sabato 21 ottobre 2006

AL REVES: le nuove frontiere dell’America latina



Dal neoliberismo al “socialismo del XXI secolo”, realtà o utopia?

Da quando, agli inizi dell’Ottocento, fu concepita la “Dottrina Monroe”, gli Stati Uniti iniziarono ad esercitare una politica estera molto aggressiva nei confronti dei loro vicini sudamericani. Nel secolo scorso cavalcando il celebre slogan “l’America agli americani”, la nazione “culla della libertà” si arrogava il diritto di annettersi Porto Rico, occupare il Canale di Panama, installare dittature militari nel Cono Sud, combattere con mezzi sporchi una guerra illegale e mai dichiarata contro il Nicaragua sandinista, ed infine addestrare nelle sue strutture militari migliaia di torturatori esperti in operazioni di controinsorgenza.
Dopo il crollo del socialismo reale nell’Europa dell’Est e il conseguente indebolimento dei movimenti progressisti e rivoluzionari in tutto il mondo, le dittature militari che si erano insediate in America latina per salvaguardare gli interessi degli Stati Uniti (e dei poteri economico-finanziari) hanno lentamente segnato il passo in favore di forme di governo più presentabili, le cosiddette “democrature” - secondo la nota definizione coniata dallo scrittore Eduardo Galeano.
Se tali trasformazioni sono state determinanti a livello politico, il processo forse più significativo degli anni 80 e 90 è stato il graduale consolidamento dell’economia di mercato. Più di vent’anni di neoliberismo hanno provocato localmente il declino dell’agricoltura e della piccola industria, nonché una significativa perdita di posti di lavoro con ricadute negative sul piano sociale ed umanitario. Questo lento genocidio economico è oggi la principale causa dell’umiliante livello di povertà di quasi i 3/4 della popolazione latinoamericana e del progressivo impoverimento delle sue classi medie.
Nonostante i disastri sociali, politici ed ambientali collezionati negli ultimi anni da quei governi (di destra come di “sinistra”) che hanno messo in pratica i dettami economici di un capitalismo selvaggio e cannibale, ancora oggi molti Stati si lasciano cooptare dalle imprese transnazionali e dai massimi poteri finanziari, il FMI e la Banca Mondiale. “La vera posta in gioco in America Latina – osserva James Cockroft sul periodico “Rebelion” – è l’esercizio della sovranità nazionale per il controllo delle risorse fondamentali come il petrolio, il gas e l’acqua, la biodiversità, l’educazione, la sanità, i trasporti e la previdenza sociale, i settori bancario ed industriale. I movimenti sociali protestano oggi contro la privatizzazione delle fonti naturali, contro la mercificazione della vita e la logica dello sfruttamento imposte dalla globalizzazione neoliberista, insieme all’ingiunzione del pagamento del debito estero ereditato dalle dittature.” *
La svolta “a sinistra” delle ultime tornate elettorali, che hanno visto le popolazioni coinvolte eleggere candidati di tendenza progressista (è il caso di Kirchner in Argentina, di Tabaré Vazquez in Uruguay e di Michelle Bachelet in Cile), si spiega facilmente con il fallimento delle destre neoliberali che in poco più di una decade hanno fatto crescere a dismisura la povertà e l’esclusione sociale. Molti tra i neoeletti capi di governo, decisamente titubanti nei confronti dei Trattati di Libero Commercio e del fondamentalismo del mercato, continuano – loro malgrado – a contribuire al mantenimento del moribondo modello liberista. Il loro atteggiamento ambiguo si deve soprattutto alla “debilitazione del potere statale dovuta ai processi di privatizzazione dell’economia, ai nuovi accordi commerciali e al pagamento del debito estero. Tutto ciò ha lasciato molti governi in una situazione di estrema vulnerabilità e gli ha esposti al ricatto del capitale straniero.” *
Evidentemente però, i casi appena citati non valgono come esempio per le esperienze di governo in corso in Venezuela e Bolivia. In queste due nazioni la politica economica intrapresa dai rispettivi mandatari, Hugo Chavez ed Evo Morales, va decisamente in controtendenza. Rifiutando l’idea che possa (ri)sorgere un tipo di liberismo moderato e dal volto umano, i due Paesi andini hanno optato per un cammino di riforme rivoluzionarie basate sull’appoggio dello Stato alle istanze della popolazione e dei movimenti sociali. Morales invoca un socialismo comunitario fondato sulla reciprocità e la solidarietà, mentre da Caracas il presidente Hugo Chavez porta avanti il suo singolare progetto di “Alternativa Bolivariana per l’America latina” (ALBA), primo passo verso la costruzione del “nuovo socialismo del XXI secolo” perché, come suole ripetere lo stesso Chavez, “non esiste un altro mondo possibile in seno al capitalismo.”
La proposta alternativa all’attuale modello economico-sociale dominante suscita sempre più interesse in ogni angolo dell’America latina. Recenti sondaggi realizzati in Brasile e Venezuela mostrano che più della metà degli abitanti delle due nazioni si dicono favorevoli al passaggio ad un sistema più “socialista”, purché ciò non comporti la riassunzione di vecchi modelli del passato (vedi le tragiche esperienze dell’Europa dell’est). 
Il nuovo “socialismo sudamericano” si ispira al fondamentale principio dell’integrazione dei popoli e delle culture; un obiettivo che si può cogliere - secondo molti - soltanto attraverso la creazione di una confederazione di Stati fondata su basi solidali e cooperative. Dal dibattito attorno a questo tema emergono molteplici idee sul come realizzare l’ambizioso progetto. Tutte sembrano convergere su quattro punti in comune:
1)      Il primato dei valori umani. L’impegno di porre fine al patriarcato, al razzismo, al sessismo, allo sfruttamento di classe e al genocidio; opponendo a tutto ciò il rispetto del prossimo e la giustizia sociale.
2)      L’organizzazione partecipativa, distante da ogni autoritarismo di tipo stalinista, fondata sulla pianificazione in differenti livelli […] e sul principio della partecipazione popolare dal basso, in sostituzione della “partitocrazia” e dell’ “avanguardismo”.
3)      L’impronta internazionalista. […] Difesa comune dei popoli contro il neoliberismo e le aggressioni dell’imperialismo, attraverso la creazione di organizzazioni sovrastatali che promuovano la pace e il rispetto dei diritti umani, e nelle quali venga abolito il diritto di veto.
4)      La difesa della sovranità nazionale, dei principi di non-intervento e di autodeterminazione dei popoli […], in linea con gli ideali a cui si sono ispirati José Martì pensando a “Nuestra America”, e Simon Bolivar a “la gran patria.” *
Se il sistema neoliberista è giunto ormai al crepuscolo, come sembrano confermare gli sconquassi degli ultimi anni, la marcia del Nuovo Mondo verso altri orizzonti di civiltà è appena all’inizio del suo impervio cammino.

