è un’entità astratta; è una cellula sociale; e ha un posto di serie A-B-C-D a seconda che appartenga a questa o quella classe, in vita e in morte. Quindi si abbraccino pure i nemici di ieri la storia non si cancella.
E’ logico che ogni qualvolta si parla di “foibe” il clima per gli italiani dell’ex Istria si fa più pesante in quanto cresce l’ostilità di sloveni e croati. Certo che la raggiunta unità post-fascista di ex camice nere e di ex partigiani non prelude a nulla di buono. Essa esprime la grande voglia dei gruppi economico-finanziari e militari di ritornare da padroni in queste terre ed è dunque foriera di nuove e più sanguinose avventure.

…I MORTI NON SONO TUTTI UGUALI : CI SONO OPPRESSI E CI SONO OPPRESSORI, AGGREDITI E AGGRESSORI, VITTIME E BOIA . SOLO I PRIMI MERITANO RISPETTO.

Articolo del suppl. al giornale murale di RIV. COM. del 15 settembre 1996, affisso sui muri anche recentemente in provincia di Varese.

---Edizione a cura di---
RIVOLUZIONE COMUNISTA





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giovedì, 15 febbraio 2007

Nella linea di faglia tra Est e Ovest
A Pola xe l’Arena
La Foiba xe a Pisin
Che buta zo in quel fondo
Chi ga certo morbin (1).
(Canto dei giovani fascisti di Pisino, 1919)

Durante e dopo le vicende belliche della Seconda guerra mondiale, Venezia Giulia, Istria e Dalmazia si trovarono stritolate dalla linea di faglia, lungo la quale l’imperialismo anglo-americano si scontrava con il nazionalismo iugoslavo, sostenuto dall’Unione Sovietica.
Il contrasto era inasprito dalla politica razzista nei confronti degli sloveni, condotta dall’Italia dopo l’annessione di quelle regioni, avvenuta nel 1918, e, soprattutto, con l’occupazione della Slovenia dal 1941 al 1943. Furono 25 anni contraddistinti da crescenti violenze che, durante la guerra, assunsero carattere di genocidio(2). Fin dal 1919, i fascisti avevano inaugurato la macabra consuetudine di gettare nelle foibe avversari politici o considerati tali in quanto slavi.
La persecuzione degli sloveni si intrecciò alla repressione contro socialisti e comunisti che, negli importanti centri industriali di Trieste, Fiume, Albona e Pola, vantavano una tradizione di forte impronta internazionalista, fondata su consolidati rapporti tra le differenti nazionalità che, dalla fine dell’Ottocento, connotavano il proletariato di quelle zone, in cui convivevano non solo italiani e sloveni, ma anche ebrei, tedeschi e croati. In tutta la regione, le aggressioni fasciste furono subito estremamente violente: a Trieste il 13 luglio 1920 incendiarono l'Hotel Balkan, sede del Centro culturale sloveno, il 9 febbraio 1921 incendiarono «Il Lavoratore», quotidiano del Partito Comunista d’Italia per la Venezia Giulia e, il 28 febbraio, le Camere del Lavoro di Trieste e dell’Istria. Per tutto il ventennio fascista, il Partito Comunista d’Italia denunciò i soprusi e le persecuzioni contro gli sloveni, mantenendo rapporti non solo con i comunisti slavi ma anche con le tendenze nazionaliste radicali.
