lunedì 1 dicembre 2003

AlReves: Perù


Sulle orme di Tupac Amaru

 “Sole raggiante delle Ande, tu che cammini per il mondo[…] Quante voci oggi ti acclamano se sei astro o se sei dio. Se l’uomo è a tua immagine, perché ti allontani da lui? Se il povero è tuo amico, perché gli volti le spalle?”. Sono parole di una canzone di Manuel Silva, celebre cantautore peruviano meglio conosciuto con il nome di Pichincucha. Sono grida di dolore e risentimento di un popolo martoriato per secoli dalla miseria e da una serie infinita di soprusi e ingiustizie sociali.                                      
Il Perù di oggi, dopo la triste parentesi del regime autoritario di Alberto Fujimori, sta attraversando una delicata fase di transizione democratica. L’attuale governo “socialdemocratico” di Alejandro Toledo, insediatosi nel luglio del 2001, ha preso in eredità un paese sull’orlo del collasso, a causa degli effetti nefasti delle politiche neoliberiste degli anni 90 che hanno fatto aumentare a dismisura il debito estero e la disuguaglianza sociale.
Secondo il rapporto di “Social Watch” per l’anno 2001, “a Lima il 45,2% della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta; nelle aree rurali la percentuale sale al 66,1%. Nelle aree urbane l’84% della popolazione dispone di acqua potabile; nelle aree rurali solo il 33%. Nelle aree rurali esistono poche scuole secondarie e il programma di istruzione primaria è decisamente scarso. Fra i non poveri, soffre di malnutrizione l’11% dei bambini al di sotto dei cinque anni; fra i poveri assoluti la percentuale sale al 43,5%. Un altro dato allarmante è il fatto che solo il 7,4% delle persone che vivono in condizioni di povertà assoluta ricorre alle strutture sanitarie in caso di malattia”.
In questo scenario di recessione economica e crisi sociale, riprendono vigore i movimenti armati di “Sendero Luminoso” e gli irriducibili combattenti del “Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru”, dei quali si erano da tempo perse le tracce.
Le origini del MRTA risalgono al 1982, anno della sua fondazione in seguito alla fusione di una parte consistente del Partito Socialista Rivoluzionario Marxista Leninista (PSR-ML) con l’avanguardia Rivoluzionaria (VR). Tuttavia, il gruppo guerrigliero affonda le sue radici culturali e politiche ben più indietro nel tempo: nella storia dei moti di ribellione del popolo inca sotto l’occupazione spagnola. Il suo faro ispiratore è Tupac Amaru, l’inca che quattro secoli fa guidò una gigantesca rivolta contro l’occupante straniero, poi sedata col sangue dei ribelli insorti. Gli indios ancora oggi lo venerano come un Dio che subì il martirio e vedono nel patibolo, sul quale si immolò, il simbolo del nuovo calvario del popolo peruviano.
Dopo anni di lotta clandestina e sempre alla ricerca di maggiore visibilità internazionale, nel 1996 l’MRTA passa decisamente all’azione con un audace colpo di mano a Lima. Un gruppo armato di giovani militanti (tutti di età compresa tra i 15 e i 18 anni) fa irruzione nell’ambasciata giapponese capitolina dove vengono prese in ostaggio 72 persone. Si tratta, per lo più, di funzionari governativi e diplomatici internazionali.