Andrea “Chile” Necciai


 

Note:
* “Le sfide dell’America latina all’imperialismo” di James D. Cockroft - Rebelion.

sabato 19 agosto 2006

AL REVES: le mani su Cuba



Torna in auge il più folle dei progetti di G.W. Bush.  

Il 20 maggio del 2004 il presidente Bush annunciò con grande clamore di aver messo a punto un piano infallibile per abbattere l'odiato regime castrista e gettare così le basi per una futura “annessione” di Cuba. La divulgazione del documento, che risultava essere composto da più di 450 pagine, scatenò sulle prime una pioggia di critiche all’indirizzo del suo incauto autore, per piombare subito dopo nel dimenticatoio.
Dopo più di due anni di imbarazzante silenzio sul tema, ecco riapparire sul sito del Dipartimento di Stato americano, in data 20/6/2006, l’estratto di un nuovo “progetto” per la dissoluzione di Cuba, che alcuni media di Miami (molto vicini agli interessi della comunità anticastrista locale) hanno già ribattezzato, enfaticamente, “borrador”. In questo nuovo documento vengono annunciate nuove e più severe misure “per accelerare la caduta della Cuba socialista”.
Per raggiungere finalmente lo scopo tanto agognato, cioè porre fine a quasi cinquant’anni di rivoluzione cubana, il governo nordamericano - seguendo i suggerimenti del “Piano Bush” - dovrà percorrere tre fondamentali linee d’azione:
1)      Ulteriore inasprimento del blocco economico, probabilmente attraverso un irrigidimento della già “asfissiante" legge Helms-Burton;
2)      Aumento dei finanziamenti a favore dei gruppi di dissidenti politici (e di mercenari-terroristi) che operano all’interno e al di fuori della nazione cubana;
3)      Intensificazione della campagna di propaganda e disinformazione, per delegittimare il regime castrista ed aumentarne il discredito soprattutto a livello internazionale.
Secondo il “Piano Bush” una volta raggiunto il controllo dell’isola, il necessario processo di transizione dal sistema socialista al nuovo “capitalismo dei Caraibi” sarà affidato ad una specie di governatore generale, con funzioni analoghe a quelle di Paul Bremer (l’ex amministratore dell’Iraq occupato), investito del pomposo incarico di “Coordinatore della ricostruzione di Cuba”.
Il nuovo burocrate - che pare sia già stato nominato (!), confidando evidentemente nelle più rosee previsioni circa l’esito di un’eventuale invasione - si dovrà occupare innanzitutto della restituzione agli antichi possessori di tutte le proprietà confiscate dalla Rivoluzione dopo il 1959, con conseguente sfratto di migliaia di famiglie che ne stanno tuttora beneficiando; l’operazione dovrà compiersi sotto la supervisione dell’apposita “Commissione del Governo degli Stati Uniti per la devoluzione delle proprietà di Cuba”.
Un altro importante capitolo da affrontare riguarderà la privatizzazione dell’economia del Paese, compresi i settori dell’educazione e dei servizi sanitari (vale a dire, i due più importanti benefici di cui può ancora godere il popolo cubano): “tutte le cooperative verranno sciolte e sarà immediatamente ripristinato il vecchio sistema del latifondo; sarà inoltre eliminato il vecchio apparato di assistenza sociale e chiuse tutte le strutture per anziani (pensionati e ricoveri)”.* Di tutto ciò si dovrebbe occupare un altro fondamentale apparato governativo, il “Comitato permanente del Governo degli Stati Uniti per la ricostruzione economica di Cuba”.
Ora però, per muovere una guerra contro Cuba (e sempre che si opti per una soluzione militare), gli Usa saranno costretti a trovare un pretesto più che credibile. Storicamente, esiste già al riguardo un’impressionante serie di precedenti che partono dall’(auto)affondamento della corazzata “Maine” nel Mar dei Caraibi (che provocò nel 1898 l’inizio della guerra ispano-americana), passando per Pearl Harbour (7 dicembre 1941), fino ad arrivare all’attentato dell’11 settembre 2001, il casus belli dell’invasione dell’Afganistan e dell’Iraq.