La tradizione internazionalista era talmente radicata, che neppure la sanguinaria pulizia etnica fascista era riuscita a distruggerla, aveva comunque posto premesse, che furono poi sfruttate a fondo dai nazionalcomunisti iugoslavi. Ma prima, questi ultimi dovettero eliminare ogni voce di dissenso.
Nel 1942, a Fiume alcuni militanti comunisti, tra cui G. Rebez, avevano costituito un organismo che si definì Partito Comunista Internazionale, sostenendo la lotta di liberazione degli iugoslavi, in particolare del croati, ponendola comunque in una prospettiva socialista. Dopo il 25 luglio 1943, si fecero strada le rivendicazioni slave - di cui si fece portavoce il partito comunista sloveno -, riguardanti, oltre al territorio istriano con Fiume e Zara, anche il litorale sloveno con Trieste e Gorizia. Nell’estate del 1943, la Federazione comunista di Trieste, pur sostenendo l’unità di lotta contro il nazifascismo, avanzò una posizione internazionalista, che contrapponeva il concetto di autodeterminazione dei popoli (enunciato fin dal 1915 da Lenin) alle annessioni per mezzo delle armi. Fautori dell’autodeterminazione erano Luigi Frausin, segretario regionale, Natale Kolarich e Vincenzo Gigante che, nel giro di qualche mese, furono uccisi dai nazifascisti, probabilmente in seguito a delazioni interessate. Con loro scomparvero anche Lelio Zustovich - fucilato nell’ottobre 1943 dai nazionalcomunisti croati -, Pisoni, Silvestri e altri militanti internazionalisti, anarchici, libertari e partigiani disertori delle file di Tito(3). Per evitare l’accusa di nazionalismo, il PCI uscì dal Comitato di Liberazione Nazionale della Venezia Giulia e prospettò - obtorto collo - l’adesione delle province giuliane alla futura Iugoslavia socialista. Compiuta l’epurazione dei dissidenti, i nazionalcomunisti iugoslavi poterono scatenare una nuova pulizia etnica, questa volta contro gli italiani, ricorrendo al metodo fascista delle foibe. Dapprima furono colpite persone più o meno compromesse con il regime fascista, ma presto furono colpiti anche proletari, in un massacro che aveva come unico scopo la pulizia etnica. L’esito fu un clima di accesi odi nazionalisti, in cui il proletariato venne frantumato, perdendo ogni ombra di autonomia politica. Alla campagna xenofoba dei nazionalcomunisti iugoslavi, quelli italiani risposero con una campagna altrettanto xenofoba quando, nel luglio 1948, con una rapida giravolta, il PCI si adeguò al diktat sovietico contro Tito, divenuto «lacché dell’imperialismo USA».
Nell’orrendo gioco al massacro, che per oltre cinque anni sconvolse Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, una delle poche voci fuori dal coro fu il Partito Comunista Internazionalista, presente a Trieste con alcuni militanti scampati alle purghe staliniste e titine, tra cui Francesco Sustersich. Costoro, coerenti con l’orientamento internazionalista, fornirono preziose testimonianze – prive di pregiudizi ideologici - su quanto stava avvenendo, scorgendo sul nascere anche la speculazione democratica che, in tempi recenti, ha saputo sfruttare a proprio vantaggio la denuncia dei massacri allora avvenuti. L’articolo riportato, del 1948, descrive l’operazione che allora i democratici anti-comunisti attuarono nei confronti dei profughi istriani.