Gli obiettivi del commando guidato da Nestor Cerpa Cartolini vanno ben oltre la richiesta avanzata dal gruppo, ossia la scarcerazione immediata dei detenuti politici del MRTA (condizione necessaria per ottenere il rilascio degli ostaggi dell’ambasciata); si tenta piuttosto, con quell’azione eclatante, di attirare l’attenzione del mondo sul dramma vissuto dai peruviani sotto la dittatura fujimorista.
In effetti, l’impatto mediatico suscitato è enorme, a tal punto che i combattenti dell’MRTA ottengono l’apertura di una lunga mediazione internazionale. Questa soluzione garantirebbe almeno l’incolumità dei guerriglieri che avrebbero asilo politico da un paese amico; ma i margini della trattativa sembrano comunque esigui.
Infatti dopo un assedio di 126 giorni, il governo decide improvvisamente di rompere gli indugi dando via libera all’intervento dei corpi speciali. Ora tutti gli occhi del mondo sono puntati su Lima, mentre gli operatori della CNN documentano in diretta televisiva - con l’enfasi spettacolare di un film d’azione hollywoodiano - le fasi finali dell’attacco all’ambasciata.
Gli assaltatori dell’esercito fredderanno senza pietà uno dopo l’altro tutti i giovani ribelli, lasciando sul terreno anche uno degli ostaggi, Carlos Giusti (giudice della Corte Suprema di Lima, nonché oppositore politico di Fujimori), che verrà “provvidenzialmente” raggiunto da un proiettile vagante.
Alberto Fujimori esce così vincitore da quel lungo “braccio di ferro”: può finalmente accreditarsi agli occhi di Clinton e dei “poteri forti” dell’economia come risoluto tutore dell’ordine pubblico. Qualche anno dopo, però, sarà lo stesso “Chino” a scontare gli abusi del suo governo: nel giugno del 2001 il suo braccio destro Vladimiro Montesinos, capo dei servizi segreti (il famigerato SIN) e vera “eminenza grigia” del regime, viene incriminato per aver corrotto - con elargizione di cospicue somme di denaro - alcuni membri del parlamento ed altri esponenti dell’opposizione.
Travolto dagli echi dello scandalo e ormai privato del consenso popolare, Fujimori si decide finalmente a lasciare il Perù per la sua terra d’origine, il Giappone, dove vive tuttora in una sorta di esilio dorato, appena sfiorato dai procedimenti giudiziari (corruzione e narcotraffico) che gravano sulla sua persona. Il destino di 25 milioni di peruviani dipende ora dall’operato dell’amministrazione Toledo che  promette giustizia e prosperità, senza però - al momento - aver concretizzato nessuno degli impegni presi con gli elettori.
Come in Ecuador nel gennaio 2000 contro il presidente Mahuad, o in Argentina nel dicembre 2001 contro De La Rua, o in Bolivia lo scorso mese contro Sanchez De Losada, i popoli del “Cono Sur” continuano ad insorgere contro il modello economico che dovunque in America Latina ha aggravato la corruzione, impoverito le popolazioni e favorito disuguaglianza ed esclusione sociale.
(Chile)