Del resto, già a partire dal lontano 1962 Cia e Pentagono avevano cominciato ad elaborare strategie per giustificare un attacco contro Cuba. Ciò è testimoniato dall’esistenza di numerosi documenti declassificati chiamati “Piani Northwoods”. Ad esempio, nella sezione denominata “Annex to appendix to enclusure A” di uno di questi fascicoli i compilatori, alcuni brillanti esperti di strategia militare del Dipartimento della Difesa, suggerivano di:
·         Diffondere a Cuba voci false utilizzando radio clandestine;
·         Dare vita a finti attacchi, sabotaggi e rivolte nella baia di Guantanamo, sede della base americana, accusando poi le forze cubane;
·         Bruciare con bombe incendiarie i raccolti di nazioni come Haiti, Repubblica Dominicana o altre, fornendo poi prove della responsabilità cubana.
Ma forse il vero problema per Bush è che l’invasione di Cuba da parte di soldati americani sarebbe - in qualsiasi caso - mal tollerata dalla comunità internazionale, per non parlare poi del rischio di  subire ingenti perdite. Perciò nell’eventualità di un attacco all’isola, il “lavoro sporco” toccherebbe ai soliti gruppi di paramilitari prezzolati (stile “contras”) - come già accaduto nel 1961 nel caso del fallito tentativo di invasione alla Baia dei Porci - evitando in tal modo situazioni di guerra “molto imbarazzanti” che vedrebbero coinvolte truppe regolari dell’esercito degli Stati Uniti.
Perfettamente adatte a questo scopo sono le decine di unità paramilitari di estrema destra che da anni compiono in Florida i loro cicli di addestramento, tollerate quando non incoraggiate dalle stesse autorità statunitensi. I loro capi sarebbero disposti, e senza alcuna esitazione, ad impegnarsi in incursioni sul territorio cubano, come ha più volte dichiarato pubblicamente Romy Frometa, sedicente comandante dell’unità denominata “Commando F-4”, già responsabile in passato di attività terroristiche e di sabotaggio a Cuba e in Venezuela.
In aggiunta ai guerriglieri di destra altri “enti” foraggiati dalla Cia, come la “Fondazione Caribe” o la ben più celebre “Fondazione Nazionale Cubano Americana” (FNCA), continuano a rivelarsi delle preziose fonti di appoggio alla causa anticastrista, sia a livello propagandistico che sotto un profilo logistico-militare. José Antonio Llama, ex direttore della FNCA, durante un’intervista rilasciata ad un’emittente televisiva americana, ha confessato di aver personalmente provveduto ad acquistare per conto della sua fondazione “un elicottero da carico, 10 aerei ultraleggeri, 7 imbarcazioni, 1 lancia veloce e del materiale esplosivo”, in vista di un loro l’impiego in operazioni di sabotaggio sull’isola caraibica.
E così, mentre Mr. Bush non perde occasione per lanciare crociate contro “stati canaglia” e fantomatiche centrali del terrorismo internazionale, il governo da lui presieduto continua a proteggere e a far circolare a piede libero terroristi del calibro di Orlando Bosch e di Antonio Posada Carriles (membro, quest’ultimo, del commando che nel 1976 fece esplodere un aereo di linea cubano con centinaia di passeggeri a bordo), garantendo loro l’assoluta impunità. Al contrario i cinque informatori cubani, arrestati ingiustamente nel 1998 mentre stavano indagando sulle attività terroristiche dei gruppi anticastristi presenti in Florida, rimangono tuttora reclusi nelle carceri di massima sicurezza americane; anche di fronte all’intervento dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu che ha dichiarato arbitraria ed illegale la detenzione dei cinque cubani, sollecitando il Governo degli Stati Uniti a risolvere detta situazione. 
Tutto questo continua ad accadere, oggi, nel Paese che si propone al mondo intero come alfiere della libertà e della democrazia.