Gli sciacalli del C.L.N. dell’Istria a Trieste

"Il problema dell’esodo costante e sempre crescente delle popolazioni dell’Istria, incalzate dalla fame e del terrore titino, costituisce una «vexata quaestio» dalla quale, per ben tre anni, certi enti (autodefinitisi morali) hanno tratto, ma solo per i loro scagnozzi, motivo di esistere.
Infatti, essi sorsero come funghi a Trieste, un po’ dappertutto in Italia, fin dal luglio 1945, con gli ormai famosi appellativi di «C.L.N. dell’Istria e della Venezia Giulia» e con lo scopo precipuo di aiutare in ogni modo e forma coloro che, perseguitati dai nazionalisti di Tito, ne avessero avuto bisogno, ma mostrarono ben presto finalità esattamente opposte a quelle per le quali avevano dichiarato di sorgere e, quel che è peggio, servirono a raccogliere e favorire nel loro misterioso seno i rimasugli sbandati del fascismo, della X MAS e dei collaboratori nazisti, per divenire infine veri e propri covi di vipere unicamente preoccupati di coprire di bava e di veleno gli uomini che avevano combattuto fin dal suo sorgere il regime totalitario.
Ai nostri compagni lettori gioverà tuttavia una premessa atta a porre nella giusta luce, in questo trambusto di idee, le diverse interpretazioni in proposito e gli abusi in virtù dei quali molti oggi riescono a classificarsi «esuli», in Italia, a Trieste e altrove, per trarne adeguati vantaggi. Quattro sono le categorie di esuli che hanno lasciato le terre annesse ed amministrate dagli jugoslavi.
La prima, fuggita in aprile, maggio, giugno 1945, comprendente criminali fascisti, fascistoidi, spie , collaboratori nazisti (tutti di parte italiana) e, fra quelli di parte serba, croata o slovena, ustascia, belogardisti, seguaci di Ante Pavelic, spie al servizio dei fascisti e dei nazisti, i cetnici di Mihailovich, piccole frazioni delle sette non ancora morte, Mano Nera, Mano Bianca, Orjuna, Sokol, Idranska, Straza, Srnao, Narodna Odbrana ecc., aderenti come in passato alla monarchia Karageorgevich (il rimanente ha ingrandito il minestrone titino salvando la pelle e facendo causa comune con lui)(4).
La seconda, fuggita dalla fine del 1945 e tutto il 1946, comprendente capitalisti, strozzini, speculatori, arricchiti di guerra sia di parte italiana che croata o slovena, impediti di continuare i loro lerci affari.
La terza, quella degli affamati operai, pescatori della costa istriana e dalmata, contadini a giornata per la maggior parte di lingua italiana, rovinati dal prelievo degli utensili di lavoro nelle fabbriche e nei cantieri, delle reti da pesca e del macchinario agricolo; fattore determinante, la mancanza di lavoro.
La quarta, i nostri compagni che, ingenuamente sfruttati per ragioni di lotta che non erano le loro, si sono visti colpiti fra i primi.
Ora se, per le prime due, i vari C.L.N. versano lacrime di coccodrillo, per le altre non lesinano l’umiliazione, gli insulti e l’affamamento.
Insediatisi su comode poltrone imbottite, dietro ad ampi tavoli preparati dalla combutta clericaloide-massonico-capitalistica sperante di sopravvivere per merito loro, questi signori, pupazzetti di pane eternamente condizionato ed autoclassificatisi «insostituibili polmoni di una vasta attività politico assistenziale a favore degli “esuli”», iniziarono ben presto la loro subdola attività all’ombra di sicuri ripari. Fra i tanti che sorsero, quello di Trieste, possiamo ben dire senza tema di smentita, che sia risultato il campione. Liberatosi degli elementi più onesti e in buona fede, che avrebbero potuto in seguito divenire un intralcio a tanto «umanitaria opera» (sic!) gli attuali dirigenti scelsero tra gli affamati esuli quelli che, meno scrupolosi ma più addomesticabili, avrebbero meglio servito gli scopi che i loro padroni perseguivano, La prima preoccupazione era quindi di allontanare, attraverso l’intimidazione, la diffamazione e la calunnia i nostri compagni, che troppo bene li conoscevano ed avrebbero potuto smascherarne il tristo passato rovesciandoli dai ben remunerati cadreghini. Molti sono i compagni che, costretti a lasciare la casa sotto le minacce, hanno dovuto cercare asilo in Italia e particolarmente a Trieste, non senza aver prima conosciuto il carcere dell’occupatore jugoslavo che, come quello fascista, accarezza col velario della morte i più recalcitranti. Ed è proprio contro questi compagni, i più cari perché i più colpiti, che si è scagliata e si scaglia tuttora la canea parassitaria degli autentici «dell’ora sesta», col preciso scopo di avvilirli ed affamarli addebitando loro colpe e responsabilità che vanno unicamente addossate agli stessi accusatori, causa di tutte le cause. Per questa categoria di esuli non esiste aiuto a Trieste."
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"Considerati dai titini nemici acerrimi (e ciò fino dal maggio giugno 1945) perché non «timidi botoli della verga staliniana» respinti e senza possibilità di chiarire le loro posizioni, a Trieste, li si accusa oggi d’essere filo-slavi e titini e gli si impedisce di parlare quando ancora non li si accusa sottovoce d’infoibamenti. Ma i signori del fantoccio dalle inconcludenti mozioni all’O.N.U., che si fa chiamare C.L.N. dell’Istria, con sede a Trieste, sanno troppo bene che i vari colleghi del C.L.N. della Venezia Giulia – coi quali dividono gli abbondanti emolumenti del governo italiano (sudore proletario) – non hanno alcuna responsabilità degli infoibati triestini dei sempre deprecatissimi 40 giorni, ciò che confermerebbe la loro esistenza da talpe, per cui si guardano bene dal parlarne anche lontanamente. Noi, però, con la bontà che ci distingue, vogliamo sperare che gl’infoibatori siano statati i neozelandesi. Forse il futuro ce lo dirà, perché diversamente, alle mal riposte fiducie nei vari C.L.N. pullulanti in Italia, dovremmo, nostro malgrado, aggiungere quelli di Trieste e riconoscere che se qualche fabbricante di scope locale non è riuscito coi suoi superprodotti a pulire quanto di sporco c’era dentro, nonostante la nobile presenza di qualche reverendo callo della Lega o della Banca d’Italia, per risolvere la «vexata quaestio» (la quale a chi ha bisogno di mangiare non interessa affatto) non c’è che il piccone demolitore.