“Come un eremita antico io trascorro qui i miei giorni su queste carte e scrivo la storia del mondo offeso (…) Soffro, ma scrivo, e scrivo di tutte le offese, una per una, e anche di tutte le facce offensive che ridono per le offese compiute e da compiere”.(Elio Vittorini)

sabato 1 novembre 2003

AlReves: Bolivia


“Povera Bolivia, lontana e sola”

Correva l’anno 1967. In località La Higuera (valle dello Yuro) veniva barbaramente giustiziato Ernesto “Che” Guevara, in seguito alla cattura per mano delle forze speciali dell’esercito boliviano, addestrate ed armate negli Stati Uniti. Il libertador argentino era giunto in terra boliviana con un pugno di guerriglieri, convinto di poter gettare le basi per un moto rivoluzionario che, almeno nelle sue intenzioni, era destinato ad espandersi in tutto il continente. L’esito dell’impresa fu invece, come sappiamo, disastroso.
A più di trent’anni da quell’evento, la tragedia si rinnova in un paese, la Bolivia, che dai tempi dei “conquistadores” ha subito ogni sorta di saccheggio dai colonizzatori di turno. L’avidità dei mercanti dell’Occidente ha già provocato, nei secoli scorsi, la razzia dell’argento di Potosì (responsabili gli spagnoli) e del salnitro (gli inglesi). Il popolo boliviano, il più povero tra i più poveri del sudamerica, ebbe in cambio migliaia di indigeni morti nelle miniere e una perdurante condizione di miseria.
Oggi, a far gola ai nuovi sfruttatori del pianeta ci sono petrolio e gas, ossia le ultime risorse rimaste in abbondanza nella terra andina. Evidentemente la vacca, sebbene sempre più magra e debilitata, può essere ancora munta a dovere. Almeno così pensavano le compagnie nordamericane che negli ultimi tempi hanno beneficiato di enormi quantità di idrocarburi, venduti sottocosto dal governo boliviano dell’ossequioso e compiacente presidente Sanchez de Lozada, soprannominato per questo motivo el Gringo.
Se non che, nel mese scorso, la pressione esercitata dai tumulti popolari e dagli scioperi ad oltranza è divenuta insostenibile, tanto da costringere el Gringo e i suoi sodali alle dimissioni e ad una precipitosa fuga in quel di Miami.
Così, dopo sei settimane convulse ed una lunga scia di sangue - si calcola che le vittime della repressione tra i manifestanti siano un’ottantina - il vice di Sanchez, Carlos Mesa, ha finalmente preso le redini del paese giurando fedeltà alla Costituzione davanti al Congresso.  
Dopo aver reso un doveroso omaggio ai caduti nella rivolta popolare, il nuovo presidente pare ora intenzionato a soddisfare le tre principali richieste dell’opposizione: un referendum nazionale sulla questione del gas (il “detonatore” che ha fatto esplodere la protesta), la revisione della Ley de Hidrocarburos - con cui el Gringo aveva regalato alle multinazionali l'ultima risorsa rimasta alla Bolivia - ed infine la creazione di un'assemblea costituente. La prospettiva, sempre secondo il neo- presidente, è di giungere al più presto a nuove elezioni.    
Come era ovvio aspettarsi, gli unici a rimanere delusi dagli sviluppi della crisi boliviana sono gli statunitensi. Il Dipartimento di Stato americano, rasentando l’ipocrisia, comunica a denti stretti che “gli Usa sono pronti ad assistere il popolo boliviano e il suo governo impegnato nel compito essenziale di rimettere ordine nelle istituzioni nazionali”. Nel frattempo, però, si sono affrettati a costituire un team di esperti militari - trattasi, con ogni probabilità, della solita équipe di prezzolati specialisti delle operazioni anti-sommossa - per garantire la sicurezza della loro ambasciata a La Paz.
Sempre sul fronte esterno, l’Argentina di Kirchner e il Brasile di Lula hanno fatto sapere di apprezzare l’insediamento del nuovo presidente. Elogi e plausi arrivano anche dall’Unione Europea. E pensare che fino a qualche settimana fa Bruxelles continuava a sostenere imprudentemente l’operato di Sanchez de Lozada!
Tirando le somme, dopo i precedenti disastrosi di Brasile ed Argentina - tanto per citare i fallimenti più eclatanti - il caso boliviano dovrebbe finalmente indurre Stati Uniti e UE a rivedere, in fatto di politica economica, le strategie che da una ventina d’anni tentano di imporre sciaguratamente al continente latinoamericano. Strategie di un capitalismo “d’assalto” che non può funzionare sui paesi “vittime” (il sud del mondo) e che persino nelle aree più ricche ed industrializzate (il nord del mondo) continua a produrre, lentamente ma inesorabilmente, conseguenze sociali devastanti.
(Chile)