Andrea “Chile” Necciai


 

Note:
* “Il Piano Bush di assistenza a una Cuba libera”. Cronaca di una guerra annunciata.
Ricardo Alarcón de Quesada.

sabato 17 giugno 2006

AL REVES: in difesa dell’umanità



Il testo della Dichiarazione di Anzoategui (Venezuela)

In Venezuela, la culla del libertador Simón Bolívar, decine di intellettuali e di artisti provenienti da diversi paesi e culture dell’America Latina si sono dati appuntamento per ribadire con forza il loro impegno contro la guerra imperialista e il terrorismo, in un’epoca in cui la Carta delle Nazioni Unite continua a non essere rispettata, la legalità internazionale è stata più volte violata e calpestati principi come il non-intervento negli affari interni degli Stati o il concetto stesso di sovranità.
Nonostante la lezione delle due guerre mondiali, la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra e delle popolazioni civili è ormai un vago ricordo del passato, mentre i detenuti seguitano ad essere torturati in luoghi al di fuori del controllo della legge, a Guantanamo come ad Abu Ghraib.
L’invasione e la successiva devastazione dell’Iraq, le minacce nei confronti delle altre nazioni del Medio Oriente, il genocidio del popolo palestinese, le costanti attività militari in Africa e in America Latina rivelano sempre più la vocazione delle grandi nazioni ad imporre “col sangue e col fuoco” un ordine internazionale basato sull’esercizio indiscriminato della forza.

Dichiarazione di Anzoategui, Venezuela -7 giugno 2006.