L’era del doppio giuoco e dei pesi a due misure deve finire. Per ora punto; e fra breve da capo."
(Aro), «Battaglia Comunista», n. 32, 22-29 settembre 1948.
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(1) "A Pola c’è l’Arena, a Pisino c’è la foiba: in quell’abisso vien gettato chi ha certi pruriti." Lo squadrista istriano Giorgio Alberto Chiurco, nella sua Storia della rivoluzione fascista (Vallecchi Editore, Firenze, 1929) si gloria di un’orrenda serie di violenze, tra cui l’infoibamento di slavi e antifascisti italiani. Cfr. Giacomo Scotti, Foibe e foibe, «Il Ponte della Lombardia», n. 2. febbraio/marzo 1997, numero speciale.

(2) Cfr. Costantino Di Sante (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre Corte, Verona, 2005; Raoul Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (1938-1956), Del Bianco, Udine, 1999.

(3) Foibe. Il macabro trionfo dell’ideologia nazionalista, Edizioni Prometeo, Milano, 2006.

(4) In questo coacervo di organizzazioni reazionarie, ebbero importanza, in Croazia gli Ustacia di Ante Pavelic e in Serbia i Cetnici del generale Draza Mih
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venerdì, 10 febbraio 2006
Foibe: tra fascismo e revanscismo (sloveno e croato)
Ricordo senza memoria


La memoria non è semplice ricordo: non può essere elencazione di fatti, richiede elaborazione. E, soprattutto, non accetta le semplificazioni, di cui si nutre la propaganda. (Gabriele Polo)
Se poi si tratta della memoria di un secolo come il 900 - così aspro e duro - la ricostruzione di una memoria comune non può isolare le singole tragedie - e ce ne sono tante - facendo finta che ognuna sia indipendente dall'altra. Così si celebra, non si fa capire; e alla fine quella celebrazione suona come estranea a chi non è stato parte in causa. Ieri il Presidente della Repubblica ha ricordato solennemente le vittime italiane delle foibe e l'esodo forzato dall'Istria e dalla Dalmazia: alcune migliaia di persone uccise nell'immediato dopoguerra durante l'occupazione jugoslava di Trieste, decine di migliaia di donne e uomini che abbandonarono le proprie case sotto la pressione del revanscismo sloveno e croato. Ciampi nel far ciò ha condannato il nazionalismo e l'odio etnico. Giusto. Peccato che il Presidente non abbia speso una parola contro ciò che stava alla radice di quell'odio: l'espansionismo fascista - con relative stragi - sul confine orientale. E, prima, la furibonda campagna di italianizzazione delle popolazioni slave durante il ventennio.
Chiunque sia nato tra Trieste e Gorizia sa che prima del fascismo quel confine non esisteva, né sulla carta, né soprattutto nelle menti e nella vita quotidiana di chi lì viveva. Italiani, sloveni, croati si mescolavano, facevano gli stessi lavori, abitavano le stesse case, venivano sepolti negli stessi cimiteri. L'uno a fianco dell'altro. Il confine è venuto dopo e anche se non c'era sulla carta geografica, cresceva nel razzismo istituzionale del regime italiano. Poi vennero la guerra e le persecuzioni, i campi di detenzione per i civili jugoslavi, le stragi, i paesi bruciati. Un odio militarmente praticato che si rovesciò nella rappresaglia delle foibe e nell'esodo finale. Tutto questo è stato rimosso dal Presidente della Repubblica. Che insieme alla storia deve aver anche dimenticato di rispondere all'invito fattogli più volte di visitare l'isola di Arbe, sede del principale campo di concentramento italiano per civili jugoslavi. Ma, forse, ci vorrebbe memoria, non un semplice ricordo.
(Manifesto, 9.2.06)
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Italiani in Jugoslavia, cosa leggere per saperne di più