mercoledì 1 ottobre 2003

AlReves: Messico


Zapata vive ancora

Nella totale indifferenza dei media e lontano dai riflettori della politica, il Messico zapatista ha salutato con entusiasmo la nascita delle Giunte del Buon Governo - o “Caracoles” nel linguaggio chiapaneco. L’evento coincide con il 20° anniversario della nascita dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale); vent’anni di lotta contro la discriminazione e l’esclusione sociale di cui sono vittime le comunità indigene da oltre 500 anni, ma soprattutto vent’anni di resistenza alla guerra di “bassa intensità” messa in atto dal governo messicano ora guidato da Vicente Fox (ex dirigente della Coca Cola e strenuo difensore degli interessi del capitale foraneo nel paese).
L’insurrezione armata zapatista ha inizio il primo gennaio del 1994, a seguito del progressivo peggioramento delle condizioni di vita della popolazione del Chiapas. La ricchissima regione del sud est messicano - qui si produce il 55% dell’energia nazionale, il 47% del gas, il 28% del petrolio - sconta tuttora gli effetti dei piani di aggiustamento strutturale imposti dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale.
In poco tempo, anche a causa dell’applicazione del NAFTA (trattato di libero commercio tra Stati Uniti, Canada e Messico), il prezzo del grano prodotto diminuisce drasticamente così come il potere d’acquisto dei contadini locali (-40%). Nel febbraio del 2001, dopo circa sette anni di violenti scontri armati tra l’EZLN e le truppe dell’esercito e dei paramilitari inviati in Chiapas per sedare la rivolta, le due parti in lotta acconsentono ad incontrarsi per riallacciare il dialogo.
Si arriva così all’imponente marcia zapatista (marzo 2001), che si conclude con l’intervento di una delegazione della comandancia dell’EZLN al parlamento di Città del Messico e che vede una significativa partecipazione di giornalisti, emissari politici e rappresentanti della società civile da tutto il mondo (per l’Italia si mobilitano, tra gli altri, Tute Bianche, Rifondazione, Mani Tese e vari comitati d’appoggio…).
Messo alle corde dal clamore suscitato dall’evento, il governo si affretta a varare la Ley Indigena (aprile 2001), che nelle intenzioni dei firmatari dello storico Accordo di San Andrés (1996) doveva costituire il primo passo verso la risoluzione della “questione Chiapas”. Di fatto però il contenuto originale della proposta di legge, con alcune rilevanti concessioni alla causa indigena, viene completamente stravolto in sede di discussione parlamentare da decine di emendamenti. Il risultato è un documento inconsistente e pieno di ambiguità che lo stesso EZLN non esita a definire “una vera beffa”. “Non abbiamo bisogno che il governo ci appoggi con una miseria”, dice il comandante David, “ma che riconosca la libera determinazione di tutti i popoli indigeni. Esigiamo che ci trattino con uguaglianza e giustizia. Siamo poveri, ma non siamo né mendicanti né delinquenti”.
Segue un lungo silenzio di indignazione, rotto soltanto da alcune dichiarazioni di solidarietà per le mobilitazioni no-global contro la guerra ed il neoliberismo. Ma il cambiamento di rotta è nell’aria. Troncato definitivamente il dialogo con la compagine governativa, la strategia politica dell’EZLN si orienta verso un lento processo di smilitarizzazione a vantaggio di nuove forme di auto-governo civile. Da qui l’”invenzione” dei Caracoles, veri e propri modelli di democrazia partecipativa che ricalcano la tradizione dell’EZLN del “mandar obedeciendo” (comandare obbedendo), senza ricorrere all’esercizio del potere ma anzi facendone a meno. Potremmo definire i Municipi Autonomi come una delle più alte espressioni del sistema di vita comunitario.
Gli zapatisti continuano ad insegnarci che “democrazia significa l’accordo dei pensieri. Non che tutti pensino allo stesso modo ma che tutti i pensieri cerchino un accordo comune, che sia buono per la maggioranza senza trascurare la minoranza”, e che “giustizia non significa punire, ma dare a ciascuno ciò che merita, e ciascuno merita ciò che lo specchio gli restituisce: ciò che egli dà.”
L’esempio per ricreare una società più umana e solidale ci giunge ancora una volta dagli ultimi, dai dimenticati della Terra, dagli uomini e dalle donne di Mais. Un’altra lezione di civiltà per un mondo, il nostro, costantemente rivolto all’individualismo e sempre più in preda al delirio consumistico.
(Chile)

