mercoledì 5 gennaio 2011

Battisti e gli intellettuali francesi

Battisti e la Francia, l'ignoranza militante
di BARBARA SPINELLI
 

La lettera più difficile, più scabrosa, Bernard-Henri Lévy avrebbe dovuta scriverla non al Presidente Lula ma, informandosi sulla storia italiana, al Presidente Napolitano. Non mi consta l'abbia fatto. Il gesto più difficile e scabroso sarebbe stato quello di visitare, oltre a Cesare Battisti, le sue vittime. Non mi consta abbia fatto neanche questo. Né che abbiano fatto cose simili Philippe Sollers, Daniel Pennac, Fred Vargas, e i tanti francesi che guardano all'Italia come a un paese di scimmie, privo di magistrati dignitosi: bellissimo e incivilissimo, diceva Stendhal.

I francesi in questione sono esteti e assai selettivi: contro la mafia o la cultura dell'illegalità dilatata da Berlusconi, mai alzano la voce.

Usiamo la parola scabroso perché letteralmente deriva da scavare, cercare sotto la superficie. Con le sue dichiarazioni giubilanti e la lettera a Lula, Lévy pensa d'aver pensato, chiude il ragionamento in un boccale come una pietanza che si riscalda di tanto in tanto. Non ha preso neppure una pala, per smuovere la terra alla maniera in cui Rilke, meditando il buio, "ascolta come la notte s'inconca e s'incava". Danza sulla superficie, imbocca le vie più facili presumendole anticonformiste. Crede di cantare fuori da un coro. Azioni del genere screditano gesti compiuti da lui e altri: in Bosnia, Cecenia, Ruanda. L'accostamento del volto di Sakineh a quello di Battisti, sul suo sito, è empietà. Mostra un'incapacità radicale a comprendere il male inflitto all'innocente. Non è il vero sofferente che interessa, quando il fascino esercitato da un assassino è così trascinante, compiaciuto. André Glucksmann, vicino a Lévy, non ha mai cantato in questo coro.
Battisti non è neppure un terrorista, per chi lo sostiene. Lévy lo chiama un "ancien enragé divenuto scrittore". Gli enragés (letteralmente: "gli arrabbiati") furono i più estremisti nella Rivoluzione francese. Philippe Sollers lo battezza "eroe rivoluzionario". Altri, citando Céline, confutano i verdetti emessi contro "un uomo senza importanza collettiva, un semplice individuo", come se la giustizia concernesse altro che l'individuo. Il solo esser divenuto scrittore lo trasfigura, l'assolve. Lo tramuta in intellò, come se il titolo bastasse per issarlo all'altezza di Zola e di chi, tra il 1895 e il 1906, difese il capitano Dreyfus.
Il fatto, sempre che i fatti contino, è che Battisti non è solo un intellò. Fu un criminale comune fino a quando per comodità si mascherò da rivoluzionario, aderendo ai Pac (Proletari Armati per il Comunismo).
Scappato dal carcere, fu condannato in contumacia per aver ucciso tre uomini e concorso a un quarto omicidio, fra il '78 e il '79, e nei tre gradi di giudizio fu assistito da avvocati da lui istruiti. Nell'81 era fuggito a Parigi profittando della dottrina Mitterrand, abiettamente travisata. In realtà il Presidente fu chiaro, quando l'espose il 22 febbraio e il 20 aprile '85: l'asilo offerto escludeva tassativamente "chi si era macchiato di crimini di sangue" o di "complicità evidente in vicende di sangue", e riguardava i fiancheggiatori dissociati dal terrorismo.

Gli intellettuali mobilitatisi per Battisti si immaginano eredi non solo dei dreyfusardi ma dei moralistes francesi vissuti fra il '500 e il '700. I moralisti non facevano la morale ma descrivevano la storta natura dell'uomo, a cominciare dalla propria, con impietosa ironia. Penso a Montaigne, La Rochefoucauld, Pascal, Vauvenargues, Chamfort. Nei pretesi loro eredi non è mancato questo sguardo spietato e anticonformista, quando hanno fustigato il proprio esser comunisti: i "nuovi filosofi" hanno capito Solženicyn assai prima degli italiani, dei tedeschi. Ma uno strabismo singolare li affligge: ben più arduo, se non impossibile, è approfondire ancor più l'esame di sé. Quando maneggiano il concetto di rivoluzionario o di intellettuale, l'acume diminuisce. Aver ghigliottinato un re è motivo immutato d'orgoglio, che li rende superiori a ogni europeo.