Il primo libro da consultare è «Dossier Foibe» di Giacomo Scotti, Piero Manni Editore (pp. 2005, 16 euro): è probabilmente il testo più esauriente sui venti anni di squadrismo in quelle terre che prepararono il doloroso periodo delle foibe. Ricchissimo di riferimenti alla memorialistica e agli epistolari.
Specificamente sulla questione dell'esodo degli italiani dall'Istria, Raoul Pupo «Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe», l'esilio, edito da Rizzoli nella collana Rizzoli storica (pp 333, 18 euro).
Un altro testo, anche questo fondamentale, «Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951)», a cura di Costantino Di Sante per le edizioni Ombre Corte (pp 270, 18 euro), dove si illustra con una dovizia incredibile di documenti il fatto che per le stragi commesse dai fascisti i governi italiani del primo dopoguerra respinsero ogni atto processuale che arrivava dalla Jugoslavia e che metteva sotto accusa i misfatti dello Stato maggiore italiano.
Per finire, ma certo non per ordine d'importanza, Angelo Del Boca con la sua ultimissima fatica: «Italiani, brava gente», Neri Pozza editore (pp 318, 16 euro) dove appare evidente che il buco di memoria non riguarda certo soltanto il fronte Balcanico, ma esperienze storiche quasi cancellate, come la ferocia dell'Italia coloniale in Libia e in Abissinia.
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La disinformazione strategica su "foibe" ed "esodo" e il neoirredentismo italiano

” Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.”
(Benito Mussolini a Trieste, 1920)

... c'erano state, non dimentichiamolo, decine di migliaia di vittime dell'occupazione italiana dal 1941 al 1943,
e in quello stesso triste 1943, dal 4 ottobre in poi, ci furono le vendette dei fascisti.
Che massacrarono 5000 civili e ne fecero deportare altri 17 mila, con le rappresaglie del reggimento «Istria» comandato da Italo Sauro e da Luigi Papo da Montona, della guardia nazionale repubblicana (poi milizia territoriale), della Decima Mas di Borghese operante con compagnie agli ordini di nazisti a Fiume, Pola, Laurana Brioni, Cherso, Portorose, della compagnia «mazza di ferro», comandata da Graziano Udovisi,
della Brigata nera femminile «Norma Cossetto» presso Trieste, della VI brigata nera Asara e altri reparti. Si macchiarono di tali crimini che la loro ferocia fu denunciata persino dal Gauleiter Rainer, il quale chiese ufficialmente, con un telegramma al generale Wolff, il ritiro della Decima Mas dalla Venezia Giulia a fine gennaio 1945.
Nel documento si parla di «una moltitudine di crimini, dal saccheggio allo stupro», dalle stragi di massa agli incendi di interi villaggi...
(Giacomo Scotti su Il Manifesto dell'11 febbraio 2009)