lunedì 1 settembre 2003

AlReves: El Salvador


El Salvador: una svolta inevitabile

 In America Latina il vento sta cambiando. Segnali di novità si avvertono un po’ ovunque con l’affermazione di governi di marca progressista in Brasile, Ecuador, Venezuela - Chavez tiene ancora, pur tra mille difficoltà - e, ultimamente, in Uruguay.
A più di dieci anni dalla fine della guerra civile che lo ha dissanguato (70.000 le vittime in totale), anche nel più piccolo degli stati centroamericani, El Salvador, fermentano idee di rinnovamento. La stessa società civile, resa più matura dall’eredità lasciata da Monsignor Romero, si batte per la riconquista dei diritti – sinora negati al popolo dal governo nazionalista e filo-statunitense di ARENA – e per estirpare le piaghe della disoccupazione e della miseria dilagante. L’occasione propizia al cambio si intravede nelle elezioni presidenziali della primavera del 2004 che vedono favorito il principale partito dell’opposizione, l’FMLN di ispirazione marxista, nel quale sembrano convivere (non senza difficoltà) le diverse anime della sinistra ortodossa.
Nato dallo scioglimento della guerriglia ribelle, il Frente Martì para la Liberacion Nacional propone un programma di governo incentrato sulla lotta alla povertà e su un modello di sviluppo economico compatibile con le istanze delle fasce più deboli della popolazione. L’impresa si prospetta tutt’altro che semplice, in un contesto internazionale dominato dalle politiche neoliberiste - come il Trattato di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) - che tendono sempre più a favorire gli interessi di grandi corporazioni e multinazionali, a discapito delle già fragili economie locali.
Nonostante la campagna elettorale non si sia ancora aperta ufficialmente, la compagine governativa di ARENA ha già cominciato a battere sui tamburi della propaganda, contando sul controllo pressoché totale dei mezzi di telecomunicazione. La squadra del presidente Flores (uno dei più squallidi esempi di intreccio di poteri tra oligarchia imprenditoriale e casta militare) può vantare sinora solo effimeri successi nella lotta alla delinquenza organizzata, in seguito all’introduzione della legge “mano dura” che prevede misure repressive contro le famigerate “pandillas” armate. Ben lungi dal rappresentare una soluzione efficace al problema della violenza giovanile, questi provvedimenti rivelano l’incapacità del governo nell’affrontare i veri drammi che affliggono il popolo salvadoregno: la crisi economica, la mancanza di lavoro, il degrado e la disuguaglianza sociale.
Nascosti dietro questa coltre demagogico-propagandistica, i processi di privatizzazione dei servizi pubblici continuano, intanto, il loro corso. La situazione più critica è quella della sanità.
L’intendimento del governo è di mettere all’asta i servizi offerti dalle strutture ospedaliere (cliniche, ospedali, ambulatori…) in modo da attirare il capitale straniero, arrivando a lucrare persino sulla salute dei cittadini. A tal proposito, è attiva da tempo una commissione di riforma del servizio sanitario nazionale alla quale aderiscono anche alcune ONG che operano nel settore.
Questa ondata di privatizzazioni ha provocato, come era logico aspettarsi, l’ostilità di molte delle organizzazioni di categoria. Con in testa il personale medico-sanitario, i sindacati hanno ingaggiato un’aspra battaglia per la difesa della sanità pubblica organizzando ovunque manifestazioni e scioperi ad oltranza, l’ultimo dei quali è durato addirittura nove mesi.
Nel frattempo, la campagna di sensibilizzazione contro le riforme del governo sembra aver influito in modo determinante sulla recente affermazione del Frente alle elezioni amministrative svoltesi all’inizio dell’anno. Stando ai risultati di questa consultazione, l’FMLN è ora il primo partito del Salvador. Mentre si avvicinano le presidenziali del 2004, poiché, al momento, i partiti di centro non hanno raggiunto una consistenza tale da costituire una forza alternativa ai due principali “blocchi”, la partita politica si gioca tutta tra FMLN e ARENA. Il rischio è quello di sprofondare in un clima di contrapposizione violenta tra gli stessi schieramenti protagonisti della lunga stagione della guerra civile (1980-1992). 
L’FMLN si trova ormai ad un passo da un successo storico: il “futuro migliore” degli slogan frentisti può finalmente diventare una realtà…
(Chile)

martedì 1 luglio 2003

AlReves: Cuba


Cuba duele?

Negli ultimi giorni abbiamo assistito al susseguirsi di violente critiche da autorità politiche e religiose, da importanti uomini di cultura e dell’informazione all’indirizzo del governo cubano. Questa ondata di contestazione ha per oggetto il duro giro di vite operato dall’amministrazione castrista contro l’opposizione interna al regime. Nell’arco di poche settimane, infatti, sono state comminate nell’isola caraibica tre esecuzioni capitali e numerose altre condanne a pesanti pene detentive nei confronti dei dissidenti politici.
Del tutto inaspettatamente, le filippiche più severe sono arrivate da personaggi del calibro di Galeano e Saramago, uomini di insospettabile fede socialista che in passato hanno sempre difeso le scelte della Rivoluzione. L’evolversi di questa situazione ha gettato sgomento anche negli ambienti della sinistra europea, delineando una spaccatura netta tra chi continua a considerare Cuba il baluardo della lotta contro il neoliberismo americano e chi, per converso, ha deciso di cambiare rotta unendosi al coro quasi unanime dei contestatori.   Spesso i giudizi espressi su Cuba, critici e sprezzanti, non tengono sufficientemente conto dei suoi trascorsi storici, come pure del contesto socio-economico di riferimento (lo stato di salute degli altri Paesi dell’America Latina, in quanto a benessere e democratizzazione, desta ben più preoccupazione).