“Quando nel 1936 il colpo di stato di Francisco Franco scatenò la guerra civile che mise fine al breve ma affascinante sogno della Seconda Repubblica Spagnola, le persone più lucide nel mondo compresero immediatamente che la Spagna era solo la prima trincea di una guerra globale foriera di atroci conseguenze per l’intera umanità. Il fascismo di Hitler e Mussolini sembrava a molti una soluzione accettabile alla crisi del capitalismo e, incoscienti o indifferenti alla sua barbarie, le classi dirigenti europee tradirono la causa della dignità dei popoli, sempre contagiosa e potenzialmente “rivoluzionaria”. La sconfitta della Seconda Repubblica inaugurò una delle epoche più fosche della storia recente, ma la generosità e il coraggio di coloro che allora offrirono la loro vita per difendere quel sogno ancora ci sostengono e ci animano.
Dopo aver formalmente sconfitto il fascismo nella Seconda Guerra Mondiale, le stesse forze economiche e ideologiche che lo abbatterono hanno continuato e continuano ad aggredire con ogni mezzo qualsiasi progetto di sovranità popolare, di giustizia e di resistenza al dominio imperiale. Settant’anni dopo il golpe franchista, analoghi pericoli di derive autoritarie - di portata globale - stanno mettendo a rischio la sopravvivenza della specie umana. Di fronte a tutto ciò, con l’appoggio decisivo dei grandi mezzi di comunicazione, si continua a giustificare la barbarie e a promuovere la guerra, l’indifferenza e la selvaggia legge del più forte.
Sull’America Latina, considerata nella geopolitica coloniale come il “cortile di casa” degli Stati Uniti, queste minacce si concentrano in modo particolare ma, al tempo stesso, cominciano a germogliare i semi di una nuova coscienza e di una rinata speranza. L’attualità ci racconta quotidianamente le sofferenze di molte popolazioni sottoposte al terrorismo di stato degli Stati Uniti e dei loro complici. I crimini di guerra nei confronti del popolo palestinese, afgano, iracheno, le torture a Guantanamo e ad Abu Ghraib, le carceri segrete, i voli clandestini della Cia, l’esecuzione sistematica di intellettuali iracheni, di sindacalisti e di contadini latinoamericani, le leggi contro i diritti e la libertà delle persone, l’ostilità permanente contro i processi sociali in corso nel Venezuela bolivariano, a Cuba, e ora in Bolivia, sono gli strumenti di un capitalismo militarizzato e criminale, che non agisce in nome di una supposta superiorità della razza, bensì come artefice e tutore della democrazia planetaria.
Settanta anni fa grandi scrittori e poeti, di una e dell’altra sponda dell’Atlantico, difesero insieme in Spagna la causa della libertà; lì vi erano, tra gli altri, Cesar Vallejo, Pablo Neruda, Miguel Hernandez, Antonio Machado, Rafael Alberti, Nicolas Guillén e, naturalmente, Federico Garcia Lorca, assassinato nelle prime settimane del conflitto perché simbolo dell’incontro della parola con la dignità. Come diceva un altro grande poeta spagnolo, “la poesia non può essere concepita come un lusso culturale per i neutrali”, laddove la neutralità è complice della tirannia, dell’ingiustizia e della morte. La poesia deve salvaguardare la verità quando è minacciata e guidarci, come ancora oggi ci guida, verso la solidarietà e l’impegno civile.
Noi giornalisti, scrittori e poeti della “Rete in Difesa dell’Umanità” appoggiamo la lotta del popolo iracheno che si oppone all’invasore nordamericano, e la resistenza dei popoli dell’America Latina che sono in prima linea di fronte all’aggressione imperialista.”*

Seguono le firme di 40 intellettuali latinoamericani.

Andrea “Chile” Necciai


* Testo inviato da Armando Rama Martell – Segreteria della sezione cubana della “Rete in Difesa dell’Umanità”.