venerdì 11 febbraio 2011

Giorno del Ricordo 2011

...ne hanno parlato fino alla nausea negli anni novanta durante i governi dell’Ulivo. “Basta con la storia a senso unico della sinistra, commemoriamo le foibe”, sostenevano gli esponenti ex missini. Ne hanno fatto una bandiera, soprattutto nelle scuole e nelle università. Ma oggi, nonostante 10 anni quasi ininterrotti del governo della destra, in pochissimi sanno cosa sono queste benedette foibe.
Con il graduale collasso della RSI e con i tedeschi in ritirata nel nord Italia, tra il 1943 e il 1945 da est si presentò un nuovo pericolo per il popolo italiano: l’avanzamento delle truppe partigiane jugoslave capitanate da Tito. Pola, Fiume, e Trieste caddero nelle mani slave. Questa nuova occupazione comportò una serie di epurazioni formalmente non basate sull’etnia ma sull’aderenza al fascismo. Così, migliaia di italiani (civili inermi, carabinieri, finanzieri) e centinaia di tedeschi furono gettati, spesso vivi, all’interno di grotte verticali, tipiche del terreno carsico delle province di Trieste e Gorizia. Fu l’ultimo atto barbaro di una guerra che aveva visto carnefici e vittime alternarsi lungo la linea del tempo.

Nonostante rappresenti uno dei fatti, per lo meno a livello simbolico, rappresentativi della barbarie di quella folle guerra, questa tragedia è stata completamente rimossa dalla memoria collettiva. I motivi sono tanti, molteplici, non chiari, e non possiamo qui approfondirli. La tragedia delle foibe è riemersa attraverso l’impegno politico di Alleanza Nazionale che ha invocato una giornata per ricordarla, oltre alla richiesta di inserirla nei programmi scolastici.
Se il 10 febbraio è diventato il “giorno della memoria”, sui libri di scuola ancora non se ne trova traccia. Eppure qualche ex missino le ha paragonate addirittura alla Shoah. Difficile fare un confronto: nelle foibe sono morte circa 7mila persone, molti dei quali appartenenti al partito fascista di un paese considerato dagli slavi invasore, mentre nelle camere a gas naziste sono morti 6 milioni di ebrei, colpevoli solo di essere ebrei.

Le foibe, rispetto al contesto generale, sono state un fatto del tutto marginale, ma certamente molto “italiano”. Per questo hanno comunque diritto alla memoria, come avrebbero diritto alla memoria decine di migliaia di uomini etiopi e libici giustiziate nei campi di prigionia durante il periodo coloniale italiano, e la pulizia etnica attuata dal regime fascista nella provincia di Lubiana (oggi Slovenia). Perché è giusto commemorare i nostri morti ma è ora di riconsiderare quella teoria per la quale: “Italiani, brava gente”.

Paolo Ribichini, Diritto di Critica
 
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A proposito di “Martiri delle foibe”