A questo proposito, è utile ricordare che le conquiste in campo sociale (assistenza sanitaria e istruzione gratuita per tutta la popolazione – caso unico nel contesto latinoamericano), conseguite dalla Rivoluzione Cubana, hanno prodotto nel tempo una drastica riduzione del tasso di analfabetismo e mortalità, vale a dire le peggiori piaghe ereditate dal regime filo-statunitense di Fulgencio Batista (1952-1958). Questi importanti obiettivi sono stati raggiunti e consolidati a prezzo di enormi sacrifici, nonostante la pressione dell’embargo statunitense (in vigore da oltre 40 anni) che continua a privare Cuba delle risorse necessarie al suo sviluppo economico e sociale.
Per meglio contribuire a far chiarezza sulle questioni appena accennate, riceviamo e pubblichiamo con piacere la lettera della professoressa Maria Cordova, docente dell’ “Instituto Superior de Artes” dell’Avana. Le parole che seguono testimoniano, fuor di retorica e meglio di qualsiasi trattazione o ricerca sociologica, il dramma quotidiano vissuto dal popolo cubano.
(Chile)

Lettera di una madre cubana al mondo
Sono un’intellettuale cubana, maestra di molti giovani limpidi e sognatori, e madre di due sani e graziosi bimbi. Oggi, osserviamo che alcune persone di cultura - non solo rispettate, ma in alcuni casi addirittura venerate qui a Cuba - si sono messe a contestare duramente i gravi provvedimenti decisi dal nostro governo contro quegli elementi sovversivi che agiscono per conto della “controrivoluzione”.
Fortunatamente però altri uomini di cultura, tra i quali il saggio Heinz Dietrich, sostengono con forza né più né meno che la VERITA’. Pertanto anch’io, umile madre e maestra, sento il bisogno di far conoscere al mondo la mia verità.
Sanno, quelli che ci criticano, cosa significa esattamente e concretamente vivere sotto un embargo? Si rendono conto che Cuba è un paese del terzo mondo messo in ginocchio economicamente e, per giunta, duramente castigato per anni e anni? Voglio parlare di “piccole storie”.
Un giorno del lontano 1995, all’apice della disperazione, annotai su un quaderno questi appunti: “oggi in casa non abbiamo niente da mangiare, nessun detersivo per lavare (gli indumenti si sono infeltriti a furia di esser lavati con il sale), né sapone, né dentifricio, cerotti sanitari, penne e carta per scrivere; nessun tipo di medicinali, tè, bevande e combustibile… Che fare?”
E chiedo: “quelli che ci criticano hanno mai vissuto un solo giorno della loro vita come questo?”
Sanno, quelli che ci criticano, cosa significa assistere un anziano moribondo di 92 anni (mio padre malato di cancro) e non aver nulla per sfamarlo? Cosa significa per un intellettuale prestigioso andare in giro per il quartiere alla ricerca di un bicchiere di latte per “mio padre che sta morendo”? O dover andare per i campi a cercare legna per cucinare un po’ di cibo caldo per lo stesso anziano moribondo e, con preoccupazione, guardare in cielo le nubi addensarsi perché “se piove oggi non si mangia?” O prestare servizio in un pronto soccorso la notte del 31 dicembre (del 1997), avendo a disposizione soltanto 6 (sei) aspirine per far fronte ai casi urgenti di persone malate?
In uno di quei terribili anni, un alunno mi chiese: “Non se ne va, professoressa?” No, non me ne vado, perché desidero condividere questa tragedia insieme al mio popolo - e con i miei figli - , con la gente del quartiere, con i miei studenti affamati, con i miei amici, i miei conoscenti e con tutti. Non me ne vado per una semplicissima ragione: non posso e non voglio. Per questo occorre avere un tremendo coraggio. Perché per vivere in questo “castigo imperiale” che è Cuba, bisogna essere tipi duri e “rincoglioniti” (scusate, ma non ho un altro vocabolo). E’ la pura verità.