Anche l'universalismo, di cui i francesi si vantano, li rende ciechi ai propri limiti, incapaci di apprendere. Il loro contributo all'unione europea è un impasto di universalismo decorativo e nazionalismo effettivo. Ci sono princìpi a tal punto sacralizzati da ossificarsi e perire come stelle che per noi brillano nonostante siano morte da tempo. Molte dispute intellettuali avvengono tra francesi. Non parlano all'Europa né al mondo, verso i quali l'ignoranza è spesso abissale.

È l'ignoranza militante che provai a descrivere il 14 marzo 2004 su Le Monde, in una lettera aperta su Battisti agli amici francesi, ma si sa che le parole informative non servono quando non si vuol sapere e si vive nel performativo (basta che io dica una cosa e la cosa è, anche se contraddetta dai fatti). Quel che si vuol ignorare è come funziona la giustizia in Italia, la sua indipendenza ben più solida che in Francia, la lotta che i magistrati conducono contro la mafia, la corruzione, la politica ridotta a lucro privato. È un'ignoranza non ingenua ma attivisticamente coltivata. Ebbe forme analoghe anche nel '68: un '68 che i francesi, più saggi, hanno saputo frenare prima che degenerasse in terrorismo. Essendosi tuttavia fermati in tempo, nulla sanno dei suoi baratri, del valore della legalità. Non a caso parlano lo stesso linguaggio di tanti marxisti finiti con Berlusconi. Lo spirito libertario del '68, lo hanno stravolto facendosi libertini. Il disprezzo delle istituzioni, della Costituzione, della magistratura, accomuna perversamente tanti intellettuali francesi e Berlusconi: stessi attacchi ai giudici e ai "teoremi giudiziari", stesso istinto a parlare di Battisti come di un accusato o un capro espiatorio e non di un condannato. Non stupisce che qualche mese fa Berlusconi abbia confidato a un ministro: "Battisti è un personaggio orribile, e non capisco perché dovremmo fare i salti di gioia alla prospettiva di doverlo mantenere noi per anni nelle nostre galere".

Rivolgendosi agli italiani, Lévy ci invita a "voltare la pagina degli anni di piombo", o almeno a pensarli "senza passione, con equità, evitando la terribile logica del capro espiatorio". È una solfa che gli italiani conoscono: meglio voltar le pagine del fascismo, delle stragi, di Mani Pulite, dell'omicidio di Falcone, Borsellino, delle loro eroiche scorte. Ma le pagine si voltano ricordando e facendo giustizia (la clemenza viene dopo i verdetti), altrimenti restano lì, infezione letale. Oppure le si gira e basta, come fanno gli scemi o gli arruolati dell'Ignoranza, due categorie così affini. Persino Gesù faticava, con gli stupidi. C'è un suo detto islamico, citato da Sabino Chialà, che confessa: "Gli storpi li ho guariti, i ciechi pure. Con gli stupidi non sono riuscito" (I detti islamici di Gesù, Mondadori). Di ignoranza militante e ebete non abbiamo bisogno che venga da fuori: ne abbiamo già tanta in casa. L'amalgama creatosi fra terrorismo, mafia, corruzione, sprezzo della magistratura: non è una vecchia pagina da voltare. È il presente limaccioso che viviamo.
Tutte queste vicende i francesi non le capiscono. Pur avendo compiuto la rivoluzione e chiamato ogni uomo allo stesso modo  -  citoyen  -  lo spirito di casta è tenace. Se sei un intellettuale hai speciali immunità, anche se hai ammazzato tua moglie come il filosofo Althusser. Già Tocqueville trovava intollerabile la mistura francese tra politici e letterati.

Fa parte dell'astrattezza letteraria (la più obbrobriosa forse) considerare gli ex terroristi come sconfitti, vinti dalla storia. Sconfitto è chi esce battuto essendo stato un combattente, regolare o guerrigliero, o un vero enragé. Gli si deve rispetto: con lui si ricostruirà un ordine. Gli anni di piombo non sono stati una guerra civile. Sono stati una storia criminale, come gran parte della storia italiana.
(La Repubblica, 05 gennaio 2011)

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.