di Claudia Cernigoi


Dopo tanti anni da quando ho iniziato a fare ricerca storica sulle foibe (cioè dal 1995), dopo tutta la documentazione che ho analizzato e tutte le cose che ho pubblicato (e che nessuno storico serio, finora, ha smentito), quando sento ancora parlare di diecimila “infoibati”, di migliaia di “martiri delle foibe”, non so se mi sento più arrabbiata o più demoralizzata. Perché, mi domando, una ricerca storica seria deve venire snobbata, ignorata, vilipesa, mentre si prosegue a parlare a sproposito di certi argomenti, solo per mantenere viva la propaganda anticomunista ed antijugoslava, sostanzialmente per rivalutare il fascismo?
Un esempio per stigmatizzare la situazione di disinformazione storica nella quale ci troviamo. A novembre, su segnalazione del Comitato antifascista e per la memoria storica di Parma, che ha elevato una protesta riguardo all’intitolazione in quella città di una via ai cosiddetti “martiri delle foibe” (termine che per la sua genericità e vaghezza di definizione necessiterebbe di un’analisi di svariate pagine, ma su cui tornerò più avanti), sono andata a vedere il forum di Alicenonlosa (http://www.alicenonlosa.it/aliceforum/) e di fronte a tanta (peraltro spocchiosa e saccente) ignoranza relativamente ai fatti storici di cui si pretende di parlare, mi sono davvero cadute le braccia.
Leggere di “almeno diecimila” infoibati, di “compagni del CLN” gettati nelle foibe, di paragoni tra Tito e Pol Pot, così come insulti al presidente Pertini, e citazioni fuori tema su Goli Otok (che fu campo di prigionia, orribile fin che si vuole, ma destinato ad oppositori interni e non c’entra per niente con le “foibe”), il tutto per rispondere all’equilibrata e documentata presa di posizione del Comitato antifascista e per la memoria storica mi ha fatto riflettere sul senso che ha cercare di fare ricerca storica circostanziata se poi quello che continua ad essere diffuso sono stereotipi di falsità e propaganda.
Uno dei vari anonimi polemisti, quello che cita i “compagni del CLN” infoibati, dopo avere parlato di “diecimila” vittime, fa i seguenti nomi: Norma Cossetto, i sacerdoti don Bonifacio e don Tarticchio, le tre sorelle Radecchi, i tre componenti della famiglia Adam. Nove persone. Punto. Dove don Tarticchio, Norma Cossetto e le tre sorelle Radecchi furono uccisi nel settembre 1943 in tre distinte località dell’Istria nel corso del conflitto; don Bonifacio scomparve nel 1946 e non si sa che fine abbia fatto, ma visto che è scomparso nel nulla, dice la propaganda, ovviamente è stato “infoibato”; la famiglia Adam, di Fiume, che faceva parte del CLN filo italiano che nell’estate del 1945, quando Fiume era passata sotto sovranità jugoslava operava per riannettere la città all’Italia, in barba a tutti gli accordi tra Alleati, fu arrestata appunto per questa attività eversiva, e non vi è prova che qualcuno dei tre sia stato “infoibato”.
Ed i “compagni” del CLN di cui parla l’Anonimo (diamogli una dignità di nome proprio con un’iniziale maiuscola) chi sarebbero? Non certo coloro (una ventina) che furono arrestati durante l’amministrazione jugoslava di Trieste perché organizzavano attentati dinamitardi contro l’autorità esistente, che amministrava Trieste in quanto potenza alleata; né i tre membri del CLN arrestati per essersi appropriati dei fondi della Marina militare della RSI pur di non lasciarli in mano agli jugoslavi, due dei quali furono rilasciati un paio di anni dopo, mentre il terzo, già malato al momento dell’arresto, morì in prigionia un anno dopo.
Si possono poi considerare “martiri” i membri dell’Ispettorato Speciale di PS che furono arrestati e condannati a morte dal tribunale di Lubiana, perché colpevoli di essersi macchiati di azioni criminali, come Alessio Mignacca, che picchiò una donna arrestata fino a farla abortire, ed uccise almeno tre persone che cercavano di sfuggire all’arresto, sparando contro di loro?
Si potrebbe continuare a lungo con questi esempi, ma il discorso da fare è, a mio parere, un altro, e ritorno sulla questione della definizione “martiri delle foibe”. Innanzitutto la maggior parte di coloro che vengono così indicati non furono veramente uccisi e poi gettati in una foiba: in parte si tratta di prigionieri di guerra morti durante la detenzione (così come accadde in altri campi di detenzione gestiti dagli Alleati, ad esempio in Africa), in parte di arrestati perché accusati di crimini di guerra o di violenze contro i prigionieri (vedi il caso di Mignacca sopra citato, ma anche quello di Vincenzo Serrentino, giudice del Tribunale speciale per la Dalmazia, che mandò a morte moltissimi innocenti) e condannati a morte dopo un processo. Coloro che finirono nelle foibe furono per lo più vittime di regolamenti di conti o di vendette personali, così come Norma Cossetto, così come don Tarticchio, sul quale gravava il sospetto che fosse un informatore dell’Ovra.
Intitolare strade a generici “martiri delle foibe” significa non rendere giustizia a nessuno, tantomeno alle vittime innocenti, serve solo ad eternare la polemica sulla “ferocia slava” che voleva operare una pulizia etnica contro gli italiani nella Venezia Giulia (teoria nazionalfascista che nessuno storico degno di questo nome ha mai avallato).
L’analisi di cui sopra è stata inviata, sempre a novembre 2010, al Comitato antifascista e per la memoria storica di Parma, quale contributo di solidarietà al loro lavoro di informazione per la conoscenza della storia. Non so se l’intervento è stato pubblicato da qualche testata parmense, ma ritengo ora, a ridosso del Giorno del ricordo del 10 febbraio, di diffonderlo più ampiamente, in vista di quanto verrà detto e scritto sull’argomento.