C’è una cosa che il mondo deve ricordare. Noi madri cubane, castigate dall’impero statunitense da sempre e fino all’impossibile, abbiamo sacrificato molte delle nostre migliori persone per una semplice ragione: non vogliamo bambini analfabeti, mendicanti o drogati, né trafficanti o assassini. Non vogliamo bambini senza futuro, sorrisi senza amore. Capite tutto questo? Un’altra cosa va ricordata oggi, e non va mai dimenticata: la pace, la sicurezza e la felicità attuale dell’infanzia e della gioventù cubana non sono negoziabili. In nessun modo negoziabili!
Per quale motivo, poi, dopo tanti sacrifici e privazioni, noi cubani dovremmo permettere ad 80 loschi individui di minacciare la tranquillità dei nostri figli?
Sanno, quelli che criticano, per quale ragione una buona parte del popolo cubano si ostina a sopportare simili atrocità e torture psicologiche? Nessuno se lo è chiesto? O forse qualcuno pensa che i cubani siano masochisti?
In questi giorni tra la nostra gente circola un nuovo proverbio arabo: “Fortunati quelli che  possiedono il petrolio, perché saranno invasi”. Mi piacerebbe proporre anche quest’altro: “Fortunati gli originali, i creativi, i ribelli, i pazzi, gli innamorati, i disobbedienti, i sognatori, perché anche questi saranno castigati”. E quale castigo! Tuttavia andiamo avanti, essendo pazzi, innamorati, sognatori, disobbedienti e ribelli, perché semplicemente ne vale la pena. E’ il grande senso della nostra vita. E l’unico modo per togliercelo è infliggerci la morte.
Sulla dissidenza noi cubani potremmo scrivere un trattato. Si possono trovare qui dissidenti di ogni genere. I “dissidenti felici”, che con il lustro del titolo universitario accorrono in massa negli Stati Uniti. I “dissidenti eleganti”, maestri di gran prestigio, che tornano sull’isola in inverno per tenere le loro conferenze…e ti salutano con aria “primomondista” (e gli alunni che hanno abbandonato? Ah… i poveri. Che possiamo farci?).
Ci sono poi i “vergognosi”, nascosti nelle chiese, che quando il Papa dichiara di essere contrario alla guerra abbassano lo sguardo… I “narco-dissidenti” che fabbricano caramelle drogate per i nostri bambini. Oppure gli “eleganti” che si sottopongono ad interventi di chirurgia plastica (gratis, naturalmente). O ancora “gli onorevoli”, con i loro figli all’Università, che reclamano i migliori medici senza però pagare nulla.
Tuttavia, ci sono altri dissidenti dei quali nessuno parla mai. I dissidenti di tutti i giorni, quelli che vengono criticati fino allo sfinimento. Quelli che – come diciamo noi a Cuba – “non capiscono”: i pazzi, i sognatori, i disobbedienti. Quelli che, lavorando come bestie da soma, hanno lottato - e continueranno a lottare - fino all’impossibile per salvare Cuba (la nostra Cuba) dal collasso degli anni 90. Quelli che si sacrificano duramente, mettendo da parte altri sogni e illusioni, per impedire che questi yankees di merda vengano ad insozzare la nostra terra e a rovinare i nostri figli. Perché il loro sudiciume lo conosciamo molto bene. Ripeto: molto bene!
Vorrei ringraziare, infine, tutti i nostri amici sparsi per il mondo. In primo luogo, grazie agli umili, a quelli che hanno sempre rispettato questi pazzi sognatori, ribelli, disobbedienti e “castigati”.
Grazie a quelli che nonostante tutto “capiscono”; grazie a quelli che di fronte alle ingiustizie non si tirano mai indietro e a quelli che ci animano.
Grazie, in ultimo, a coloro che continuano ad inviarci indumenti, scarpe, matite, quaderni, libri, mezzi di trasporto, computer, dollari e medicine… In realtà ci mandano molto di più: amore, comprensione ed un sostegno morale decisivo nelle ore più difficili.
Per tutti questi amici e compagni oggi siamo ancora qui e continueremo a restarci!