sabato 20 maggio 2006

AL REVES: ricordando Schafik



Vita e morte di un rivoluzionario esemplare

A distanza di qualche mese dalla sua morte improvvisa, molti salvadoregni piangono ancora la perdita di Schafik Jorge Handal, leader carismatico del Frente Farabundo Martì de Liberacion Nacional, personaggio amatissimo dal suo popolo per aver dedicato tutta una vita alla lotta sociale - prima quella armata, come capo guerrigliero durante la guerra civile del 1980-1992, poi quella politica come dirigente di partito.
Ai funerali hanno partecipato migliaia di persone, nonché i rappresentanti di 20 paesi tra i quali Venezuela, Brasile, Argentina, Bolivia, Cuba, Nicaragua, Guatemala e Repubblica Dominicana; ma molti altri paesi primeggiavano in quella folla che cantava: “Il Comandante rimane, il Comandante non va via”. Il giorno prima il Parlamento Centroamericano (PARLACEN) aveva decorato post mortem Handal con la medaglia d’Onore al Merito Centroamericano, una delle più importanti concesse ai capi di stato e alle persone illustri che hanno svolto la propria opera in modo esemplare; un giusto riconoscimento del popolo dell’America Centrale a un grande uomo che con la sua morte lascia un vuoto enorme, ma anche il suo pensiero profondo e l’insegnamento del suo esempio.
Di lontane origini palestinesi, Schafik Handal conseguì la laurea in Diritto all’università di San Salvador, dove diventò anche dirigente del movimento per la riforma e l’autonomia universitaria. La sua lunga militanza nel Partito Comunista Salvadoregno ebbe invece inizio nel lontano 1944; un anno cruciale per il cammino democratico del piccolo paese centroamericano, paralizzato da una serie di scioperi e di furiose proteste popolari che portarono alla caduta della dittatura di Maximiliano Hernandez.
Come conseguenza del suo impegno politico, il giovane Handal fu presto costretto a fuggire in esilio, in Cile e Guatemala, per poi far ritorno nel suo paese d’origine in assoluta clandestinità e appena in tempo per contribuire all’organizzazione della lotta rivoluzionaria. In quel periodo, Handal si distinse come capo delle formazioni guerrigliere integrate nel Fronte Farabundo Martì di Liberazione Nazionale, che combatté per tutti gli anni ottanta contro la dittatura militare appoggiata apertamente dagli Stati Uniti. Alla fine del conflitto armato (1992), Schafik fu a capo della commissione del FMLN che partecipò ai negoziati di pace, contribuendo all’apertura di ampi spazi di partecipazione politica e civile per la neonata sinistra salvadoregna. E dopo la trasformazione del FMLN in partito politico, il “Comandante” si presentò alle elezioni amministrative del 1994 come candidato sindaco per il comune di San Salvador.
Nel 2002 il Fronte Farabundo Martì conobbe la sua crisi più acuta. La fazione “riformista” capeggiata da Facundo Guardado stava portando il partito verso la scissione, entrando decisamente in rotta con la cosiddetta “ala dura” (l’altra parte della dirigenza composta dagli ex-combattenti di area “social-rivoluzionaria”), stigmatizzata come troppo conservatrice e quindi incompatibile con la modernità e la democrazia. Del resto, un po’ ovunque nel mondo, quelle organizzazioni che in passato erano stati movimenti rivoluzionari o guerriglie popolari stavano attraversando analoghi processi di “rinnovamento” (o per meglio dire di “mutazione genetica”), trasformandosi a loro volta in partiti politici con orientamenti molto lontani dalle loro posizioni di partenza.
In Salvador Joaquin Villalobos, anch’egli ex-comandante del FMLN, da molti considerato uno stratega eccellente e un uomo di grandi doti politiche, una volta deposte le armi si lasciò sedurre dalle sirene della politica, tradendo completamente i suoi principi rivoluzionari. Dopo una breve esperienza ad Oxford, dove gli fu offerta una cattedra, tornò in patria per fondare un piccolo partito filo-statunitense, stretto alleato della destra salvadoregna.
Più tardi, anche Facundo Guardado finì per fare il gioco delle destre. Ad un certo punto della campagna elettorale, il leader “rinnovatore” arrivò ad essere definito un “buon rivoluzionario” da quella destra che, per ovvie ragioni di opportunità politica, non perdeva occasione per favorire con ogni mezzo il processo riformatore all’interno del Frente, sperando così in una sua provvidenziale “spaccatura”.
Ma l’intento destabilizzatore era destinato a fallire miseramente. Il FMLN cresceva insieme ai suoi militanti proprio perché riusciva nel tempo, nonostante le sue contraddizioni interne, a tener fede ai suoi principi d’origine. Ben presto, infatti, la linea ortodossa tornò ad imporsi come maggioranza, e mentre l’astro di Facundo Guardado tramontava definitivamente, la popolarità di personaggi come Handal, rimasti ligi alla linea d’un tempo, continuava a rimanere integra.
Schafik rimase a lungo il deputato più caro ai settori popolari, ma anche il più calunniato dai media e da una larga parte della destra salvadoregna. Di conseguenza, la fama di rivoluzionario “ortodosso” ed intransigente che si era ritagliato nel corso degli anni lo portò ad essere stimato anche all’estero come uomo d’azione e - al tempo stesso - come ideologo, grazie soprattutto ai lucidi interventi in occasione delle molteplici conferenze internazionali a cui partecipò come membro della delegazione del FMLN.
Hugo Chavez, il presidente del Venezuela, ha scritto di recente alla vedova Handal una lettera molto commovente e piena di ammirazione per il compianto “Comandante Schafik”. Anche Fidel Castro non ha mai nascosto di aver stretto con Handal una profonda amicizia; il messaggio di condoglianze del presidente cubano aggiungeva che “Cuba si sente orgogliosa di aver avuto Schafik Handal tra i suoi più generosi e combattivi amici. Il mondo rende omaggio a chi ha sempre vissuto con dignità, fedele ai principi di libertà e di giustizia sociale, senza mai tirarsi indietro”.

Andrea “Chile” Necciai